giovedì 1 ottobre 2009

Ecuador: gli indigeni si sollevano contro il governo Correa, almeno 3 i morti, oltre 40 i feriti.


Levantamiento indigeno contro le leggi su acqua, biodiversità e risorse minerarie

Di fronte alla proposta del governo Correa di estendere il controllo diretto dello stato sulle risorse idriche, biologiche e minerarie l'organizazzione nazionale degli indigeni CONAIE ha lanciato da due giorni un levantamiento.

leggi il comunicato stampa della CONAIE

Il levantamiento si è rapidamente diffuso nelle zone indigene, dalle Ande all'Amazzonia ed si è presto tradotto in paros, blocchi stradali e scontri con la polizia. La polizia del governo è intervenuta repentinamente e con forza per sgomberare i blocchi e ripristinare l'ordine.
Al momento si contano 3 morti tra gli indigeni Shuar nella Provincia di Morona Santiago, nell'Amazzonia ecuadoriana.

Il governo della cosiddetta revoluciòn ciudadana sta infatti continuando con i processi di nazionalizzazione, approvando le leggi sulle risorse naturali e sui territori indigeni, determinando un passaggio fondamentale sulla loro gestione:

le risorse idriche e biologiche diventano formalmente di interesse nazionale e quindi di importanza strategica.

Questo vuol dire che lo Stato ecuadoriano assume il diretto controllo su tali risorse e può intervenire manu militari per ripristinare le proprietà di "interesse nazionale".

Le giunte dell'acqua e le altre strutture comunitarie che si occupavano della gestione delle risorse idriche vengono quindi destituite, perchè nell'era del socialismo del siglo XXI è lo stato che assume il controllo di tutto.

leggi approfondimento sul Telegrafo. Mateo Martinez Abarca.

Ecuarunari - organizzazione indigena

CONAIE

17 città russe rischiano la chiusura. E il trasloco

Baikalsk, una tipica "monocittà" siberiana

Il quotidiano economico russo Vedomosti (”notiziario”) ha pubblicato un documento elaborato dal governo federale che riguarda il problema delle cosiddette “monocittà”, centri urbani che dipendono in modo vitale da un’unica azienda industriale o mineraria. Il documento, messo a punto dal ministero per lo sviluppo regionale, vede forse per la prima volta la questione in un’ottica abbastanza drammatica: vi si parla di almeno 400 centri che rientrano nella categoria delle monocittà (due i parametri che definiscono una monocittà: avere almeno il 25 per cento della popolazione attiva cittadina impiegata in un’unica azienda, oppure avere almeno il 50 per cento del reddito lordo cittadino prodotto da un’unica azienda) e di almeno 17 città “che potrebbero collassare in qualunque momento” senza un adeguato intervento statale, dato lo stato di crisi grave in cui versano le rispettive aziende.

Non si tratta di un problema marginale. Le 400 città esaminate dal ministero ospitano quasi un quarto della popolazione globale della Russia e, prima della crisi economica che imperversa da un anno a questa parte, creavano il 40 per cento del Pil nazionale; inoltre sono quasi tutte collocate in regioni lontane e poco ospitali della Siberia e del “Grande Nord” russo – eredità dei vari tentativi dei pianificatori sovietici di portare lo sviluppo in queste regioni attraverso la creazione di grandi impianti industriali o lo sfruttamento delle risorse minerarie locali – e dunque sono prive di una rete di comunicazioni ravvicinate con altre città o anche solo di un hinterland agricolo. Se l’industria intorno a cui sono state costruite va in crisi, è il collasso. Casi del genere si sono già verificati in passato, soprattutto negli anni ‘90, e hanno creato un clima di allarme e timore nella popolazione, che in effetti da allora ha iniziato a diminuire a un ritmo più sostenuto rispetto al resto del paese. Chi poteva trovare una sistemazione altrove, insomma, se ne è andato fin che era in tempo, e così regioni industrialmente importanti come quelle di Sverdlovsk e Irkutsk in Siberia, o il distretto di Khanty-Mansiisk, hanno visto ridursi in modo impressionante la popolazione già prima della crisi: e con il calo drastico della popolazione sono anche diminuiti i posti di lavoro non industriali, nella scuola e negli altri servizi pubblici, nel commercio e via dicendo.

Il ministero rivela che oltre 250 città sono state messe nell’elenco dei centri da tenere sotto monitoraggio per intervenire con apposite misure di sostegno prima che scivolino verso situazioni di crisi; per una sessantina di questi centri si prevede in effetti un brusco peggioramento delle condizioni già nei due anni a venire, mentre per altri 17, come si detto all’inizio, la crisi è già in atto in modo devastante e “richiede una risposta urgentissima”. Quale possa essere questa risposta, è presto detto: se non c’è modo di ripristinare a brevissimo termine una fonte di reddito, la popolazione deve essere trasferita altrove e la città abbandonata e chiusa. Il governo ha già deciso questa misura per due cittadine della repubblica autonoma di Komi precipitate in “una situazione economicamente insostenibile”. Gli impianti industriali intorno ai quali si reggevano sono vecchi, “usano tecnologie che hanno 40 anni e più” e per giunta “sono collocate a grande distanza dai mercati” cui è destinata la loro produzione: inevitabile la loro chiusura, che significa anche fine delle forniture di elettricità e riscaldamento, e fine della più gran parte degli introiti che i municipi utilizzano per pagare i dipendenti pubblici…

Dove andrà a finire la popolazione “traslocata” ? Fortunatamente si tratta di “solo” poche migliaia di persone – per ora – e quindi il loro trasferimento avverrà su base familiare o di piccoli gruppi, in varie località: ma se il problema arriverà a porsi per centri più grandi, le cose diventeranno ovviamente molto, molto più complicate. Quanto alle monocittà che sono a rischio ma non ancora in situazione catastrofica, il governo le include in quattro categorie: quelle che sono abbastanza grandi da poter vivere comunque, quelle che hanno un potenziale economico “unico” in Russia, quelle che sono comunque vicine alle maggiori vie di comunicazione e quelle che possono essere “reindirizzate verso uno sviluppo agricolo”. Il documento del governo, infine – ma è forse la parte più importante – indica che a finanziare le misure di sostegno o di riconversione di queste monocittà saranno chiamate in primo luogo proprio le aziende, che finora “hanno considerato che i guadagni erano i loro e le perdite erano dello stato”.

di Astrit Dakli

Lacrime di Camara


Il capo della giunta militare al potere cerca di smarcarsi dalla strage compiuta lunedì dalle forze dell’ordine, che hanno sparato contro una manifestazione dell’opposizione: 157 morti, 1200 feriti. Unanime condanna della comunità internazionale. Rimane alta la tensione.

La giunta militare al potere in Guinea dal 23 dicembre dello scorso anno non si smentisce. Ha dichiarato oggi e domani giornate di lutto nazionale - lutto che essa stessa ha provocato, nonostante le patetiche smentite del capitano Moussa Dadis Camara, capo della giunta - e contemporaneamente vietato ogni «raduno di carattere sovversivo». L'obiettivo a breve è fare in modo che il 2 ottobre, festa dell'indipendenza (dalla Francia, 1958), trascorra senza altre tensioni.

Lunedì scorso, nella capitale Conakry, le forze dell'ordine hanno sparato su una manifestazione dell'opposizione uccidendo 157 persone e ferendone 1.200. Queste sono le cifre riferite dall'organizzazione guineana di difesa dei diritti dell'uomo. I manifestanti protestavano contro la ventilata candidatura alle presidenziali del 31 gennaio 2010 del capitano Camara, il quale dopo aver sbandierato per mesi che avrebbe restituito il potere ai civili aveva di recente manifestato l'intenzione di candidarsi. Intenzione che è stata subito stigmatizzata dalla comunità internazionale.

Va ricordato che i militari si sono impadroniti delle leve di comando nove mesi fa, poco dopo l'annuncio della morte del presidente Lansana Conté, alla guida del paese dell'Africa occidentale per 24 anni. Oltre alle presidenziali, dovrebbe svolgersi, il 26 marzo 2010, anche le elezioni per il rinnovo del parlamento.

Il capitano Camara ha ribadito anche stamani di non sentirsi responsabile di quanto accaduto perché non sarebbe nelle condizioni di controllare pienamente l'esercito. «Dire che io controllo l'esercito - ha affermato - è pura demagogia».

Mamadi Kaba, una della voci della società civile guineana, ha dichiarato all'agenzia France Presse che la popolazione è intenzionata a continuare la resistenza e che anche i prossimi giorni saranno difficili. Secondo Kaba, «in seno all'esercito, c'è una milizia al soldo di Camara, determinata a uccidere e pronta a commettere crimini ancora più gravi di quelli di lunedì».

Sul piano internazionale non si è fatta attendere la condanna delle violenze: dall'Unione africana all'Unione europea, dalle Nazioni Unite alla Comunità economica dell'Africa occidentale (Cedeao), da Parigi a Washington a Londra. La Francia ha sospeso la cooperazione militare e ha annunciato il riesame del suo aiuto bilaterale. Quanto all'Unione europea, aveva già congelato il proprio aiuto allo sviluppo dopo il colpo di stato dello scorso dicembre. La Guinea è grande poco meno dell'Italia e ha 10 milioni di abitanti con un reddito pro-capite di 1.100 dollari l'anno.

tratto da Nigrizia - 30/9/2009

Sudafrica - Attacco alla democrazia nelle baraccopoli

L'apartheid non è finita

Nell'insediamento di Kennedy Road la milizia armata dell'Anc attacca il movimento Abahlali base Mjondolo

Comunicato stampa

Ormai da tre giorni Abahlali base Mjondolo (“quelli che vivono nelle baracche” in lingua zulu) è sotto violento attacco da parte della milizia armata dall’African National Congress. Il teatro principale delle violenze è l’insediamento di Kennedy Road, una delle principali baraccopoli di Durban. L’insediamento informale di Kennedy Road (dove vivono circa 7000 persone) è il luogo dove, alla fine del 2005, è nato il movimento Abahlali baseMjondolo. Il movimento lotta per i diritti alla casa e all’accesso ai servizi pubblici, e si oppone agli sgomberi indiscriminati delle baraccopoli. La battaglia di Abahlali è anche diventata una battaglia di democrazia: secondo il movimento, le autorità devono consultare i residenti degli insediamenti (shack dwellers) prima di prendere decisioni che riguardano gli insediamenti e il loro futuro, ascoltando le esigenze degli shack dwellers. La lotta del movimento si è concretizzata anche in un rifiuto della politica istituzionale, che non fornisce adeguate risposte ai problemi degli shack dwellers, e nel rifiuto di votare alle elezioni.

Abahlali base Mjondolo conta migliaia di membri e simpatizzanti in vari insediamenti nel KwaZulu-Natal e nell’area di Città del Capo. Il movimento elegge annualmente la sua leadership e prende ogni decisione attraverso assemblee di gestione aperte a tutti, in ogni insediamento in cui è presente.

Nell’insediamento di Kennedy Road a Durban, Abahlali lavora da anni insieme al Kennedy Road Development Committee.

Nella notte di sabato 26 settembre, i membri del Kennedy Road Development Committee sono stati vittima di un improvviso attacco da parte di un gruppo di 40 uomini armati. Ci sono sicuramente dei morti, alcuni dicono 3 altri 5. La polizia, per quanto avvertita, non è arrivata a Kennedy Road. Nella stessa notte, tutti i leader principali del movimento Abahlali sono stati presi di mira. Le loro case e i loro negozi sono stati distrutti. Dalle prime ricostruzioni pare evidente che il gruppo di criminali che ha sferrato l’attacco abbia legami diretti con la leadership locale
dell’African National Congress (ANC), che aveva promesso, due settimane fa, che avrebbe “reso la sede di Abahlali base Mjondolo una sede dell’ANC”.

La polizia è giunta la mattina di domenica e ha arrestato circa 8 persone.
Paradossalmente, però, le persone arrestate sono membri del Kennedy Road Development Committee, cioè quelli che hanno subito le aggressioni. Fra gli arrestati ci sono anche alcune persone che stavano partecipante ad una festa popolare a chilometri di distanza quando è avvenuto l’attacco.

La polizia presidia l’insediamento da domenica mattina, ma non sta facendo nulla per evitare che gruppi di criminali armati si aggirino per Kennedy Road, minacciando e aggredendo gli abitanti. Ogni richiesta di aiuto da parte di membri del movimento è stata ignorata.

Migliaia di persone hanno abbandonato la baraccopoli di Kennedy Road nelle ultime ore. Oltre alle donne e ai bambini, anche gli attivisti di Abahlali hanno lasciato l’insediamento a causa delle minacce di morte che hanno ricevuto.

Lunedì mattina il presidente della circoscrizione e l’assessore provinciale alla sicurezza sono giunti all’insediamento con una massiccia presenza di polizia. Le autorità hanno tenuto una conferenza stampa nella sala della comunità, dimostrando implicitamente il loro appoggio alle aggressioni che sono avvenute nel fine settimana. Hanno anche lanciato accuse al Kennedy Road Development Committee, sostenendo che i membri del comitato sono stati i primi ad iniziare le violenze.
Questa dichiarazione, però, risulta essere falsa. Ci sono vari testimoni, alcuni anche estranei alle vicende locali, che possono affermare il contrario.

Poco dopo, la polizia ha lasciato l’insediamento insieme alle autorità.
L’insediamento è stato lasciato nelle mani di gruppi di uomini armati al soldo dell’African National Congress che hanno distrutto l’ufficio di Abahlali baseMjondolo e minacciato di morte gli attivisti del movimento. Anche simpatizzanti e sostenitori del movimento, nonché vari giornalisti, sono stati minacciati ed è stato loro intimato di non avvicinarsi all’insediamento.

Dalle dichiarazioni delle autorità e dalle notizie che giungono, pare che il Kennedy Road Development Commitee e Abahlali siano stati allontanati dell’insediamento e sembra che tutt’ora l’insediamento sia sotto il controllo armato di membri della milizia. Tutti i membri del movimento hanno dovuto rifugiarsi altrove per la loro sicurezza.

La realtà, purtroppo, è che nei suoi 4 anni di attività il movimento è stato continuamente bersaglio della polizia. I suoi membri sono stati arrestati innumerevoli volte, accusati di crimini mai commessi, picchiati, perseguitati, minacciati. Le manifestazioni del movimento sono state vietate e represse, e le autorità hanno cercato di rappresentare il movimento come manovrato da forze esterne e antidemocratiche. Diverse organizzazioni che si battono per la libertà di espressione e per i diritti umani hanno denunciato questi atteggiamenti deprecabili da parte delle autorità pubbliche sudafricane.

In queste ore i comunicati dell’African National Congress locale cercano di addossare la responsabilità di quanto accaduto ai membri del movimento e che “è inaccettabile che un’associazione decida orari di chiusura ad esercizi commerciali nelle baraccopoli e che imponga alle persone un coprifuoco durante la notte”.
Paradossalmente, diventa una mancanza di democrazia una norma di autoregolazione che una comunità (attraverso un comitato regolarmente eletto) si era data, e non tanto un attacco da parte di uomini armati che ha ucciso, ferito e lasciato persone senza casa.

Il movimento continua a fare paura soprattutto all’ex partito “rivoluzionario”. Il fatto che i poveri abbiano deciso di parlare, di fare sentire la propria voce denunciando i tradimenti dell’elite politica è avvertito come una grande minaccia.
L’ANC vuole riconquistare, con ogni mezzo, i territori controllati democraticamente dal movimento. Nessuno è ostaggio del movimento! Ogni persona che vive negli insediamenti è libera di partecipare e di eleggere i propri leader. L’ANC ora vuole invece fare credere che il movimento sia un gruppo di criminali che terrorizza la propria gente.

Il movimento sta dando fastidio con la sua lotta alla corte costituzionale, dove si sta cercando di dichiarare incostituzionale una legge che garantirebbe alle varie municipalità di radere al suolo gli insediamenti e ricacciare gli abitanti verso il “deserto” delle periferie. Sta dando fastidio con il suo rifiuto di partecipare alla “politica” gestita dai partiti, dagli esperti delle sofferenze altrui. Sta dando fastidio perché è una realtà che sta crescendo in tutto il Sudafrica e si sta opponendo agli sgomberi forzati che il governo sta attuando per garantire un’immagine patinata in occasione del 2010.

L’apartheid non è finita, a quanto pare.

Francesco Gastaldon (Durban)

Filippo Mondini (Castelvolturno, di ritorno dal Sudafrica)

Per aggiornamenti si può consultare il sito del movimento
Abahlali

E' stata lanciata una petizione di solidarietà su:
www.thepetitionsite.com

We are the Crisis: Occupy California!


Usa: durante il G20 esplode la "bolla" dell'educazione

di Paolo Do

Non è altro che l`inizio! È da Venerdì scorso che decine di studenti e lavoratori della UC di Santa Cruz stanno occupando alcuni locali del proprio campus per protestare contro i tagli ai finanziamenti pubblici e salari, insieme ai vertiginosi aumenti delle tasse universitarie. ‘Non abbiamo altra scelta che occupare, perché la situazione è diventata insostenibile’. Queste sono le prime parole con cui studenti e ricercatori annunciano l`occupazione dell’università di Santa Cruz in California (http://occupyca.wordpress.com/).

Qualche mese fa, parlando del sistema universitario americano, un giornalista del famoso Chronical HE si chiedeva quando la bolla della educazione sarebbe scoppiata. Una domanda retorica se si pensa che nella sola California i pesanti tagli hanno ridotto di quasi 40.000 studenti il numero degli iscritti per l`anno accademico 2010/2011 con un aumento delle tasse fino a 10.300 dollari in più, vale a dire un aumento annuo del 32% (sic!). A questo dobbiamo aggiungere che il debito studentesco è aumentato dell`800% dal 1977 al 2003 solo negli Stati Uniti e quasi i due terzi degli studenti sono di fatto lavoratori a tempo pieno.

Alle cinque del pomeriggio di giovedì scorso, decine di studenti e lavoratori dell`università si sono incontrati al secondo piano della UC Santa Cruz. Bloccate le porte con banchi e mobili vari, la scritta ‘Occupiamo tutto!’ è comparsa sulle pareti del campus.

La solidarietà a questa occupazione e alle loro rivendicazioni è arrivata in un solo giorno fin dalle università di Washington e dagli studenti della NYU, ovvero dall`altra parte degli States.

Gli occupanti domandano al rettore ed ai suoi organi accademici di bloccare i tagli al personale e ai salari, così come l`aumento delle tasse studentesche per coprire un buco di bilancio di 813 milioni di dollari dovuto alla mancanza di fondi pubblici.

Un aumento delle tasse e allo stesso tempo un drastico taglio alle risorse condanna inevitabilmente gli studenti a pagare sempre di più per un servizio sempre più dequalificato. Ricetta, questa, in via di sperimentazione anche negli atenei europei ed italiani in particolare.

Docenti costretti a prendersi un anno di aspettativa, interi dipartimenti dimezzati, aumenti delle tasse universitarie: non è soltanto la crisi del pubblico quella che abbiamo di fronte con la quasi bancarotta della UC, ma di un particolare modello di università, ovvero di quel virtuoso legame che ha reso possibile, per intenderci, esperienze produttive come la Silicon Valley, altrimenti impensabili senza la spina dorsale delle università californiane.

Richiamandosi direttamente alle occupazioni di fabbrica della Chicago Republic Windows and Doors da parte degli operai, dopo che la Bank of America aveva cancellato il finanziamento alla compagnia nel 2008, questa nuova occupazione ad oltranza ci insegna di come sempre più anche lo stesso mondo dei servizi sia legato a doppio filo alla stessa speculazione finanziaria.

Tutt’altro che passata, la crisi sta facendo sentire fino in fondo la sua morsa: dopo aver messo in ginocchio uno stato come la California e la città di Chicago, sta pesantemente investendo le stesse istituzioni universitarie statunitensi sia pubbliche che private.

Dopo le note rassicuranti dei governi seduti al G20 di Pittsburgh e della banca centrale (Fed in testa) che candidamente hanno affermato come il peggio sia ormai passato, gli fa eco oggi il rumoroso slogan degli occupanti della baia di S. Francisco: ‘We are the crisis!’. Noi siamo la crisi!

Tratto da:
UniRiot.org

Links Utili:
http://occupyca.wordpress.com/
http://socialismandorbarbarism.blogspot.com/
http://wewanteverything.wordpress.com/
http://www.edu-factory.org

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!