giovedì 3 settembre 2009

Palestina - Appunti di viaggio

Diminuiscono i raid israeliani, si attenua la pressione ai posti di blocco. Ma il muro si mangia le terre e strangola le città palestinesi, mentre l'ANP soffoca la resistenza armata. E la depalestinizzazione di Gerusalemme (e non solo) procede incessante.
Da Ramallah a Tel Aviv, dai campi profughi di Betlemme a una Hebron sempre più drammaticamente divisa, passando per Nablus, Habla, Qalqilya e Giaffa: gli appunti di tre settimane di viaggio.

di Paolo Cuttitta

Adagiata su un’altura, pochi chilometri a Nord di Gerusalemme, Ramallah è la città più secolare e internazionale della Cisgiordania. La sua università è la meno conservatrice, e per le strade è facile incontrare stranieri e donne senza velo. Ramallah è anche la sede temporanea del governo palestinese, la capitale provvisoria di uno stato che ancora non esiste. Quella definitiva dovrebbe essere, un giorno, Gerusalemme: proprio questa, però, è una delle questioni più spinose nelle relazioni con Israele. Anche il mausoleo di Yasser Arafat – dove il sarcofago con le spoglie dello storico leader è vegliato da due soldati in alta uniforme – ha qui a Ramallah la sua collocazione provvisoria, in attesa che possa essere realizzato il desiderio del padre della patria di essere sepolto a Gerusalemme. La speranza dei palestinesi è che la provvisorietà di Ramallah – come capitale e come luogo di sepoltura di Arafat – non si riveli duratura come la provvisorietà dei campi profughi nei quali vivono quattro milioni e mezzo di loro connazionali, sparsi tra Giordania, Siria, Libano, Striscia di Gaza e Cisgiordania.

Aida è uno dei tre campi profughi di Betlemme. Vi abitano cinquemila persone. Sulla porta d’ingresso del campo c’è una gigantesca chiave, che gli abitanti assicurano essere la più grande del mondo: “la faremo entrare nel Guinness dei primati”, affermano. Fu collocata lì nella primavera del 2008, nel sessantesimo anniversario dell’esodo forzato dei palestinesi dal territorio dell’odierno Israele, e simboleggia la mai sopita aspirazione a tornare nelle proprie terre, la chiave di casa che i profughi, allora, portarono con sé. Oggi le chiavi sono tutto ciò che resta di quelle case: mentre le terre venivano confiscate, più di cinquecento villaggi palestinesi furono rasi al suolo dopo la proclamazione dello stato di Israele. Per i palestinesi il diritto dei profughi al ritorno, in ossequio alle normative internazionali, è un punto fermo: niente pace senza giustizia, niente accordi con Israele senza che ai profughi sia consentito di tornare nelle loro terre. Per questo la chiave – accanto ai volti dei martiri della resistenza, immortalati con i fucili in mano – è un motivo che ricorre spesso, nei manifesti e nei murales che si incontrano nelle città e nei campi profughi della Cisgiordania.

I campi nacquero come tendopoli provvisorie quando ancora si sperava in un ritorno imminente. Poi si cominciò a capire che i tempi si stavano allungando. Tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta le Nazioni Unite cominciarono a costruire case in muratura al posto delle tende. Poi arrivarono i servizi essenziali: acqua, elettricità, fognature. Ma con tempi, a volte, lunghissimi: a Azzeh – un altro campo di Betlemme – il sistema fognario fu realizzato solo nel 2000. Le canalette di scolo a cielo aperto, utilizzate fino ad allora, sono tuttora visibili al centro delle vie. Ancora oggi la vita nei campi – da quello di Azzeh, il più piccolo, a quello di Balata, a Nablus, che è il più grande della Cisgiordania – procede in una condizione di permanente precarietà e disagio. Spazi strettissimi tra un edificio e un altro – quelli che nei nostri centri storici chiamiamo vicoli sembrano al confronto eleganti boulevard – e famiglie di quindici persone stipate in appartamenti di 70 metri quadrati. A Balata, in edifici che raramente hanno più di due elevazioni, 26.000 persone vivono ammassate in un chilometro quadrato (Portici, che è il comune italiano più densamente popolato, conta 14.000 abitanti per chilometro quadrato). Nei campi profughi anche i tassi di povertà e di disoccupazione sono più alti che altrove, e l’attività repressiva dell’esercito israeliano è più intensa. Ad Aida e ad Azzeh il 4% della popolazione è in carcere. La percentuale aumenta notevolmente se si considera la sola popolazione maschile adulta. Attualmente i palestinesi dei territori occupati che si trovano in stato di detenzione sono in tutto undicimila, di cui più di trecento minorenni (dai tredici ai diciotto anni) e meno di duecento donne. Spesso intere famiglie vedono i propri membri alternarsi o ricongiungersi nelle galere israeliane. Mohanned è uscito nel 2007, dopo tre anni. Due mesi dopo avere rilasciato lui hanno arrestato suo fratello minore, diciottenne. Altri due mesi dopo è toccato al fratello più piccolo, di sedici anni. Fadi, invece, è uscito all’inizio di luglio. Ha vent’anni, di cui gli ultimi due – mi racconta – passati “in una cella di quindici metri quadrati con cinque letti a castello per dieci persone, e due ore d’aria al giorno, solo perché faccio parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina”. L’FPLP è un movimento politico regolarmente rappresentato nel parlamento palestinese, parte integrante dell’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce tutte le principali formazioni politiche palestinesi a eccezione di Hamas), ma è stato anche inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche da Israele (e dagli Usa, e dall’Unione europea…) in quanto parte attiva dell’intifada.

Quasi tutti gli arrestati vengono detenuti in Israele, contravvenendo agli obblighi internazionali che vietano alle forze occupanti di trasferire sul proprio territorio i prigionieri. Molti vengono detenuti a tempo indeterminato senza accusa formale né processo. Il sindaco di Nablus, Adli Ya’ish, ingegnere laureato in Inghilterra, vinse le elezioni comunali del 2005 come indipendente sostenuto da Hamas. È un religioso moderato, e si dichiara contrario alla resistenza armata. Ya’ish racconta della sua prigionia: “Mi arrestarono la notte del 23 maggio 2007. Rimasi in cella otto giorni, senza notifica dell’arresto né dell’accusa. Poi la detenzione amministrativa fu prolungata a sei mesi. Fui interrogato a novembre, per tre giorni di seguito: mi accusarono di avere fatto parte, negli anni Settanta, di un’associazione che peraltro era, a quei tempi, perfettamente legale. Mi rilasciarono nell’agosto del 2008 e finalmente potei riprendere il mio mandato”. Chi è accusato di resistenza armata può essere anche ucciso – oppure punito, oltre che con la reclusione, con pene supplementari, come la demolizione della propria casa. In effetti, camminando per città e campi profughi, si incontrano di tanto in tanto spazi vuoti tra gli edifici: le macerie sono state rimosse, e ora resta solo – a ridosso dei palazzi limitrofi o della strada – qualche frammento di muro, qualche traccia di intonaco o di piastrelle, la cornice di una porta... Le autorità israeliane giustificano la procedura – che lascia senza casa anche i familiari del prigioniero, ed è comunque illegale dal punto di vista del diritto internazionale – sostenendo che essa viene riservata solo agli autori di attentati terroristici (definizione che peraltro accomuna indistintamente tutti gli atti di resistenza armata contro l’occupazione), ma in realtà le demolizioni di case private vengono spesso attuate in modo indiscriminato. E oltre alle case vengono distrutte anche strutture vitali dell’economia palestinese.

Nel centro storico di Nablus, a ridosso del vivacissimo mercato, una spianata desolata è ciò che resta della più grande fabbrica di sapone dell’intera Palestina, distrutta dai missili israeliani nel 2002: durante l’attacco militare restarono uccise tredici persone. Il più antico bagno turco della città, invece, è stato distrutto tre volte e altrettante volte ricostruito. Il proprietario, in questo caso, se lo poteva permettere, ma molti non hanno i soldi necessari per ricostruire ciò che gli israeliani distruggono. Anche l’agricoltura palestinese è stata gravemente colpita. A volte, nelle campagne della Cisgiordania, ci si imbatte in surreali cimiteri arborei: distese di terra nuda dalla quale emergono, spettrali, solo moncherini cilindrici. Erano alberi di ulivo, simbolo della Palestina e fonte di sostentamento per i suoi abitanti. Dal 1994 a oggi le forze di occupazione hanno abbattuto oltre mezzo milione di alberi.

Un altro modo per fiaccare la resistenza del popolo palestinese è la costruzione del muro: “barriera di sicurezza” contro le incursioni dei terroristi, secondo il governo israeliano; “muro della segregazione”, secondo i palestinesi. A pochi chilometri da Betlemme, nei pressi del villaggio di Battir, la campagna sembra quella siciliana. Colline dolcemente brulle, terre riarse dal sole ma punteggiate da innumerevoli ciuffi di verde scuro: sono alberi di ulivo, finora risparmiati dalla distruzione. Dal terrazzo di una piccola trattoria di campagna, costruita con l’aiuto di fondi italiani per lo sviluppo e gestita comunitariamente da tutto il villaggio, si vedono solo uliveti a perdita d’occhio: nessuna casa, nessuna strada, nessuna traccia di cemento o asfalto. Neanche un palo della luce. “Laggiù c’è Israele”, mi spiega un giovane del luogo. Non c’è nulla a segnare o a proteggere la cosiddetta linea verde, il confine tra Israele e i territori occupati nel 1967. Chiunque potrebbe passare tranquillamente dall’altro lato. Secondo gli attuali progetti, il muro lo costruiranno presto anche qui, distruggendo l’incanto di un panorama straordinario. Ma ancora oggi, qui come in tanti altri angoli della Cisgiordania, chi volesse andare in Israele per farsi esplodere in un mercato di Gerusalemme o in una discoteca di Tel Aviv potrebbe farlo senza difficoltà.

Seppure al valico di Qalandiya mi capita di attendere un’ora in fila per i controlli, e a quello di Betlemme assisto all’esame elettronico delle impronte digitali di tutti i palestinesi, appare chiaro, insomma, che il muro non può spiegare la fortissima diminuzione degli attentati in territorio israeliano. Attualmente, sul tracciato totale di 770 km, solo 425 risultano completati. Altri 67 sono in costruzione, mentre i restanti 278 esistono solo sulla carta, come nelle campagne di Battir. “E anche lì dove c’è il muro, è possibile passare corrompendo i militari israeliani”, dice Cedric Parizot, antropologo presso il Centre de recherche français di Gerusalemme. Da undici anni il trentasettenne ricercatore francese studia il funzionamento dei confini israelo-palestinesi. “Il muro ha una funzione simbolica”, continua Parizot, “perché dà forma materiale a una frontiera tra civiltà che dopo l’11 settembre si tende a dipingere con toni sempre più netti. E perché serve a tranquillizzare i cittadini israeliani. Ma il muro ha anche una funzione territoriale assai concreta: serve a spostare i confini di Israele ben oltre la linea verde, fin nel cuore dei territori occupati”. In effetti solo 128 km del muro (il 16,6% del tracciato totale) coincidono con il confine vigente prima dell’occupazione. Per il resto il muro penetra in Cisgiordania seguendo percorsi che servono, in primo luogo, a raggiungere – per includerli a ovest del proprio tracciato – molti degli insediamenti ebraici costruiti illegalmente da Israele nei territori occupati. “In questo modo”, conclude Parizot, “si mira a decolonizzare le colonie, a trasformarle in parti integranti di Israele”. Quasi il 9% della Cisgiordania si trova a Ovest della “barriera di sicurezza”.

Per vedere il muro in uno dei tratti più significativi del suo tracciato andiamo a Qalqilya, una cittadina di 40.000 abitanti che confina con la linea verde. Qui il muro segue la frontiera precedente il 1967 solo a Ovest, nel tratto in cui questa confina con la città. Poi il muro penetra a Nord e a Sud in territorio palestinese e si stringe come un cappio attorno all’abitato, in modo da lasciare Alfei Menashe e Tzufin – due colonie israeliane, rispettivamente a Sud-Est e a Nord-Est di Qalqilya – dall’altro lato del muro. Per entrare e uscire da Qalqilya resta solo uno spiraglio, sorvegliato da un posto di blocco israeliano. Lo stesso vale per la più piccola cittadina di Habla, appena più a Sud di Qalqilya. Anche qui un cappio di cemento alto otto metri si chiude attorno alla città. Nel tratto in cui segue la linea verde, il muro sfiora le case di Habla da un lato e, dall’altro, quelle della cittadina israeliana di Mattan. Poi, come già a Qalqilya, anche qui il muro penetra in Cisgiordania avvolgendo Habla e il villaggio di Ras ‘Atiya. Guardando dall’altro lato si vedono due escavatrici in funzione: “Cercano l’acqua”, mi spiega Ahmed, che mi accompagna nel giro lungo il perimetro del muro. La funzione territoriale della barriera, infatti, non è solo quella di separare gli insediamenti ebraici dal territorio in cui sorgono e integrarli idealmente e funzionalmente nel tessuto dello stato israeliano. Un’altra funzione, nella regione di Qalqilya, è assicurare agli israeliani il controllo delle falde acquifere, di cui il sottosuolo, in questa zona, è particolarmente ricco. L’acqua, in Palestina, è preziosa, e a gestirla sono le forze di occupazione. Mentre le colonie israeliane sono rifornite generosamente e ininterrottamente, il razionamento imposto ai palestinesi costringe questi ultimi ad attese di settimane. A Qalqilya e a Habla, poi, si può osservare anche un altro effetto del muro. Qui molti abitanti sono stati separati dalle terre di loro proprietà: le terre da loro coltivate, spesso le loro principali fonti di sostentamento. Ciascuna delle due città ha a disposizione un varco agricolo, ma il presupposto per potere andare dall’altro lato del muro è un permesso rilasciato individualmente dalle autorità israeliane. Abu Salim, sindaco di Habla, mi porge un foglio con i dati ufficiali: da gennaio a luglio 2009 sono state presentate 844 richieste di permesso; ben 637 di esse sono state respinte e solo 207 sono state accolte. “Chi è giovane non ha speranze. Io ho avuto il permesso perché sono anziano, ma nessuno dei miei figli lo ha avuto”, dice il vice-sindaco, Mohammed Shahuan. La ragione è duplice: non solo evitare che i giovani palestinesi sfruttino l’opportunità per cercare irregolarmente lavoro in Israele, ma anche tenerli lontani dalle loro terre e porre così le basi per il graduale esproprio totale delle stesse. “Un tempo avevamo 30 mila metri quadri di terreno”, continua il vice-sindaco. “Quattromila ce li espropriarono nel 1982 per costruire la strada che collega Israele con l’insediamento ebraico di Alfei Menashe, altri quattromila se li presero vent’anni dopo per costruirci il muro”. Ora la famiglia Shahuan teme per i restanti ventiduemila.

Lì dove si apre il varco agricolo il muro non è di cemento: è una recinzione metallica, protetta da rotoli di filo spinato dal lato palestinese e affiancata, dal lato israeliano, da un’ampia strada sulla quale si muovono i mezzi militari. I sensori elettronici fanno scattare l’allarme se qualcuno tocca la rete, e perciò i palestinesi lo chiamano “il muro elettronico”. Un cartello rosso – in ebraico, arabo e inglese – avverte: “Chiunque oltrepassi o danneggi la recinzione rischia la vita”. Dall’altro lato si vedono escavatrici israeliane impegnate nella ricerca dell’acqua. Solo tre volte al giorno – alle 6, alle 12 e alle 16 – le porte del varco si aprono per chi ha il permesso. E i controlli impongono lunghe attese: una vessazione quotidiana per chi deve andare a lavorare le proprie terre. Ma anche un’occasione per fare un po’ di soldi, per qualcuno. “Chi ha il permesso di passare con il furgone” – dice Ahmed – “si fa pagare fino a 2.000 sheqel (quasi 400 euro) per trasportare clandestinamente dall’altro lato chi il permesso non l’ha. E se si vuole evitare il rischio di perquisizioni del mezzo basta allungare qualche migliaio di sheqel anche ai soldati israeliani”. Come tutte le frontiere, anche la “barriera di sicurezza” israeliana ha i suoi punti deboli.

Ma allora, se non è stato il muro, che cosa ha così sensibilmente ridotto gli attentati palestinesi in territorio israeliano? Anche altre misure, come le leggi che hanno ostacolato l’impiego di lavoratori palestinesi (non solo in Israele ma anche negli insediamenti israeliani dei territori occupati), riducendone il numero dai 145.000 del 2000 a meno della metà, hanno avuto un ruolo secondario. Decisiva è stata certamente la condotta dell’ANP, l’Autorità Nazionale Palestinese, che formalmente, dagli accordi di Oslo siglati nel 1993 e integrati nel 1995, amministra le zone dei territori occupati non interamente soggette al controllo israeliano. Negli ultimi anni l’ANP ha progressivamente accresciuto il proprio impegno volto a disarmare i gruppi militari della resistenza e arrestarne i principali esponenti, tanto da guadagnarsi l’accusa di collaborazionismo con le forze di occupazione. Ancora nello scorso mese di giugno i ripetuti scontri tra le forze dell’ordine palestinesi e l’ala militare di Hamas hanno provocato dieci morti nella città di Qalqilya. L’accusa di collaborazionismo – sommata a quella di corruzione – è valsa a Fateh (la formazione politica che costituisce l’ossatura dell’ANP e rappresenta l’interlocutore privilegiato dell’Occidente) la sconfitta elettorale del 2006 a vantaggio di Hamas. Agli occhi di molti, in effetti, gli accordi di Oslo sono serviti solo a consolidare l’occupazione israeliana e a minare l’unità del popolo palestinese contro gli invasori. Insieme all’ANP, anche molte associazioni e organizzazioni non governative sono sotto accusa. Vivono dei fondi offerti dai paesi occidentali, e i fondi sono legati alla condizione che si contrasti ogni forma di resistenza violenta all’occupazione. “Ci sono tante associazioni palestinesi che accettano di collaborare per la normalizzazione dello status quo, di firmare accordi che parlano di condanna del terrorismo ma che di fatto finiscono per consegnare il paese in mano al nemico, annientando la resistenza”, dice Najeh, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Anche Hasam, dell’associazione Badil (un centro di ricerca e assistenza che si occupa della questione dei profughi palestinesi), esprime le sue riserve: “Molte ONG hanno un effetto deleterio. Sono parte integrante dell’occupazione e fonte di corruzione. Inoltre, prima degli accordi di Oslo, Israele era costretto ad assumersi tutti gli oneri dell’occupazione. Adesso ci sono le ONG a occuparsi delle ricostruzioni dopo i raid israeliani e a fornire assistenza alla popolazione, e gli israeliani hanno un pensiero in meno. Le ONG hanno un grande potere nei confronti della popolazione palestinese perché distribuiscono soldi (gli aiuti della cooperazione internazionale) e posti di lavoro, e in alcuni casi sono determinanti anche nelle nomine dei leader dell’ANP. L’ANP, a sua volta, dà lavoro a tantissime persone, qui in Cisgiordania. Tanto le ONG quanto l’ANP devono attuare le politiche che vengono loro imposte dai donatori”.

Ma all’interno dell’OLP i più hanno preso atto del fatto che anche la seconda intifada non ha dato alcun risultato, perché Israele, armata dagli Usa, è troppo superiore dal punto di vista militare. E che quindi, almeno per il momento, non resta che trattare e sperare nel sostegno della comunità internazionale per la creazione di uno stato palestinese. “Noi adesso ci siamo fermati, stiamo dando fiducia all’OLP nella sua scelta di cercare una soluzione pacifica”, dice il rappresentante di un’associazione di profughi di Nablus. “Ma se non arrivassero risultati, prima o poi potrebbe scoppiare una terza intifada”. E un giovane membro del partito popolare palestinese aggiunge: “Continueremmo a non ottenere niente ma almeno gli israeliani sarebbero costretti a ricordarsi ogni giorno del fatto che esistiamo e che non siamo disposti a regalare loro la terra che ci appartiene”.

Intanto, nello scorso mese di luglio, si sono registrate novità insperate, che hanno migliorato sensibilmente le pesantissime condizioni di vita nei territori occupati. In primo luogo, sono stati notevolmente alleggeriti i controlli ai check-point. L’intero territorio della Cisgiordania continua a essere costellato di posti di blocco: oltre seicento fissi, cui si aggiunge un numero variabile di posti di blocco volanti. Impossibile andare da una città a un’altra senza incontrarne qualcuno. Nel tragitto di un paio d’ore tra Nablus e Betlemme ne conto otto: nonostante la targa palestinese, però, il nostro mezzo non viene fermato neanche una volta. Fino a giugno ciò sarebbe stato impensabile. Le soste di ore presso i posti di blocco, i controlli minuziosi, le perquisizioni e gli interrogatori erano la regola, e andavano messi in conto per ogni spostamento, anche il più breve. Adesso, invece, i soldati israeliani in servizio lungo le strade palestinesi somigliano piuttosto a dei vigili urbani, mandati a dirigere il traffico dove non ce ne sarebbe nemmeno bisogno. Nell’arco di tre settimane, nonostante i frequenti spostamenti, il mezzo sul quale viaggio viene fermato solo in due circostanze, e in entrambi i casi i militari si limitano a chiedere chi siamo e dove siamo diretti, e ci lasciano andare dopo pochi secondi, senza neanche controllare i documenti. Il comportamento, peraltro, è analogo con gli altri veicoli in transito. Nablus, città che viveva in forzata clausura, riscopre la libertà di movimento e i contatti con il mondo esterno: residenti e non residenti possono entrare e uscire liberamente, per la prima volta dopo otto anni e mezzo. “Ci sono bambini e adolescenti che non hanno mai messo piede fuori da Nablus. Ora lo possono fare”, dice il sindaco, secondo il quale “la ragione dell’alleggerimento della pressione israeliana potrebbe essere il fatto che adesso nella regione di Nablus abbiamo un buon governatore, che ha saputo garantire legge e ordine”. In città adesso si vedono anche targhe automobilistiche israeliane: appartengono a palestinesi di Israele, ai quali è consentito venire a Nablus in occasione del festival che si è inaugurato a metà luglio. E gli spettacoli del festival sono la prima occasione, dopo anni, di vivere le strade di Nablus anche la sera. L’altra novità che si registra in questo mese di luglio, oltre all’allentamento dei controlli ai posti di blocco, è infatti la riduzione delle incursioni notturne dei militari israeliani nelle città palestinesi. A rigore, in realtà, Nablus e le altre principali città della Cisgiordania (Betlemme, Hebron, Jenin, Nablus, Qalqilya, Ramallah e Tulkarm) dovrebbero essere sotto controllo militare palestinese. Sulla base degli accordi di Oslo, infatti, la regione fu transitoriamente suddivisa in zone A (sottoposte all’autorità civile e militare dell’ANP), zone B (sottoposte all’autorità civile dell’ANP e all’autorità militare israeliana) e zone C (sottoposte all’autorità civile e militare israeliana). Di fatto, tuttavia, l’esercito di occupazione ha mantenuto il controllo militare dell’intera Cisgiordania, e le incursioni militari israeliane nelle zone “A” non sono mai cessate, anche se un accordo informale con l’ANP le ha circoscritte, negli ultimi anni, alle ore notturne. Ancora oggi, tra mezzanotte e le sei del mattino, la polizia palestinese si ritira dalle strade di Nablus, in modo da lasciare il campo libero alle forze di occupazione. Ma mentre prima gli israeliani venivano ogni notte – per uccidere o arrestare qualcuno, o semplicemente per mettere pressione alla popolazione – adesso arrivano solo una o due volte la settimana. Lo stesso avviene anche nelle altre città palestinesi.

Hebron, tuttavia, continua a essere un caso a parte. Qui i militari israeliani si vedono notte e giorno, in pieno centro. Hebron, luogo di sepoltura di Abramo, è città sacra a cristiani, ebrei e musulmani. Per secoli vi hanno convissuto pacificamente, insieme alla maggioranza musulmana, le minoranze cristiana ed ebraica. Quest’ultima fu però decimata ed espulsa nel 1929, in una delle sanguinose rivolte scatenate dagli arabi in reazione al progetto del movimento sionista che già da anni alimentava l’immigrazione di ebrei europei in Palestina. Nel 1970, tre anni dopo l’occupazione della Cisgiordania, le autorità israeliane avviarono la costruzione di un nuovo insediamento ebraico, Qiryat Arba, proprio a ridosso di Hebron. Ma un gruppo di coloni, considerando l’insediamento troppo periferico, prese possesso con la forza di alcuni immobili nel centro storico. I primi a essere occupati furono i piani alti di alcuni edifici. Dall’alto i coloni lanciavano oggetti verso i palestinesi che abitavano ai piani inferiori. Con questi e altri metodi (come incendi e incursioni negli appartamenti dei palestinesi) riuscirono a evacuare diverse case e a impossessarsene. Le autorità israeliane si limitarono a prendere atto del fatto compiuto e mandarono i soldati a proteggere i loro connazionali. Dal 1997 la città è materialmente divisa in due. Dentro la zona A è stata creata una zona speciale sotto controllo israeliano. Tra le due zone, sugli edifici occupati dai coloni e sulle strade adiacenti, sono stati installati sbarramenti e recinzioni, collocati blocchi di cemento, srotolati chilometri di filo spinato, costruite torri di controllo.

Una parte del confine coincide con la strada del mercato di Hebron. Una rete metallica, sospesa tra una tettoia e l’altra, copre la via. Alzando gli occhi, il cielo si intravede appena: in mezzo c’è la rete, e sulla rete sacchi di sabbia, bambole rotte, stracci, carcasse di televisori, bottiglie e pezzi di legno. “Hanno dovuto metterla – la rete – perché i coloni facevano il tiro al bersaglio sui commercianti e sui loro clienti”, ci spiega la nostra accompagnatrice. Non c’è da meravigliarsi se oggi la popolazione del centro storico è sensibilmente diminuita e le porte di molte botteghe sono tristemente sbarrate. Veniamo invitati in una casa palestinese i cui muri confinano con quelli di un appartamento occupato da coloni, e ascoltiamo il racconto di Nabil, il capofamiglia: “Non lasciamo mai la casa vuota. Qualcuno di noi resta sempre a fare la guardia. Sono pronti a sfruttare ogni occasione per sfondare porte o finestre e devastare la casa, con l’obiettivo di mandarci via e impadronirsene per sempre. Già più di una volta hanno appiccato il fuoco”, aggiunge mostrando i segni dell’ultimo incendio. Poi ci presenta suo figlio, cinque anni di età, occhiali spessi e lo sguardo un po’ smarrito: “Quando aveva tre anni lo sequestrarono e lo picchiarono: per fortuna i soldati israeliani ce lo riportarono nel giro di ventiquattr’ore, ma da allora nessun medico è riuscito a guarirgli i disturbi alla vista causati dalle violenze subite. Noi però teniamo duro: difenderemo casa nostra in ogni modo”. Ai suoi vicini di casa è andata peggio: avevano due bambini, e i coloni glie li hanno ammazzati entrambi. Saliamo sul terrazzo, sul tetto della casa di Nabil. La casa stessa è un confine: un soldato israeliano si affaccia da una torretta militare costruita sul palazzo accanto. Comincia a dare segni di nervosismo per la nostra presenza, e il nostro ospite, a malincuore, ci fa capire che è meglio andare via. Pochi passi più avanti, lungo la strada del mercato, un’altra famiglia ci invita a entrare. Anche qui saliamo sul tetto, e anche qui, a meno di dieci metri in linea d’aria, un militare israeliano sta di guardia. Ma in questo caso il soldato mantiene la calma, si limita a osservarci. I nostri ospiti ci mostrano i serbatoi per l’acqua – indispensabili per ogni famiglia palestinese, dato il regime di razionamento idrico. Ogni serbatoio presenta diversi fori nella parte inferiore, chiaramente praticati dall’esterno con uno strumento appuntito. I serbatoi sono tutti inservibili. “Sono stati i coloni”, dicono i proprietari. “Non perdono occasione per farci qualche angheria. E i soldati israeliani stanno a guardare”.

L’allentamento della pressione militare ai posti di blocco e nelle città palestinesi va ricondotto anche al recente intervento di Obama. Già G.W. Bush, nella sua visita in Medio Oriente del gennaio 2008, aveva chiesto a Israele di fermare le incursioni militari in Cisgiordania. E il suo successore, ricevendo il nuovo primo ministro israeliano, Netanyahu, nello scorso mese di maggio, ha rinnovato l’invito. Ora l’appello sembra essere stato ascoltato, ma solo parzialmente. E su alcune questioni fondamentali Israele continua a mantenere posizioni di chiusura rispetto alle richieste della comunità internazionale. Una di tali questioni è quella degli insediamenti illegalmente creati, dal 1967 in poi, nei territori occupati. Percorrendo le strade della Cisgiordania, in effetti, si capisce cosa intendeva Bush quando disse che “il futuro stato palestinese non può essere un pezzo di formaggio svizzero”. Ovunque sorgono centri abitati di diverse dimensioni, per lo più strategicamente collocati su piccole alture, quasi sempre circondati da recinzioni. Sono pezzi di Israele trapiantati nei territori occupati; sono i buchi del formaggio palestinese. Il numero dei loro abitanti ha ormai toccato il mezzo milione: 200.000 a Gerusalemme Est, poco meno di 100.000 nel restante territorio a Ovest del muro, il resto nella parte orientale della Cisgiordania. Mentre Washington – principale finanziatore dello stato ebraico – chiede lo smantellamento delle colonie, Israele continua ad ampliarne la rete. “Nei mesi scorsi, nella sola regione di Betlemme, hanno confiscato 180 ettari di terre per espandere i loro insediamenti. E a fine giugno hanno ufficialmente dichiarato abbandonati – e di conseguenza trasformati in proprietà dello stato di Israele – 14.000 ettari di terre a ridosso del Mar Morto”, spiega Raed Abed Rabbo, responsabile per le relazioni pubbliche dell’Applied Research Institute Jerusalem. L’ARIJ è un istituto di ricerca palestinese che, contrariamente a quanto lascia supporre il nome, ha sede a Betlemme: le autorità israeliane, infatti, non hanno concesso l’autorizzazione ad aprire la sede a Gerusalemme Est, la zona palestinese della città occupata dagli israeliani. “Ma noi abbiamo voluto mantenere questa denominazione per ricordare che non ci sarà soluzione del conflitto se non si risolverà la questione di Gerusalemme”.

L’altra questione cruciale sulla quale Israele non intende cedere – oltre a quella degli insediamenti – è appunto quella dello status della capitale contesa: “La sovranità israeliana su Gerusalemme è fuori discussione”, ha dichiarato Netanyahu a metà luglio. Secondo il piano delle Nazioni Unite del 1947 (che proponeva la divisione della Palestina – in quel momento ancora colonia britannica – e la creazione di uno stato ebraico e di uno stato palestinese) la città santa sarebbe dovuta diventare una zona ad amministrazione internazionale, non soggetta a sovranità né israeliana, né palestinese. Il primo conflitto arabo-israeliano, però, produsse nel 1949 la divisione della città in una zona Est sotto il controllo giordano e una zona Ovest sotto il controllo israeliano. Gerusalemme rimase spaccata in due fino al 1967, quando Israele mosse guerra ai suoi vicini arabi e in soli sei giorni ne stroncò la resistenza. Mentre il resto della Cisgiordania e la Striscia di Gaza venivano dichiarati territori occupati, Gerusalemme Est fu subito annessa da Israele. La comunità internazionale non ha mai riconosciuto quella che le autorità israeliane celebrano come “la riunificazione di Gerusalemme”, né la sua proclamazione a capitale dello stato ebraico. Tuttavia dal 1967 le autorità portano avanti un incessante processo di ebraizzazione e depalestinizzazione della città santa e della regione circostante. “Dal 2000 a oggi” – continua Rabbo – “oltre seicento case palestinesi sono state distrutte a Gerusalemme Est: 26 solo nel primo semestre di quest’anno. A giugno, inoltre, le autorità israeliane hanno approvato un progetto per la costruzione di un grande albergo che implicherebbe la distruzione di un mercato e di un asilo palestinesi”. Il governo israeliano, infine, continua a consolidare la rete di insediamenti ebraici attorno a Gerusalemme Est. Sull’intera regione dovrebbe presto chiudersi del tutto la morsa del muro, di cui già sono stati costruiti ampi tratti. L’obiettivo è blindare quella che gli israeliani chiamano la “Greater Jerusalem”, l’area metropolitana della città santa, e porre così il mondo intero di fronte al fatto compiuto prima di qualsiasi eventuale accordo di pace.

Un processo di depalestinizzazione, peraltro, è in atto anche all’interno del territorio israeliano, dove i palestinesi superstiti – quelli che non furono costretti a lasciare le proprie case nel 1948; quelli che sono cittadini israeliani ma con uno status differenziato – continuano a subire un lento processo di emarginazione. “Non è tanto con misure esplicitamente anti-palestinesi che si attuano le politiche discriminatorie in Israele, quanto con la discrezionalità con cui è possibile applicare le leggi”, spiega Hasam. “Qualunque pezzo di terra può essere dichiarato zona militare o zona agricola. In tal caso chi si trova lì viene cacciato senza tanti complimenti. E se una terra non viene coltivata per tre anni, può essere confiscata. Naturalmente le autorità non devono rendere conto a nessuno del fatto che le nuove zone militari o agricole vengono create solo in aree di proprietà palestinese, o che le terre incolte vengono confiscate solo se i proprietari sono palestinesi. È in questo modo strisciante che si vessa e si emargina la popolazione palestinese nello stato di Israele”.

Cogliamo alcuni aspetti di questo processo a Giaffa, città palestinese ricca di storia e tradizione, oggi parte integrante di Tel Aviv. Giaffa era un tempo città cosmopolita e porto principale della Palestina. Proprio in considerazione della sua importanza (e del fatto che, nonostante il consistente afflusso di ebrei dall’Europa, la popolazione della città continuava a essere a netta maggioranza araba) il piano delle Nazioni Unite del 1947 prevedeva che il territorio di Giaffa dovesse costituire un’enclave palestinese in territorio ebraico. Ma nel 1948 la città fu conquistata militarmente e annessa a Israele. Nel 1949, al momento del cessate il fuoco, nonostante la maggior parte della popolazione fosse fuggita in Cisgiordania, la città continuava a essere abitata in maggioranza da arabi. Per non lasciare l’amministrazione cittadina in mano ai palestinesi, Giaffa fu quindi annessa al comune di Tel Aviv.

Negli ultimi decenni il volto della città è progressivamente cambiato. “Tra il 1975 e il 1985” – racconta Sami, insegnante, impegnato in un progetto che mira a rendere pubblica la storia nascosta delle minoranze nello stato di Israele – “hanno distrutto oltre tremila case palestinesi”. Il suggestivo centro storico di matrice araba, arroccato su un piccolo promontorio sul mare, è stato svuotato dei suoi abitanti originari, ristrutturato e trasformato nell’appendice pittoresca di Tel Aviv. Vivere a Giaffa adesso va di moda: che si tratti di artisti squattrinati o di ricchi borghesi, gli ebrei di Tel Aviv l’hanno eletta a loro quartiere residenziale privilegiato, e spingono i palestinesi ai margini meridionali della città.

Il complesso residenziale “Andromeda” – un insieme di lussuosi condomini appena fuori la città vecchia, circondato da una recinzione e sorvegliato da agenti di polizia privata – è il principale simbolo di una gentrification che qui a Giaffa è non solo di classe ma anche etnica e culturale. Perfino il nome non è stato scelto a caso. La leggenda vuole che proprio qui, nel mare di fronte Giaffa, Andromeda venisse legata a uno scoglio per espiare le colpe della madre Cassiopea, fino alla liberazione da parte di Perseo. “Anche il recupero del patrimonio mitologico dell’antichità serve a spingere nell’oblio l’identità araba di questi luoghi”, sostiene Sami, mentre ci accompagna lungo le strade polverose dei quartieri meridionali della città.

Camminiamo fino a raggiungere un imponente edificio di forma squadrata, fatto di sottili blocchi sovrapposti di cemento e di vetro, che sorge di fianco a un vecchio cimitero arabo e si affaccia sull’azzurro del Mediterraneo. Nel 1996 l’allora primo ministro israeliano Shimon Peres (premio Nobel per la pace, insieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, nel 1994) fondò il Peres Center for Peace, con l’obiettivo di promuovere il dialogo, la riconciliazione e la pace tra i popoli del Medio Oriente. Per progettare la sede (la Peace House) fu chiamato un architetto occidentale di grido, l’italiano Massimiliano Fuksas. La località prescelta fu Giaffa, proprio in quanto esempio di città israeliana dalla popolazione mista. Oggi, solo pochi mesi dopo la sua inaugurazione, gli atti di vandalismo ai danni della “Casa della Pace” non si contano. Troppo provocatoria appare infatti – ai palestinesi che resistono a Giaffa – la scelta di costruire proprio lì un’opera del genere. “Gli israeliani vengono qua con la scusa di creare centri interculturali ma in realtà vogliono solo una copertura per prendere possesso del territorio”, commenta amaramente Sami. “Perché non l’hanno costruita a Tel Aviv la Peace House? Perché non creano lì i loro centri interculturali nei quali coinvolgere i palestinesi? La ragione è che noi arabi a Tel Aviv non dobbiamo mettere piede, mentre le loro iniziative realizzate qui a Giaffa nel nome della riconciliazione fanno parte del disegno volto a emarginarci anche da quella che è sempre stata casa nostra”.

Tra Giaffa e l’aeroporto di Ben Gurion c’è solo Tel Aviv, ultima tappa del mio soggiorno. Adagiata a ridosso di una lunghissima spiaggia, affollata di bagnanti nel primo shabbat di agosto, Tel Aviv, in Israele, è un po’ come Ramallah in Palestina: la città più secolare e internazionale, dove l’influenza degli ebrei ortodossi è più temperata. Come Ramallah, anche Tel Aviv è una capitale un po’ strana. In questo caso lo stato (Israele) esiste già, ma considera capitale un’altra città (Gerusalemme), mentre Tel Aviv è riconosciuta come tale dagli altri paesi del mondo. Forse ho già la testa a casa, perché tra una lapide che commemora le vittime di un attentato, i militari nelle strade e i lenzuoli esposti alle finestre (chiedono la liberazione di Gilad Shilat, il soldato israeliano prigioniero di Hamas dal 2006), per un attimo mi sembra quasi di essere nella Palermo del dopo-stragi. Quando arrivo nella zona militarizzata che circonda l’aeroporto un soldato ferma il taxi e chiede all’autista da dove viene. “Lo fanno solo per sentire se l’interlocutore risponde con accento arabo. In tal caso cominciano interrogatori e accertamenti, che a volte sono proprio estenuanti”, mi dice il tassista. Lui, invece, ha un accento impeccabile, e per me gli unici interrogatori e accertamenti – effettivamente estenuanti – saranno quelli riservati a tutti i passeggeri stranieri prima dell’imbarco.

mercoledì 2 settembre 2009

Turchia: Pkk; curdi in piazza chiedono pace "onorevole"


Migliaia di curdi si sono radunati ieri 1 settembre in una delle principali piazze di Diyarbakir, la maggiore città curda della Turchia nel sud-est del paese, per chiedere una pace "onorevole" in attesa delle riforme sociali ed economiche promesse dal governo del premier Reçep Tayyip Erdogan per porre fine al conflitto curdo.

Alla manifestazione, organizzata dal filo-curdo Partito per una Società Democratica (Dtp, guidato da Ahmet Türk), hanno partecipato circa 20'000 persone affluite in città da tutta la regione. La gente ha ballato danze e intonato canti tradizionali mentre tanti manifestanti innalzavano striscioni e manifesti con su scritto "Sì ad una pace onorevole" e "la soluzione della questione curda non può essere rinviata". Ma si sono viste anche tante gigantografie con il volto del leader curdo imprigionato Abdullah Ocalan.

La manifestazione, organizzata nel giorno in cui i curdi festeggiano la loro Giornata della pace, viene a poche settimane dall'avvio, da parte del governo, di un'iniziativa tesa a trovare una soluzione alla questione curda, ovvero la lotta separatista dei curdi che ha provocato la morte di circa 40 mila persone negli ultimi 25 anni. Nel piano di pacificazione del governo sarebbero comprese misure a favore dell'uso pubblico della lingua curda e piani di investimento per la creazione di posti di lavoro nelle più povere regioni della Turchia a maggioranza curda.

Ieri, intanto, il ministro degli interni Besir Atalay ha annunciato che il governo presenterà al parlamento un piano d'azione in proposito ai primi di ottobre ma ha escluso che verrà concessa un'amnistia per i ribelli del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) considerati a tutti gli effetti terroristi non solo da Ankara ma anche dagli Usa e dall'Ue. I vertici del Pkk, da parte loro, hanno reso noto di aver esteso la tregua unilaterale decretata mesi fa (ma non riconosciuta dalle autorità turche) che adesso scadrà alla fine del mese sacro del Ramadan, il 22 settembre prossimo.

Guerra al narcotraffico

La strategia del governo messicano tende al fallimento: i morti aumentano, droga e soldi continuano a fluire, la società paga il prezzo.


di Matteo Dean

La chiamano 'guerra contro il narcotraffico'. È stata lanciata così, in pompa magna, davanti alle centinaia di telecamere dei mezzi di comunicazione che riprendevano il neo presidente messicano, Felipe Calderon, in uno dei suoi primi discorsi pubblici, verso la fine di dicembre 2006. E da allora, colui che si era presentato alle elezioni – vinte grazie ad alcune irregolarità – come il “presidente del lavoro” (inteso come posti di lavoro), divenne il presidente della 'guerra al narco', della battaglia 'epocale' contro i potentissimi cartelli messicani della droga. Sin da quei primi mesi, lo slogan ottenne il successo desiderato: nonostante la scarsa legittimità di cui godeva Calderon, la nuova impresa dello Stato contro la criminalità organizzata che “insanguina le nostre terre e offre droga ai nostri figli” sembrava ottenere quel consenso non pienamente ottenuto alle urne. Ed allora il via ufficiale alla crociata anti-criminalità: 70.000 soldati utilizzati in funzione di polizia, nuove leggi che permettono maggiore agilità 'giuridica' e libertà operativa per le forze di polizia e per gli inquirenti, firma dell'Iniziativa Merida, piano strategico che prevede il finanziamento per circa 1.4000 milioni di dollari in tre anni da parte del governo americano per la 'lotta al narcotraffico', ecc..

Ad oggi, 32 mesi dopo il lancio delle operazioni, il bilancio è tragico: oltre 13.000 morti, con un aumento del 100% tra il 2008 e il 2009, visto che si è passati da una media di 10,2 morti al giorno dello scorso anno a ben 20,1 di quest'anno. E, purtroppo, non vi sono segnali di una controtendenza a questa vertiginosa crescita. Certo, si dice, i morti sono tutti narcotrafficanti, grandi e piccoli, che si uccidono tra loro, nella battaglia campale che si è scatenata da quando il governo messicano, lanciando la sua 'guerra', ha tagliato la testa a praticamente tutti i grandi cartelli della droga. Una guerra interna, si dice, che “dimostra l'efficacia dell'attuale politica dello Stato”, dicono presso il plenipotenziario Ministero della Pubblica Sicurezza (SSP, l'acronimo in spagnolo). Quel che è vero, però, è che gli scontri tra le bande di narcotrafficanti non avvengono nelle ore notturne, i luoghi isolati e lontani dagli occhi della popolazione. Al contrario, le sparatorie ormai si realizzano nei centri cittadini delle grandi città, da Guadalajara a Monterrey (rispettivamente la seconda e la terza città più grande del paese), da Ciudad Juarez a Tijuana, da Acapulco e Città del Messico. Ed allora le cifre potrebbero aumentare, perché molte volte le cronache giornalistiche riportano l'esistenza di vittime 'civili', tra i passanti, tra i comuni cittadini costretti ad assistere impotenti a questo scontro senza precedenti. Ma purtroppo, di queste vittime, ancora non c'è una statistica ufficiale che, pur riducendo le vite in semplici numeri, riesca comunque ad offrire un panorama anche di questo genere d'impatto sulla società. Dall'altra parte, poche sono anche le informazioni relative alle morti, pure copiose, tra le forze dell'ordine, attaccate ormai con quotidiana regolarità dalla potente macchina militare del narcotraffico. Il governo lo ha ammesso ormai da diversi mesi: “I cartelli sono militarmente superiori a noi, in quanto a volume di fuoco e capacità distruttiva”. Detto in altre parole: i narcotrafficanti hanno più uomini – si calcola che in tutto il giro d'affari ci lavorino circa 2 milioni e mezzo di persone – ed armi più potenti – da bazooka a missili terra-aria. Insomma, la guerra è vera e non risparmia colpi.

Ma se la campagna presidenziale – perché ormai, tra critiche ed opinioni contrarie, sembra che solo Calderon ed il suo staff continuino a credere nell'attuale strategia – sembra destinata ad aumentare ulteriormente il numero di morti nel paese, sorge da più parti la domanda rispetto il reale obiettivo di tanta “violenza legittima”. Perché è pur vero che molti – ma non tutti: esemplare il caso di Joaquín 'el Chapo' Guzman – dei grandi capos della droga son finiti dietro alle sbarre, ma è questo forse l'unico risultato concreto ottenuto: sull'altro versante, infatti, ormai non si contano i municipi commissariati, le cui polizie locali sono state sostituite dall'esercito; non si conta il numero di armi presenti nel paese; non si contano i giovani – e meno giovani – che oggi, disoccupati e in crisi perenne da ben prima della temibile 'crisi economica', entrano a far parte dell'affare-narcotraffico. Così come, infine, è difficile oggi distinguere con chiarezza le reali operazioni anti-criminalità da quelle contro le organizzazioni sociali, più o meno civili.

La presenza dell'esercito nello stato di Guerrero, per esempio, incluso nelle vie della rinomata Acapulco, ha già prodotto scontri a fuoco, di una certa rilevanza, tra le forze armate e gruppi armati appartenenti alle diverse sigle guerrigliere presenti nel territorio. In altre zone del paese, Oaxaca e Chiapas per esempio, ma anche nel nord della repubblica, sono ormai all'ordine del giorno le denunce di organizzazioni sociali - assolutamente non guerrigliere, ma semplicemente radio comunitarie, contadini, comunità indigene, studenti, ecc. - rispetto ai presunti abusi ed alle violazioni ai diritti umani realizzate dalle truppe dell'esercito nelle vesti della pubblica sicurezza. In questo senso, non solo sono allarmanti le denunce, ma ancor più inquietante risulta essere la risoluzione della Suprema Corte di Giustizia della Nazione (SCJN) emessa a principio di agosto rispetto all'immunità di cui godono le truppe. Dice la risoluzione: i militari colpevoli di violazioni al codice penale saranno giudicati dagli organi di giustizia militari. Un colpo tremendo, soprattutto per tutti coloro – tra cui diversi settori della classe politica rappresentata in Parlamento – che pongono il dubbio sulla reale legittimità nell'uso delle forze armate in funzioni di polizia.

Il dibattito rispetto l'immunità dei militari non è sterile. Al contrario, si genera a partire da fatti concreti: omicidi 'involontari', magari a qualche posto di blocco dove un'automobile innocente non si è fermata all'alt pronunciato dall'esercito; arresti arbitrari, incursioni senza mandato in case e spazi privati; torture ed abusi fisici agli interrogati; alcune sparizioni sospette. Ma la polemica, come suole accadere, si accende solamente quando l'ombra del dubbio è segnalata dalle voci 'importanti'. La consegna dei finanziamenti previsti dall'Iniziativa Merida, infatti, è condizionata dal rispetto dei diritti umani nella lotta al narcotraffico. La legge emessa in aprile di quest'anno dal Congresso statunitense, infatti, vincolava il 15% del finanziamento ad uno studio in fase di realizzazione che certifichi tale rispetto. Il presidente Calderon nega gli abusi. Il Ministero della Difesa ne ammette una decina e conferma che la giustizia militare sta facendo il suo corso. Ma le organizzazioni sociali hanno altri dati: Amnesty International, Human Rights Watch ed altre documentano decine e decine di casi, in tutto il paese.

Rosario Ibarra, oggi senatrice della Repubblica, ma da oltre trent'anni attenta e testarda lottatrice per la consegna delle centinaia di desaparecidos della cosiddetta 'guerra sporca' degli anni '70, tra cui il figlio Jesus Ibarra, avverte che la presenza di tanti soldati nelle strade messicane potrebbe avere anche altre finalità: “Giustificano tutto con la lotta al narcotraffico, ma la gente continua a morire e pochi sono gli arresti”. Aggiunge: “Cercano di abituare la popolazione alla presenza militare per le strade. Fanno in modo che la gente esiga questa presenza, con l'illusione di risolvere il problema dell'insicurezza”. E conclude: “In realtà temo che il prossimo passo ci saranno gli escuadrones de la muerte”(l'ipotesi, purtroppo, si starebbe confermando). Carlos Montemayor, scrittore ed analista politico, coincide nell'analisi: “È evidente che la situazione è scappata al controllo del governo”. In quest'ottica e nel contesto dell'attuale crisi economica – che ha portato all'aumento 'ufficiale' nel numero di poveri in Messico: 53,1 milioni, secondo l'INEGI, l'istituto nazionale di statistiche -, spiega, “si stanno chiudendo le valvole di sfogo naturali alla pressione sociale crescente, ovvero emigrazione (il Messico espelleva, sino all'altr'anno, quasi un milione di persone verso gli USA) e il lavoro informale (o lavoro 'nero', di cui farebbe parte il 48% della Popolazione Economicamente Attiva)”. Quel che resta, conclude “è che la gente senza lavoro andrà ad ingrossare le fila del narcotraffico”. È evidente dunque che, come spiega Johan Galtung, “le ragioni per le quali la gente accetta di lavorare per i cartelli è che desidera uscire dalla miseria” e quindi “ si devono offrire valide alternative economiche alla popolazione”. Ma il governo messicano non ci sente per quell'orecchio e continua ad inviare soldati nelle 'zone calde' del conflitto. Continua Galtung: “Per il governo il problema non è la miseria, ma il narcotraffico, perché questo offre un'alternativa alla miseria di milioni” e di conseguenza ottiene tendenzialmente maggiore consenso. L'attuale militarizzazione del paese, dunque, potrebbe essere letta in un'ottica che comprenda il lungo termine. L'opinione di Galtung, largamente condivisa da Montemayor, è che “il governo teme il 2010, per l'effetto simbolico che produrrà”. Il prossimo anno, infatti, si celebreranno due importanti anniversari: i duecento anni dell'Indipendenza (1810) e i primi cent'anni della Rivoluzione (1910). Secondo i più queste due date “obbligheranno i messicani a chiedersi se gli obiettivi di quei due momenti storici sono stati raggiunti”. In altre parole, nel 2010 i messicani dovranno dire se il Messico è oggi veramente indipendente e veramente democratico. Secondo Galtung il governo messicano teme realmente una rivolta generalizzata nel paese. Le condizioni vi sarebbero tutte e dunque “la presenza dei militari nel territorio, nella società, risponde anche ad altre necessità: abituare la gente alla presenza militare; lanciare un segnale chiaro a chiunque abbia in mente di ribellarsi, 'siamo pronti'; e infine abituare gli stessi militari a stare per le strade, in mezzo alla gente”. Se tutto ciò fosse vero, dunque, rimane una sola domanda a cui rispondere: “La guerra che il governo messicano realizza contro chi è? Contro le bande di narcotrafficanti o contro la popolazione?”.

Libertà di stampa by Israel, l'appello dell'associazione dei media palestinesi: liberate i giornalisti imprigionati.

tratto da Infopal

L'Associazione dei Media palestinesi ha condannato i continui rapimenti di colleghi giornalisti da parte delle forze di occupazione israeliane.

In un comunicato stampa, l'Associazione denuncia il sequestro di Sirri Sammour, avvenuto all'alba di lunedì, dopo che le truppe israeliane ne avevano assaltato l'abitazione di Jenin.

La settimana scorsa sono stati rapiti altri due giornalisti che risiedono nel campo profughi di al-Ein, a Nablus. Altri sei sono attualmente rinchiusi nelle carceri israeliane.

L'organizzazione rivolge un appello a Reporter senza frontiere e alle associazioni per la difesa dei diritti umani e la libertà di stampa affinché condannino le aggressioni israeliane e chiedano l'immediato rilascio dei giornalisti sequestrati.

martedì 1 settembre 2009

Il saccheggio dell’Amazzonia tra antichi conquistadores e moderni petroleros

Toxi-tour: viaggio di Ya Basta! tra le comunità ribelli che si oppongono alla produzione petrolifera.
di Riccardo Bottazzo
Nell’Anno del Signore 1561, Gonzalo Pizarro, governatore di Quito e fratello del celebre conquistadores, armò una grande spedizione e scese il versante orientale della cordigliera alla conquista di terre inesplorate.
Nascosta in quell’immensa foresta dove mai nessun europeo aveva messo piede, sorgeva una città dai tetti d’oro e dalle strade lastricate di pietre preziose. Il sovrano di questo paese era talmente ricco che si faceva cospargere di polvere d’oro. El Dorado, lo chiamavano i suoi sudditi.
Un regno, il cui segreto era gelosamente custodito dai nativi. Tanto che ci erano volute ore e ore di tortura perché un indigeno confessasse la sua esistenza.
E così, 340 soldati spagnoli, 150 cavalieri, 4 mila portatori indigeni e un discreto numero di preti e frati convinti che l’unica differenza tra una spada e una croce dipendesse dalla parte in cui si impugnava il manico, si addentrarono nella foresta inesplorata più grande della terra, massacrando e convertendo, convertendo e massacrando tutti i nativi che gli si paravano davanti.
Avanti, avanti, sempre più in basso e sempre più dentro l’impenetrabile giungla. Avanti, avanti sino a che non fosse apparsa una città dai tetti d’oro da conquistare di spada e di croce.
Tre mesi dopo, la spedizione era ridotta alla fame. Le malattie, la carenza di viveri e di acqua potabile, gli animali velenosi, la resistenza degli indigeni avevano decimato i conquistadores. A morire di fame furono innanzitutto i 4 mila portatori indigeni. Poi cominciarono a cadere anche gli spagnoli.
Stremato, incapace di andare avanti quanto di tornare indietro, Gonzalo Pizarro pose il suo ultimo campo in quelle terre sconosciute e affidò tutte le sue speranze al luogotenente Francisco de Orellana. Un indigeno, dopo l’immancabile tortura, gli aveva confessato che El Dorado era vicina e che sorgeva alla confluenza dei due grandi fiumi che oggi si chiamano rio Napo e rio Coca. Pizarro ordinò al suo luogotenente di mettersi in marcia con la cinquantina di spagnoli ancora in forze, conquistare la città, cristianizzarla, saccheggiarla e far ritorno al campo con oro, viveri e schiavi (quelli che si erano portarti da Quito li avevano finiti tutti) e salvare il suo governatore. Il tutto, in nome di dio e del re di Spagna.
Francisco Orellana si mise in cammino, trovò i due grandi fiumi ma, ahimè, della città dai tetti d’oro non c’era traccia. Vai a capire perché, gli indigeni si dimostravano sempre poco collaborativi nei confronti dei conquistadores. Scappavano, si rifiutavano di aiutarli e di farsi evagelizzare senza previa tortura, erano assai poco precisi nell’ubicare l’El Dorado, e come se non bastasse, erano talmente ignoranti da credere che quelle terre fossero loro e si rifiutavano di ammettere che dio le aveva concesse ai re cattolici di Spagna!
Compreso che tornare indietro significava morire e che l’oro e la gloria di El Dorado potevano essere a pochi chilometri di distanza, nascosti dal quell’intricatissima foresta di alberi giganteschi, Orellana decise di proseguire. Costruì una grande zattera, la varò sul rio Napo, ed affidò la sua anima al buon dio e la sua vita al grande fiume. Aggrappato a quei legni, con gli ultimi compagni rimasti, si abbandonò alla corrente di quelle acque ignote che scendendo a valle si allargavano sempre di più, grazie all’apporto di migliaia di affluenti, sino ad assumere le dimensioni di un piccolo mare d’acqua dolce.
Nell’agosto del 1562, dopo quasi un anno trascorso sulla zattera a pescar piranha e ad azzuffarsi con tutte i gruppi indigene incontrati tra cui una di donne guerriere, il grande fiume che oggi chiamiamo il Rio delle Amazzoni, depositò Orellana e un pugno di conquistadores ancora in vita, nell’Oceano Atlantico. Avevano attraversato l’intero continente.
Mezzo migliaio di anni dopo, nell’Anno del Signore 2009, ai carovanieri di Ya Basta! in viaggio nell’Otra mitad del Mundo, vien da chiedersi se sia cambiato l’atteggiamento dei conquistadores bianchi nei confronti dei popoli amazzonici. Quelle buonanime di Francisco de Orellana e di Gonzalo Pizarro, perlomeno, avevano la fantasia o l’ingenuità di credere nelle fiabe. Le multinazionali del petrolio solo nell’estratto conto. Per il resto, le tecniche di genocidio sono state soltanto ripulite e raffinate. La globalizzazione ha preso il posto della religione. Lo sviluppo economico ha sostituito il saccheggio. Il diritto giuridico, il diritto divino. Neppure la patina di rispettabilità con cui si vestono oggi i padroni dell’Impero è troppo distante da quella che, ai loro tempi, ricopriva la nobiltà.
Soprattutto, l’oro (che non c’era) è stato sostituto dal petrolio (che invece c’è).
Oggi, Puerto Francisco de Orellana, la città alla confluenza dei due grandi fiumi dove il conquistador gettò in acqua la sua zattera, è il capoluogo di una omonima provincia che galleggia sopra un mare di oro nero. Il petrolio, el crudo come lo chiamano qui, è una presenza tangibile in tutti gli aspetti della vita e non solo per la quantità di pompe, stabilimenti, pozzi, ciminiere di fuochi perenni, cisterne, serbatoi, vasche di raccolta e terre devastate dalla contaminacion che si contendono la visuale con quel che rimane degli alti alberi secolari massacrati dalla deforestazione.
Qui, a El Coca, come gli ecuadoriani chiamano familiarmente Orellana, qualsiasi cosa - sogni, urbanistica, speranze, paure, trasporti, lavoro, salute, politica… - viene sempre ricondotta al petrolio. Addirittura il desayuno, la colazione, nei bar viene proposto in due versioni: continental, soliti caffè, pane e marmellata, oppure petrolero. Di che si tratta? Beh… diciamo che il desayuno petrolero sta al continental come il neo liberismo alla decrescita: una quantità di salsiccie, affettati e uova che una normale famiglia indigena non vede insieme neppure in due settimane.
Ma sono i tubi la presenza più ossessiva. Tubi di tutte le dimensioni e di tutti i colori con il solo comun denominatore di essere fatiscenti e assolutamente inaffidabili. Il petrolio amazzonico è tanto ma di cattiva qualità. Per far quadrare i bilanci multinazionali, si punta sulla quantità. Una perdita, anche una perdita capace di inquinare un’area grande come mezza laguna di Venezia, viene considerata insignificante nei conteggi bancari dei petroleros. Non esistono valvole di sicurezza, ad Orellana. Gli svasi di petrolio greggio vengono segnalati dai contadini quando gli animali cominciano a morire e i bambini ad ammalarsi. Manuel, un simpatico colono che ha accolto i carovanieri di Ya Basta! nella sua finca, ci accompagna su un laghetto putrido e puzzolente grande come mezzo campo di calcio. Da far venire la nausea solo a passarci vicino. Dopo la denuncia, spiega, i petroleros hanno fatto svolgere delle analisi chimiche e fisiche. Il risultato? “Che non proprio nulla di cui lamentarmi e posso stare tranquillo – ci spiega–. Mi hanno garantito che la fuoriuscita di greggio ha fatto bene alle piante e ora crescono meglio di prima”. E morta qua. Un’altra denuncia e, invece dei tecnici, sarebbero arrivati la polizia e le guardie private dei petroleros a fargli le “analisi” del terreno! E di morti ammazzati per mani neppure troppo misteriose, come ci confermerà la sera l’amico Diocles Zambrano, leader della rete Angel Shingre, da queste parti ce ne sono fin troppi.
“Qui in Amazzonia il bacino di voto è appena il 5 per cento – commenta Diocles -. Al governo non gliene frega niente di noi. La revolucion ciudadana esta en marcha e passa sopra i più elementari diritti degli indigeni e dei coloni che di petrolio muoiono assieme alla loro terra e alla loro cultura. L’interesse dello Stato viene prima di tutto e tutto giustifica. L’Amazzonia è sacrificabile nell’altare di una economia e di una politica estrattiva che, Correa può anche definirle socialiste, ma sono e restano derechosas (destrorse. ndr). Le compagnie nazionalizzate non hanno fatto certo meglio di quelle straniere sul tema dell’inquinamento e del rispetto dei diritti umani!” Le stesse, frequenti, perdite e rotture dei tubi, spiega Diocles, che stanno ammazzando la foresta e portando alla disperazione gli indigeni che ancora vi vivono, vengono imputate dai petroleros e dal governo ad atti di sabotaggio dei campesinos. Così che chi segnala una pozza inquinante nella sua finca rischia innanzitutto di essere menato di brutto e denunciato alle forze dell’ordine.
Il viaggio della carovana, su uno scassato furgone che tira il fiato su ogni salita, prosegue per le strade di Dayuma dove una targa posta fuori del municipio ricorda la strenua resistenza dell’intera comunità nel 2007, quando ci vollero i mezzi blindati e tremila uomini dei reparti speciali dell’esercito ecuadoriano per porre fine al grande “paro” che vide campesinos e indigeni uniti a bloccare per giorni l’unica strada che collega Orellana ai pozzi.
La martellante presenza dei tubi lungo la carreggiata viene interrotta da ridicoli cartelloni in stile “pubblicità progresso” posti dagli stessi petroleros: “Produciamo l’energia e proteggiamo l’ambiente”, “Non gettate immondizia”, “Donna, non permettere più che ti maltrattino”. Ci chiediamo se fanno più ridere o incazzare. Di tanto in tanto, un posto di blocco delle milizie private ci ferma per chiederci dove andiamo e perché. Mentiamo spudoratamente e senza sensi di colpa. Loro non sono da meno. Quando chiediamo informazioni ci spediscono regolarmente fuori strada. L’Otra Mitad del Desarollo (sviluppo) è roba da stomaci forti e non è bello che girino per il “mondo civilizzato” (quello che consuma e ignora) le foto, le immagini e i reportage di questo stupro sistematico cui le multinazionali del petrolio sottopongono ogni giorno l’Amazzonia, il “polmone verde” dell’umanità.
Procediamo sino quasi ai confini con la Colombia. Tubi. Ancora e sempre tubi da tutte le direzioni e da tutte le parti. Migliaia di endovenose che prelevano il sangue ad un paziente mezzo morto. Sono dappertutto. Attraversano città e paesi in linea retta, sfiorano le case e costeggiando le strade. Per passare da una parte all’altra della piazza del paese ti tocca scavalcarli (interrarli è troppo costoso, oltre che pericoloso). Corrono senza pudore in mezzo alle fincas dei coloni, separano la capanne dalle latrine, tagliano in due le stalle, passano i ponti da dove i bambini si tuffano in acque inquinate. Corrono sotto gli stendi biancheria e le massaie son costrette a salirci sopra per stendere il bucato. Si vive in gabbie di petrolio. Ma come possono permettersi di umiliare in tal modo un intero pueblo? Ce lo ha spiegato bene una anziana signora che ha provato ad opporsi alla distruzione del suo giardino per far passare l’ennesimo tubo a due passi dalla soglia della sua casa e proprio dentro il suo allevamento di polli. Grazie ai compañeros dell’associazione Derechos Humanos di Joya de los Sachas, la signora ha intentato causa ai petroleros. La pratica è ancora in tribunale. Aspetta e spera. Per l’intanto, sono andati a trovarla trecento tra poliziotti, forze speciali, esercito e milizie private che l’hanno menata e spiegato che il tubo, come la Revolucion Ciudadana, deve marciare anche per casa sua. Adesso il suo giardino non esiste più, l’allevamento lo ha dovuto spostare e l’intera casa è circondata di cartelli con scritto peligro e “lavori in corso”. Storia neppure originale in quel di Orellana, dove il petrolio vale più della foresta e della tua stessa vita.
E non è una novità, in questa Otra Mitad del Mundo, neppure che gli sbirri del compagno presidente si mobilitino in trecento per convincere a botte una vecchia contadina che voleva solo difendere le sue galline. Siamo nella terra dell’oro nero e non si bada a spese.
Casomai qualcuno avesse ancora dubbi su chi comanda in questa Otra Mitad del Mundo…

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!