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lunedì 23 luglio 2018

Foreste occupate - Vivere e resistere sugli alberi


Dal Nord America all'Europa: lotte di resistenza contro la deforestazione e per la difesa della Terra

di Liza Candidi

“Vivo sugli alberi da cinque mesi. È l’unico modo che ho per proteggere la vita che la foresta ci ha dato. L’unico modo per chiamarmi fuori da questo abominevole sfruttamento”
Gipsy Eyes, 23 anni, attivista californiana

Centinaia di corpi nudi avvinghiati ad alberi tanto alti che non se ne vede la cima. Così alcuni attivisti difendono le sequoie giganti dall’arrivo di bulldozer pronti ad abbatterle. È solo una delle recenti proteste dei forest defenders della California settentrionale, che da trent’anni tutelano uno fra i patrimoni naturalistici più spettacolari del Nordamerica: alberi colossali di duemila anni che sfiorano i cento metri d’altezza, annoverati fra gli esseri viventi più antichi del pianeta.

Questa foresta, che prima dell’era industriale si estendeva fino a 9000 kmq, è ora ridotta ad appena il 5%, di cui oltre tre quarti in mano privata.

A salvaguardia di ciò che rimane vi sono associazioni e movimenti ecologisti, come la radicale Earth First!, ma anche comitati locali e semplici cittadini, che organizzano proteste, sabotaggi di macchinari e tree-sits: occupazioni di alberi a decine di metri di altezza che costringono i boscaioli a rinunciare all’abbattimento. In questo modo gli occupanti presidiano le foreste primordiali destinate al legname, vivendo giorno e notte su tronchi oscillanti o piattaforme aeree, sprezzanti del vento freddo che soffia dall’oceano.




















È dagli anni Ottanta che questa regione della California è teatro di scontri permanenti fra ambientalisti e boscaioli redneck. In passato non sono mancate nemmeno sanguinose repressioni da parte delle forze dell’ordine, che hanno coinvolto anche l’FBI e impianti accusatori poi rivelatisi infondati.

Disobbedienza civile e occupazioni pacifiche – come quella famosa di Julia Butterfly Hill, l’attivista ventitreenne che per due anni di fila visse su una sequoia millenaria – hanno portato alla salvaguardia di alcune aree boschive, facendo approvare leggi statali a tutela degli heritage trees più antichi. Ma non è abbastanza. Nonostante la siccità stia desertificando ampie zone della costa occidentale statunitense, grosse multinazionali protette dall'ambigua etichetta di ‘forestazione sostenibile’ progettano disboscamenti e costruzioni di strade in foreste vergini.

Ricorrono a pesticidi e a scellerate tecniche di avvelenamento degli alberi, come l’economica Hack and squirt, erbicidi iniettati nel tronco per distruggerne lentamente la linfa, che finiscono per contaminare l’ecosistema ad ampio raggio.

L’ultimo fronte di lotta ambientale in California si trova nella Mattole Watershed Forest, un’antica foresta di conifere, che la Humboldt Redwood Company (HRC) ha intenzione di soppiantare con specie a rapida crescita, molto più lucrative per l’industria del legname.
Un gruppo di attivisti dell’Humboldt County è finora riuscito a evitare il disboscamento occupando il punto d’accesso alla foresta, una zona remota che si raggiunge solo in sette ore di cammino dal paese più vicino.

Qui, fra imponenti abeti di Douglas, hanno costruito una barricata con ingegnosi tripodi in legno che sostengono, tramite funi, una piattaforma aerea in cui vivono gli occupanti. Se i dipendenti della HRC dovessero rimuovere il blocco, si macchierebbero immancabilmente di omicidio colposo.
Da ormai un anno, a ogni temperatura, gli attivisti si danno il cambio su quella che chiamano “il guscio del cielo”, sospeso a venti metri da terra, leggendo e suonando, sostentandosi con le generose provviste fornite dai simpatizzanti. Resistono alle incursioni delle guardie ed eludono il controllo di elicotteri e droni inviati per sorvegliare l’area.
Mentre gli attivisti nella foresta tengono lontani i bulldozer, comitati in città organizzano corsi per insegnare ad arrampicarsi sugli alberi con corde e moschettoni, raccolgono fondi per la difesa di militanti arrestati per aver valicato proprietà privata (vale a dire la foresta vergine, che pur dovrebbe essere bene pubblico), fanno campagne per sensibilizzare anche i lavoratori stagionali, spesso messicani impiegati nell’industria del legno per pochi dollari all’ora.

domenica 2 ottobre 2016

Stati Uniti - La rivolta dei Lakota Sioux contro «il serpente nero»


La rivolta dei Lakota Sioux contro «il serpente nero»
(Foto di Democracy Now)
«Mni wiconi» cioè l’acqua è vita: tentativo di bloccare un oleodotto che costa circa 4 miliardi di dollari

di Marco Cinque (*)
Una nuova guerra, subdola e silenziosa, è iniziata contro i popoli nativi del Nord America, sia in Canada sia negli Usa: la guerra dell’acqua e del petrolio, dichiarata dalle multinazionali, in particolare dalla compagnia Enbridge, che in nome del progresso e dei profitti sta mettendo a repentaglio la stessa terra, i fiumi e le risorse necessarie per sopravvivere in quei territori.
La realizzazione di un gigantesco oleodotto, il Dapl (Dakota Access Pipeline), definito emblematicamente «serpente nero», che prevede l’attraversamento di quattro stati, tra cui il North Dakota, passerà anche sotto il fiume Missouri e diversi altri corsi d’acqua, minacciando seriamente l’incolumità di milioni di persone, tra cui gli indigeni della nazione Hunkpapa Lakota di Standing Rock.
L’oleodotto è un progetto che costa circa 4 miliardi di dollari e che dovrebbe portare 470mila barili di petrolio al giorno, dai giacimenti petroliferi della parte occidentale del North Dakota fino all’Illinois, dove sarebbe collegato con altre condotte. Le proteste dei Lakota sono iniziate già dallo scorso aprile ed hanno coinvolto diverse altre tribù (Cheyenne, Arapaho, Crow) trasformandosi nel più grande raduno permanente dai tempi della storica occupazione di Wounded Knee, nel 1973. All’allargamento della rivolta, ferma ma pacifica, purtroppo c’è stata una risposta repressiva e violenta da parte della polizia, con pestaggi, arresti indiscriminati di più di 40 nativi e persino l’utilizzo di cani da combattimento aizzati anche contro donne e bambini. Tra gli arrestati spiccano i nomi del presidente tribale Dave Archambault II e quello del consigliere tribale Dana Wasinzi, rei di aver oltrepassato il cordone di sicurezza degli agenti. E’ emblematico il fatto che, ancora oggi, esponenti delle tribù amerindie vengano arrestati per violazione di domicilio della loro stessa terra.
Nella dichiarazione congiunta «No Keystone XL Pipeline Will Cross Lakota Lands», i movimenti indigeni Honor the Heart, Oglala Sioux Nation, Owe Aku e Protect the Sacred, si rivolgono direttamente al presidente degli Stati uniti, Barack Obama: «La Oglala Lakota Nation ha assunto la leadership dicendo «no» alla Keystone XL Pipeline. Ha fatto ciò che è giusto per la terra, per il suo popolo ed ha invitato i suoi leader ad alzarsi in piedi e proteggere le loro terre sacre. E hanno detto che il KXL non deve attraversare il territorio che si estende oltre i confini della Riserva. I loro cavalli sono pronti. Così come lo sono i nostri. Noi siamo con la Nazione Lakota, siamo al loro fianco per proteggere l’acqua sacra, stiamo con loro perché gli stili di vita indigeni basati sulla terra non siano danneggiati da un oleodotto nocivo e tossico. Riconoscendo la responsabilità di proteggere Madre Terra, i popoli indigeni non permetteranno che questo oleodotto attraversi le nostre aree protette dal Trattato».

giovedì 29 settembre 2016

Canada - Mohawk Nation

REPORTAGE DAL CANADA, DOVE LA NAZIONE INDIGENA RESISTE ALL’OBLIO, TRA BATTAGLIE AMBIENTALI E TRADIZIONI MILLENARIE
di Francesco Martone *
E’ un giorno d’agosto di pioggia intensa, battente. A Montreal si teneva il Forum Sociale Mondiale, il primo mai fatto in un paese del cosiddetto “Nord” del mondo, come se una categoria geografica ormai consunta possa esaurire la portata di dinamiche e i meccanismi di inclusione, ed esclusione, di sfruttamento e invasione che caratterizzano ormai l’assalto ai “commons” ed ai diritti dei popoli in ogni parte del mondo.
Nella città francofona i movimenti studenteschi fecero la storia, quando – sulla scia di “Occupy” e dei movimenti degli Indignados e delle Primavere Arabe – lanciarono la loro di primavera dell’”acero”, la Maple Spring che portò decine di migliaia di persone in piazza.
Una rivolta nel nord algido del Canada, paese che oggi ci vorrebbe agganciati attraverso un accordo commerciale quale il CETA, e che proprio a Montreal vede il fulcro delle attività ed il cervello pensante delle strategie delle principali multinazionali del settore petrolifero mondiale.
UN’ENORME AUDITORIUM ED UN PARCO A TEMA AMBIENTALISTA SPONSORIZZATO DALLA RIO TINTO ZINC CE LO RICORDANO. UN SUD DI DECINE E DECINE DI “HOMELESS”, DISTRUTTI DALL’ALCOL, CHE VENGONO DALLA GELIDA NUNAVUT, IL PAESE DEGLI ESCHIMESI, GLI INUIT. E POI LORO, I MOHAWK, DISCENDENTI DI UN POPOLO GUERRIERO, SPESSO E VOLENTIERI SUL PIEDE DI GUERRA PER DIFENDERE LE LORO TERRE.
Ieri da un progetto di campo da golf, ieri l’altro per proteggere le acque del San Lorenzo dagli sversamenti tossici delle fogne di Montreal, oggi per interdire la strada ad un oleodotto.
A separare Montreal dalla comunità Mohawk di Kahnawake è un ponte eretto in ricordo del governatore del Quebec, Honoré Mercier. Opera di ingegneria che suggella la collaborazione tra i Mohawk e i costruttori canadesi. Un ponte che unisce, ma che può anche separare, quando viene occupato dalle comunità dell’altra sponda per far valere i propri diritti.
Attraversiamo il Mercier Bridge ed arriviamo dall’altra parte, una lingua di terra percorsa da un rettilineo lungo il quale si affacciano innumerevoli botteghe, le insegne fluorescenti di marche improbabili di sigarette. E’ la produzione di sigarette una delle principali fonti di entrate per la comunità, assieme al lavoro di manutenzione del ponte, essendo i Mohawk espertissimi ed abilissimi edili.
SI NARRA CHE POSSANO CAMMINARE SULLE TRAVI DI ACCIAIO SOSPESE NEL VUOTO SENZA SOFFRIRE DI VERTIGINI, APPOLLAIATI SU SCHELETRI DI GRATTACIELI CHE COSTELLANO LA “SKYLINE” DI MANHATTAN. LA STORIA DI KAHNAWAKE E DELLA COMUNITÀ “SORELLA” DI KAHNATASAKE AFFONDA LE RADICI NEL PASSATO COLONIALE, E SI RIPROPONE COME SEGNO TANGIBILE DI UNA LOTTA MILLENARIA PER L’AUTODETERMINAZIONE E LA DIGNITÀ.
Una schiera di villette smontate di sana pianta e ricostruite al di là della strada che al di qua i canadesi decisero di punto in bianco di cementificare la sponda del fiume, cacciando via chi da tempo immemorabile ci viveva e ne viveva. Poi gli edifici delle istituzioni di governo della comunità, quelle imposte dal governo canadese, fredde, e squadrate, senza anima, e la longhouse, di legno, quella che rappresenta la vera anima della comunità.

lunedì 11 luglio 2016

I danni del Pfas dall'America all'Italia


La lunga storia dell' avvocato Billot che scoperchiò la verità sulla DuPont

Da alcuni mesi si parla in Italia dell’inquinamento da Pfas, il composto di perfluoroalchilici, usato per trent'anni ed ancor oggi per Teflon, Goretex, cartone per alimenti ed allegramente sversato nei fiumi del Veneto dalla Mitemi, con il conseguente dilagante inquinamento delle falde. La vicenda viene riassunta dal giornalista Ivany Grozny in un pezzo per Articolo 21 e un reportage per Repubblica.it. 

Quel che ci interessa raccontare è la versione a stelle e strisce della stessa vicenda. 
Un viaggio in quel che è successo in America serve a farci riflettere su due impostazioni in teoria diverse intorno ai temi ambientali che mostrano entrambe i loro lati negativi.
Una riflessione utile nel momento in cui accordi come il TTIP porterebbero all'integrazione dei rispettivi mercati.
Da noi in Europa dovrebbe vigere il principio di precauzione: non si usa qualcosa che può essere pericoloso. Salvo poi non restringere le maglie di quel che viene definito pericoloso e il caso del Pfas è emblematico.
In America vige la logica che si può usare qualcosa fino a quando non si dimostra che fa male. Salvo poi ritrovarsi a rimborsare a suon di dollari chi è stato vittima dell’utilizzo e piangere sul "latte versato".
Si potrebbe dissertare su quale dei due sistemi è il migliore, su come in America funzioni la class action, che dà ai cittadini la possibilità di mettere in ginocchio chi inquina, su come in Europa i controlli preventivi siano più adeguati .. ma alla fine resta una domanda per tutti.
O prima o dopo? Non è forse il caso di dire mai! 
Lavorazioni, produzioni, impianti nascono per incentivare in maniera incessante lo sviluppo non importa a che prezzo e di cosa. Ed allora interrogarsi su cosa, perché, come si produce resta, certo la strada più lunga ed impervia, ma l’unica
Vi proponiamo alcune note ed un articolo del New York Times dedicato a Rob Billot, l’avvocato che ha fatto causa alla DuPont. Una storia che sembra la sceneggiatura di un film ma che è realtà.
L’articolo è stato realizzato in collaborazione con A Sud - Veneto e le studentesse dell’Istituto Scarcerle di Padova
Nel 1951, la legge degli Stati Uniti non richiedeva ai produttori di sostanze chimiche di presentare informazioni riguardanti la sicurezza per l’ambiente e la salute umana prima della loro commercializzazione. Dopo l’emanazione del Toxics Substances Control Act (TSCA) da parte del Congresso nel 1976, oltre 63.000 sostanze chimiche, tra cui il PFOA, ricevettero l’autorizzazione alla commercializzazione “in bianco” per l’uso in prodotti di consumo e industriali, imponendo l’obbligo, però, di dare tempestiva comunicazione alle autorità qualora gli industriali fossero venuti in possesso di informazioni che soltanto facessero sospettare la pericolosità delle sostanze chimiche da loro prodotte.
L’inizio
L’acido perfluoroottanoico ha iniziato ad essere rilasciato nell'ambiente, sia mediante emissione nell'aria atmosferica che mediante scarichi nei fiumi.
I campionamenti effettuati in seguito su centinaia di pozzi privati e fonti pubbliche hanno dimostrato che, persino dopo la drastica riduzione dell’immissione da parte degli impianti chimici, la contaminazione delle acque potabili da parte dell’acido perfluoroottanoico persisteva e continuava ad aumentare negli anni in alcuni distretti situati in prossimità delle fabbriche.
La DuPont sapeva
Nei 10-20 anni seguenti alla sua introduzione nei processi di produzione la DuPont aveva avuto dei dati che indicavano come il PFOA si accumuli nel sangue umano, non si distrugga facilmente nell'ambiente, e possa causare gravi problemi di salute, tra cui danni al fegato , difetti di riproduzione e dello sviluppo del feto, e diversi tipi di tumori.
Il PFOA è stato individuato in una elevata percentuale di campioni di sangue umano e di polvere di casa prelevati in numerose case nel Massachusetts, nel Maine, a New York, in Oregon e in California, e ha contaminato l’acqua potabile in alcune comunità nella Virginia dell’est e in Minnesota.
DuPont e 3M, pur conoscendo questi allarmanti dati non hanno avvisato la US Environmental Protection Agency (EPA), come prevede il TSCA.
Ora si sa
Con le class action portate avanti contro la DuPont la verità è venuta a galla.
A partire dal 2005, numerosi studi epidemiologici sulle popolazioni che avevano bevuto per anni le acque avvelenate dalla DuPont hanno dimostrato la presenza di numerose patologie: cancro del rene, del testicolo, della prostata e di linfomi, alterazioni della funzione della tiroide, casi di infertilità femminile, casi di disfunzione del sistema immunitario nei bambini, aumento della pressione arteriosa e dell’omocisteina (una sostanza che favorisce l’aterosclerosi e le trombosi). È stata inoltra evidenziata una riduzione del numero e della qualità degli spermatozoi negli uomini adulti, soprattutto in quelli che erano stati esposti ad elevati livelli di PFOA durante la loro permanenza nell'utero materno nei nove mesi di vita prenatale.
Il dato più preoccupante emerso da questi studi è che il rischio di contrarre una o più patologie nella vita adulta è maggiore negli uomini e nelle donne che durante il loro periodo di vita intrauterina sono stati esposti ad elevati livelli di PFAA presenti nel sangue della loro madre. E’ come se questi adulti fossero nati già programmati, predestinati a contrarre in seguito, anche a distanza di decenni dalla nascita, una o più delle tante malattie causate dai distruttori endocrini.

L’avvocato che è diventato il peggior incubo di DuPont
Rob Bilott era stato un avvocato che aveva difeso le aziende per otto anni.
Poi ha indossato i panni dell’ambientalista, sconvolgendo la sua carriera e svelando una storia pluridecennale di inquinamento chimico.

di Nathaniel Rich
Era solo da pochi mesi che Rob Billot era arrivato allo studio Taft Stettinius e Hollister, quando ricevette una chiamata da una fattoria.
L’allevatore, Wilbur Tennant di Parkersburg, W.Va., raccontava che le sue mucche stavano morendo ad una ad una. Credeva che la compagnia chimica DuPont, che da poco lavorava in un terreno a Parkersburg, 35 volte più grande del Pentagono, fosse responsabile. Tennant aveva cercato aiuto in quella zona, disse, ma la DuPont possedeva l’intera città. Era stato respinto non solo dagli avvocati di Parkersburg, ma anche dai politici, giornalisti, dottori e veterinari del posto. L’allevatore era arrabbiato e parlava con un forte accento degli Appalachi. Billot si sforzava di dare un senso a tutto ciò che gli stava dicendo.
Molto probabilmente gli avrebbe chiuso il telefono in faccia se Tennant non avesse fatto il nome della nonna di Billot, Alma Holland White.
La signora White aveva vissuto a Vienna, nella periferia a nord di Parkersburg, e in estate da bambino, Billot spesso la andava a visitare. Nel 1973 lei gli fece visitare la fattoria di bestiame appartenente ai vicini dei Tennant, i Grahams, con i quali la signora White era amica. Billot passava i weekend a cavalcare, a mungere e a guardare “Secretariat win the Triple Crown”. Aveva 7 anni. La visita alla fattoria dei Grahams era uno dei ricordi più felici della sua infanzia.
Nel 1998, quando i Grahams sentirono che Wilbur Tennant stava cercando un aiuto legale, ricordarono Billot, il nipote della signora White, che era cresciuto e diventato un avvocato ambientale.
Non avevano capito, comunque, che Billot non era il tipo giusto. Non rappresentava i querelanti o i cittadini privati. Come gli altri 200 avvocati della Taft, società fondata nel 1885 e legata storicamente alla famiglia del presidente William Howard Taft, Bilott lavorava quasi esclusivamente per grandi clienti aziendali.
La sua specialità era difendere le aziende chimiche. Bilott aveva lavorato diverse volte con gli avvocati della DuPont. Tuttavia, per fare un favore alla nonna, accettò di incontrare l’allevatore. “Mi sembrava la cosa giusta da fare”, dice oggi. “Sentivo come se ci fosse un legame con la gente di quel luogo”.
Fin dal primo incontro non c’era niente di scontato. Circa una settimana dopo la telefonata, Tennant insieme alla moglie andò fino alla sede centrale della Taft nel centro di Cincinnati. Trasportarono dalla reception fino al 18esimo piano scatole di cartone contenenti videocassette, fotografie.
Si sedettero su moderni divani sotto un ritratto ad olio di uno dei fondatori di Taft. Tennant, robusto, alto circa un metro e ottanta, con un paio di jeans, una maglietta di flanella scozzese e un cappello da baseball, non sembrava il tipico cliente della Taft. “Non si è certo presentato ai nostri uffici come un vice direttore di banca” afferma Thomas Terp, socio supervisore di Billot.
Terp si unì a Bilott per l’incontro. Wilbur Tennant spiegò che insieme ai suoi quattro fratelli si era occupato della fattoria di bovini da quando il padre li aveva abbandonati da bambini. A quel tempo avevano sette mucche. Negli anni continuarono ad acquistare terreni e bestiame, fino a raggiungere il numero di duecento mucche su più di 600 acri di terreno. La proprietà avrebbe potuto essere più grande se solo il fratello Jim e la rispettiva moglie Della, non avessero venduto 66 acri alla DuPont all'inizio degli anni ’80. La compagnia voleva utilizzare la zona come discarica per i rifiuti della fabbrica vicino a Parkersburg, chiamata Washington Works, dove Jim era stato assunto come lavoratore. Jim e Della non volevano vendere, ma a causa di problemi di salute di Jim, a cui i dottori non riuscivano a trovare una diagnosi, furono costretti a cambiare idea.
Jim Tennant
Dupont ribattezzò la zona Dry Run Landfill, come il ruscello che scorreva dove i Tennants facevano pascolare le loro vacche. Non molto tempo dopo la vendita, Wilbur disse a Bilott che il bestiame cominciava a comportarsi in modo strano. I Tennants consideravano le loro mucche come animali domestici.
Wilbur fornì alcune videocassette: il filmato era sgranato e rovinato con alcune interferenze. Le immagini scomparivano e si ripetevano, il suono accelerava e diminuiva, mentre la qualità era come quella di un film horror. Nella scena iniziale la telecamera offriva una panoramica lungo il ruscello. Venivano riprese anche le foreste circostanti, i frassini che perdono le foglie e lo scrosciare delle acque del ruscello, prima di soffermarsi su quello che sembra essere un cumulo di neve. La telecamera ingrandisce e si capisce che è un accumulo di schiuma.
“Ho trovato due cervi e due bovini morti” affermò Tennant.
“Usciva sangue dal naso e dalla bocca…stanno provando a coprire questa cosa. Ma non ci riusciranno, perché farò emergere la verità, così che le persone possano vedere con i propri occhi.”
Il video mostrava un largo condotto nel ruscello, dal quale fuoriusciva acqua color verde che forma delle bolle in superficie. “Questo è ciò che si aspettano che il bestiame beva”, disse Wilbur “ è proprio ora che qualcuno del dipartimento di Stato tiri fuori gli attributi”
Ad un certo punto il video mostrava una vacca rossa che stava perdendo pelo con la schiena. Un risultato supponeva Wilbur di un malfunzionamento dei reni. Poi il primo piano di un vitello morto, disteso sulla neve, con occhi brillanti.
“Ho perso centocinquantatré di questi animali in questa fattoria”, disse Wilbur dopo il video.“Tutti i veterinari che ho chiamato a Parkersburg, non mi hanno richiamato o non volevano essere coinvolti. Siccome non vogliono essere coinvolti, dovrò analizzare la cosa per conto mio...”
Il video mostra la testa di un vitello divisa in due. Un primo piano mostra i denti anneriti, (dovuti all'alta concentrazione di fluoruro nell'acqua che bevono), il fegato, il cuore, lo stomaco, i reni e la bile dell’animale. Ogni organo è stato sezionato e Wilbur descriveva il loro colore e consistenza insolita. “Non ho mai visto niente di simile prima” disse.
Bilott guardò il video e le fotografie per diverse ore. Vide mucche con la coda spelacchiata, zoccoli deformati, pelle lesionata, occhi incavati e rossi, vacche che soffrivano diarrea, che rigettavano una bava dalla consistenza simile a quella del dentifricio, e che barcollavano, come ubriache, a causa delle gambe storte. Tennant si soffermò sugli occhi della mucca. “Questa mucca ha sofferto molto” disse.
“Tutto questo non è certo un buon segno” disse Bilott tra sé e sé. “Sta succedendo qualcosa di grave”.
Bilott decise subito di occuparsi del caso di Tennant.
“Era la cosa giusta da fare”. Bilott avrebbe potuto avere l’aspetto di un abile avvocato aziendale – pacato, carnagione chiara, e abbigliamento adeguato – ma questo impiego non gli veniva naturale. Non aveva il tipico curriculum della Taft. Lui non aveva frequentato il college e la scuola di legge a Ivy League. Suo padre era un lungo tenente colonnello dell’aereonautica militare. Bilott aveva passato gran parte della sua infanzia a trasferirsi nelle vari basi aeree, frequentato otto scuole prima di laurearsi nella scuola di Fairborn, vicino alla base militare Wright-Patterson di Ohio. Da ragazzo aveva ricevuto una lettera di assunzione da parte di una piccola scuola di arti liberali in Sarasota chiamata New College della Florida, che permetteva agli studenti di progettare il loro curriculum. Molti dei suoi amici erano idealisti, progressisti con ideologie contrastanti a quelle di Reagan. Discuteva con i professori e aveva imparato a valorizzare il pensiero critico. “Ho imparato a mettere in discussione tutto quello che si legge e ha non prendere niente per quello che sembra. Non importa che cosa dice la gente. Mi piaceva quella filosofia.”
Bilott si laurea in Scienze politiche, sperava di diventare manager della città.
Ma suo padre, che in tarda età si era iscritto a Legge, incoraggiò Bilott a seguire la sua strada. Sorprendendo i professori, scelse di frequentare Giurisprudenza nello stato dell’Ohio, dove vi era il suo corso preferito, ossia diritto dell’ambiente.
“Sembrava potesse avere un impatto reale nel mondo, era qualcosa che avrebbe potuto fare la differenza”.
Quando, dopo la laurea, la Taft gli fece un’offerta, i suoi mentori e i suoi amici del New College inorridirono. Non capivano come avrebbe potuto far parte di una società di quel tipo. Bilott non la vedeva in quel modo. Non aveva realmente pensato all'etica.
“La mia famiglia disse che una grande società era il luogo dove avrei avuto maggiori opportunità, ho semplicemente provato a ottenere il miglior lavoro che potessi permettermi. Non avevo la benché minima idea di ciò che avrebbe comportato”.
Presso la Taft, chiese di essere inserito nella squadra ambientale di Thomas Terp. Dieci anni prima, il Congresso aveva fatto passare la legge conosciuta come Superfund, che finanziava lo smaltimento di scorie e rifiuti pericolosi. Superfund era uno sviluppo redditizio per società come la Taft. Creava un intero micro settore interno al diritto dell’ambiente, che richiedeva una conoscenza approfondita delle nuove normative, in modo da guidare le negoziazioni tra le agenzie comunali ed numerosi enti privati. Il gruppo di Terp alla Taft era un leader del settore.
Come socio, a Bilott fu chiesto di determinare quali compagnie contribuivano alla dispersione di tossine e scarti pericolosi, in che quantità e in quali aree. Raccolse le deposizioni dei dipendenti degli impianti, lesse accuratamente i documenti pubblici e riorganizzò i dati storici.Divenne un esperto del quadro regolatore dell’organizzazione sulla protezione dell’ambiente e delle varie leggi ambientali riguardanti l’acqua potabile, l’aria incontaminata e il controllo delle sostanze tossiche. Si specializzò sulla chimica delle sostanze inquinanti, nonostante la chimica non fosse mai stata il suo punto forte.
“Ho imparato come lavorano queste aziende, come funzionano le leggi, come difendere questi diritti”, disse. Divenne il perfetto insider.
Bilott era fiero del lavoro che conduceva. L’incarico principale che gli era stato affidato, era quello di aiutare i clienti ad attenersi alle nuove norme. Molti dei suoi clienti, inclusi Thiokol e Bee Chemical, disperdevano rifiuti pericolosi da prima che la pratica diventasse così strettamente controllata.
Un collega della squadra ambientale della Taft, lo presentò ad un’amica d’infanzia, Sarah Barrage, anche lei avvocato. Lavorava presso un’altra società del centro di Cincinnati, nella quale difendeva le imprese contro le richieste di risarcimento dei lavoratori. Bilott invitò i due amici per pranzo. Fin da subito Sarah pensò che Bilott non fosse come gli altri ragazzi. “Io sono abbastanza chiacchierona. Lui è più tranquillo. Ci completiamo a vicenda.”
Si sposarono nel 1996. Il primo dei loro tre figli nacque due anni dopo. Il lavoro alla Taft era così tranquillo che la moglie abbandonò il lavoro per crescere i figli a tempo pieno. Terp, il suo supervisore lo ricorda come “uno straordinario avvocato: incredibilmente brillante, energico, tenace e molto, molto scrupoloso.” Era un modello per gli avvocati della Taft”. Poi arrivò Wilbur Tennant.
Il caso Tennant mise la Taft in una posizione scomoda. Lo studio legale lavorava per rappresentare le industrie chimiche non per farle causa.
“L’idea di far causa alla Dupont ci costrinse a prendere una pausa” dice Terp, ”ma in realtà non fu così difficile prendere tale decisione. Sono fermamente convinto che il nostro lavoro dalla parte del querelante ci renda degli avvocati difensori migliori.”
Bilott chiese aiuto per il caso Tennant ad un avvocato del West-Virginia chiamato Larry Winter. Per molti anni Winter fu partner presso la Spilman,Thomas &C; Battle, una delle ditte che rappresentava la DuPont nel West- Virginia. Era sorpreso che Bilott citasse in giudizio la DuPont mentre rimaneva alla Taft.
Bilott, dal canto suo è riluttante a discutere le motivazioni che l’hanno portato ad assumere il caso. Dice d’aver elaborato la sua scelta come un’occasione “di fare la differenza” nel mondo, dopo i dubbi che gli erano venuti sul percorso che stava prendendo la sua carriera.
“C’era una ragione se ero interessato ad aiutare i Tennant” dice dopo una pausa “era una grande opportunità quella di usare la mia formazione per persone che ne avevano bisogno.”
Bilott presentò la causa federale contro la DuPont nell'estate del 1999 nel distretto del Sud-West della Virginia. 
In risposta, l’avvocato della DuPont, Bernard Reilly, lo informò che la DuPont e l’E.P.A avrebbero condotto uno studio sulla proprietà, seguito da tre veterinari scelti dalla DuPont e tre scelti dall’E.P.A.
Il report si concluse affermando che la DuPont non era colpevole dei problemi di salute del bestiame. Il responsabile, invece, era l’allevamento: “scarsa nutrizione, inadeguate cure veterinarie, mancanza di funzionalità”. In altre parole i Tennant non sapevano come far crescere il proprio bestiame. Se le mucche stavano morendo, era solo colpa loro.
Fattoria Tennant
La decisione non andava certo bene per i Tennant, i quali iniziarono a subirne le conseguenze. Si inimicarono gli impiegati di Parkersburg. Chi lavorava alla DuPont, anche se prima erano loro amici, adesso li ignoravano, uscivano dai ristoranti quando loro entravano. “Non sono autorizzato a parlare con te” dicevano, quando si incrociavano. Per quattro volte i Tennant cambiarono chiesa.
Wilbur chiamò l’ufficio vicino ogni giorno, ma Bilott aveva poco da dirgli. Stava facendo per i Tennant ciò che avrebbe fatto per qualsiasi altro cliente aziendale – ritirare permessi, studiare gli atti del territorio e richiedere alla DuPont tutta la documentazione relativa alla discarica “Dry Run” ma non poteva trovare alcuna prova che spiegasse che cosa stesse succedendo al bestiame. “Eravamo frustati” dicee Bilott ”non potevo biasimare i Tennant per essersi arrabbiati”.
Con il processo imminente, Bilott si imbatté in una lettera che la DuPont aveva mandato all’E.P.A, nella quale menzionava la presenza di una sostanza nella discarica con un nome criptato: PFOA. 
In tutti i suoi anni di lavoro con le industrie chimiche, Bilott non aveva mai sentito parlare del PFOA. Non appariva in nessuna lista di materiali regolamentati, né si poteva trovare nella libreria della Taft. L’esperto chimico assunto per il caso, riprese un articolo di una rivista riguardante un simile composto: PFOS, un agente-detergente usato dalla tecnologia conglomerata 3M nella fabbricazione di protezione spray. Bilott cercò attraverso i suoi file altri riferimenti al PFOA, che scoprì essere una sintesi di acido perfluoroottanoico. Ma non trovò nulla. Allora chiese alla DuPont di mostrare tutta la documentazione riguardante la sostanza. La DuPont si rifiutò.
Nell'autunno del 2000, Bilott richiese un’ingiunzione per forzarli.
L’ordine fu concesso nonostante le proteste della DuPont.
Iniziarono ad arrivare dozzine di scatole contenenti migliaia di documenti al quartier generale della Taft: corrispondenze private interne, resoconti medici e sanitari oltre che studi segreti condotti dagli specialisti della DuPont. 
C’erano più di 110.000 pagine in tutto, di cui alcune risalenti a cinquant'anni prima. Bilott trascorse i mesi successivi sul pavimento del suo ufficio, revisionando i documenti e ordinandoli cronologicamente.
Si fermava unicamente per rispondere al telefono.
“Ho cominciato a ricostruire la cronologia degli eventi” dice Bilott.
“Avrei davvero potuto essere il primo a imbattermi in tutto questo. Diventò evidente ciò che stava venendo a galla: sapevano già da molto tempo che quella sostanza era dannosa".
Bilott non poteva credere alla portata di materiale incriminante che la DuPont gli aveva spedito. La compagnia sembrava non aver realizzato ciò che gli era stato consegnato. “Non riuscivo a credere a ciò che stavo leggendo” dice “È davvero stato messo per iscritto. E’ il genere di situazione di cui si sente sempre parlare, ma non si immagina mai che possa accadere veramente.”
La storia comincia nel 1951, quando la DuPont iniziò ad acquistare PFOA (che la compagnia descrisse come C8) da 3M per utilizzarlo nella fabbricazione di Teflon. 
3M aveva inventato il PFOA soltanto 4 anni prima; veniva utilizzato per fabbricare rivestimenti come il Teflon. Nonostante il PFOA non fosse classificato dal governo come una sostanza pericolosa, 3M inviò alcune raccomandazioni alla DuPont su come disporre di esso.
Le istruzioni della stessa DuPont specificavano che il PFOA non poteva essere scaricato sulla superficie delle acque o nelle fogne. 
Ma nei decenni che seguirono, la DuPont scaricò tonnellate di polveri di PFOA attraverso le bocche di scarico delle tubazioni di Parkersburg, nel fiume Ohio. 
La compagnia sversò 7.100 tonnellate di PFOA liquido negli “stagni digestivi”: pozzi aperti di proprietà della Washington Works, da cui le sostanze chimiche filtravano direttamente nel terreno. La PFOA entrò direttamente nella falda acquifera locale, che forniva acqua potabile alle comunità di Parkersburg, Vienna, Little Hocking e Lubeck – più di 100.000 persone in tutto.
Bilott apprese dai documenti che la 3M e la DuPont avevano condotto studi medici segreti sul PFOA per più di quarant'anni. 
Nel 1961, i ricercatori della DuPont avevano scoperto che le sostanze chimiche potevano aumentare le dimensioni dei fegati nei ratti e nei conigli. Un anno dopo riconfermarono i medesimi risultati negli studi con i cani. La struttura chimica peculiare del PFOA lo rende misteriosamente resistente alla decomposizione. Esso si lega anche alle proteine plasmatiche nel sangue, circolando così attraverso ogni organo del corpo.

lunedì 4 luglio 2016

Canada - Cosa lega il CETA tra Canada e UE, TTIP tra Usa e Ue e TPP nel Pacifico?



E’ un gioco a scatole cinesi quello che incastra i grandi trattati di libero commercio che sanciscono parte delle nuove alleanze mondiali. Parte delle alleanze perché altri giochi altrettanto spediti si diramo dalla Cina, dalla Russia e dai Paesi del Golfo.
Restiamo in quel gioco di nuove regole che riguardano anche l’Europa
Se sul TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) tra Unione Europea e Stati Uniti, ancora ci sono frenate varie (il 14° Round negoziale si terrà tra l’11 e il 15 luglio a Bruxelles), che subiranno anche gli effetti della Brexit, viaggia spedito il CETA (Comprehensive and Economic Trade Agreement) tra Unione Europea e Canada. 
Così spedito che il "nostro" Ministro Calenda non esita a dichiarare inutile il passaggio al vaglio dei vari Parlamenti che il trattato dovrebbe subire.
Un ulteriore passaggio certamente non democratico, come denunciato dalla Campagna Italiana Sto TTIP, che si sta mobilitando per far cambiare posizione la Governo Renzi.
Il governo Italiano si aggrega alla Commissione Europea, che in nome della procedura del trattato di Lisbona, considerando il CETA puramente commerciale, vorrebbe che non se ne occupassero i parlamenti nazionali, e cioè che si usasse la formula "Eu only".
I sostenitori della tesi contraria tra cui Germania, Francia ed Austria dicono che trattandosi di un accordo misto, come sostenuto al Consiglio Europeo, deve passare al vaglio dei Parlamenti nazionali. 
Il 5 luglio la Commissione Europea deciderà se l’accordo di liberalizzazione commerciale tra Ue e Canada (CETA) potrà evitare l’esame dei Parlamenti nazionali o diventerà comunque operativo in parte prima di passarci.
Cosa c’entra il CETA con il TTIP?
I meccanismi di mercato che prevede il Ceta sono gli stessi del TTIP e cioè abbattimenti di dazi e dogane, libertà delle imprese canadesi di agire nel mercato europeo, passando sopra ogni regola, da quelle sul lavoro a quelle alimentari, a quelle ambientali. Il tutto condito dalla possibilità per le company di fare causa allo stato che dovesse far valere le proprie normative in qualsiasi campo.
Ora se il TTIP rallenta cosa vieterà alle imprese americane con sede in Canada intanto di agire nel mercato europeo con le proprie consociate canadesi? Niente!
Cosa vieta ad imprese che già agiscono con il quadro del NAFTA, ’accordo di libero commercio del 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico, immortalato dalla stretta di mano dei"Los tres amigos", Obama, Pena Nieto e Trudeau in questi giorni a Ottawa, di agire con le loro filiali canadesi verso l’Europa, dopo la ratifica del CETA? Niente!
Facciamo un passo ancora oltre.
Cosa lega CETA, TTIP e TPP (Trans-Pacific Partnership Agreement) siglato il Il 4 febbraio 2016 a Auckland, Nuova Zelanda tra Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam e che dovrà essere approvato dai rispettivi parlamenti entro due anni?

Questa intricata, alla parvenza, rete di trattati, che giustamente sollevano proteste in tutto il mondo, sono nè più e nè meno lo specchio del tentativo di adattare le norme formali all’epoca del mercato unico globale del capitalismo finanziario. 
Superate le vecchie strutture formali della prima fase della globalizzazione ogni gruppo di contendenti cerca di restare nel gioco. 
Quel che accade ad incastri multipli tra CETA, TTIP e TPP accade anche in altri contesti con Cina, Russia, Paesi del Golfo.
Vecchie e nuove potenze si riposizionano cercando di riarticolare il loro ruolo in pezzi di mercato. 
Se il capitalismo finanziario è fatto di saccheggio di vite e territori, senza nessuna mediazione, lo stesso vale per le regole formali disegnate da chi vuole stare nel gioco. 
Ed è così che il tratto distintivo di questi trattati è la diminuzione o meglio azzeramento di ogni barriera di diritti, qualità, conquiste. 
Il tutto accompagnato da mancanza di trasparenza e se possibile di aspetti di democrazia formale, come appunto la discussione parlamentare nel caso del CETA, così come sostenuto da Calenda in nome delle mirabolanti possibilità di ripresa economica insita nel spezzare le barriere tra Unione Europea e Canada.
Montreal dal 8 al 14 agosto si svolgerà il Forum Sociale Mondiale noi ci saremo per conoscere direttamente chi dall’altra parte dell’Oceano lotta insieme a noi per costruire alternative alle logiche di saccheggio e devastazione globali che danno vita alla giungla dei nuovi trattati commerciali.
Per partecipare con noi contattaci a padova@yabasta.it
In Europa mobilitiamoci insieme a chi si oppone negli Usa dal 11 al 15 luglio in occasione del 14° Round negoziale a Bruxelles del TTIP e perchè la decisione sul CETA passi ai parlamenti.

TORNIAMO AL CETA
Proviamo a vederlo dall’altra parte, con gli occhi di chi in Canada si sta opponendo al Trattato.
Ad agosto a Montreal si svolgerà il Forum Sociale Mondiale. Al di là delle ritualità scontate di questo avvenimento che si ripropone ogni due anni, quasi in forma immutabile, noi ci saremo per conoscere direttamente soprattutto i movimenti canadesi e per avere uno sguardo attento a quel che si muove in tutto il continente americano da nord a sud.
In Canada, le elezioni del 2015 hanno segnato una discontinuità con la vittoria di Justin Trudeau contro il conservatore Harper.
I movimenti ambientalisti e sociali non hanno certo firmato una cambiale in bianco con il nuovo governo. Ed infatti continuano le lotte e le mobilitazioni perchè si vada fino in fondo per cambiare le politiche di devastazione ambientale e territoriale portate avanti da Haper con l’estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose e il fracking. 
In prima fila le popolazioni indigene, First Nation, che non si accontano del riconoscimento formale delle violazioni fatte in passato, ma si oppongono a quelle dell’oggi, come quelle estrattiviste per il petrolio, i minerali e collegate al gas. Naomi Klein nel suo ultimo libro "Una Rivoluzione ci salverà" ha ampiamente parlato della centralità delle loro lotte.
Emblematica l’occupazione di Lelu Island per impedire la costruzione degli impianti della Pacific NorthWest LNG. Si tratta di strutture per il raffreddamento del gas che, in arrivo dai pozzi dell’entroterra lungo un migliaio di km di gasdotti, verrebbe liquefatto a -162°C e imbarcato su navi cisterna dirette in Cina.
Enorme è la battaglia che si sta combattendo visto il peso che l’estrattivismo ha nell’economia canadese a livello locale e internazionale: la quotazione globale delle imprese d’estrazione, tassello fondamentale della finanziarizazione del settore, non a caso avviene alla borsa di Vancouver. 
All’interno di queste tensioni tra movimenti di base e governo c’è anche il CETA.
Trudeau infatti è favorevole. 
Movimenti indigeni, reti sociali sono contarie.

Il Governo canadese ha "ceduto" accettando la ridefinizione dell’ISDS. L’arbitrato sarà nelle mani di tre giudici, come proposto dall’Europa, ma tutto questo è forma e non viene modificato l’assetto di fondo che permette alle multinazionale di denunciare e far pagare il governo che dovesse cercare di porre dei limiti alla loro azione.
Per il resto Trudeau continua a dichiarare che il "CETA sarà una grande opportunità per l’economia canadese". 
Per capire di cosa parliamo va ricordato che nel 2014 l’UE è stata il secondo partner commerciale del Canada, dopo gli Stati Uniti, d’altro canto ha assorbito merci canadesi per un valore di 27,4 miliardi di euro. Gli scambi riguardano non solo macchinari, mezzi di trasporto e prodotti chimici ma anche servizi come viaggi, assicurazioni e comunicazioni.
Chi si oppone al CETA in Canada lo fa partendo da un’esperienza molto concreta: i danni causati dal Nafta, l’accordo di libero mercato tra Stati Uniti, Canda e Messico.
L’esperienza dimostra come questi accordi ledano diritti, ambiente e democrazia. In più il CETA permetterà alle multinazionali americane, anche in assenza del TTIP di operare in Europa, tramite le filiali in Canada e lo stesso dicasi per le imprese del TPP.
Ecco il video, prodotto dal Le Conseil des canadiens, dedicato a noi europei i canadesi per aiutarci a capire cosa succederà.

Le motivazioni che sono alla base delle contestazioni al CETA (Accordo Canada-Ue) e al TPP (Accordo Transpacifico) in Canada partono dalle stesse radici che guidano l’opposizione in Europa al CETA e al TTIP (Accordo Usa- Ue): devastazione dei territori, delle comunità e dei diritti, come spiegano nel Blog della campagna
Vedi rapporto Mercantizzare la democraziaa cura de Le Conseil des canadiens

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!