mercoledì 2 marzo 2011

Libia - Il dramma nel dramma: i migranti africani in Libia


Deserto LibiaC’è un dramma particolare nella tragedia libica. Si svolge in silenzio, lontano dalle telecamere e dalle equazioni politiche consumate tra le cancellerie occidentali e il Consiglio di sicurezza dell’Onu. È il dramma di migliaia di migranti africani rimasti bloccati nel paese nordafricano dal crollo del regime di Gheddafi. Secondo l’emittente panaraba Al Jazeera, sono decine i migranti morti, uccisi tanto dagli oppositori del regime quanto dalle forze ancora legate al colonnello Gheddafi e al suo clan. I primi sospettano indistintamente tutti i non libici di far parte dei famigerati reparti di mercenari che sarebbero stati lanciati contro le manifestazioni anti-regime. Le forze legate a Gheddafi, invece, sparano sui migranti o li abbandonano nei campi in mezzo al deserto dove sono stati ammassati, in alcuni casi per anni, a causa del blocco costiero delle partenze verso l’Europa. Tra i migranti presi a bersaglio dalle due parti in lotta, ci sono migliaia di lavoratori impiegati in diversi settori produttivi del paese, dall’industria petrolifera alle costruzioni, abbandonati dalle aziende di sub-appalto che li avevano fatti arrivare in Libia.

martedì 1 marzo 2011

Tragica ipocrisia

Libia di Alessandra Mecozzi
20 / 3 / 2011
Ancora una volta, con tragica ipocrisia, la retorica umanitaria viene usata per coprire una nuova guerra imposta dall’occidente contro la popolazione di un paese arabo, la Libia, in cui da settimane ad una rivolta popolare il governo di Gheddafi risponde con bombardamenti e stragi, senza che ci siano stati atti da parte della comunità internazionale volti a metter loro fine.
La risoluzione delle Nazioni Unite che formalmente pone al primo posto il cessate il fuoco e la difesa della popolazione civile, è non solo tardiva, ma apre la strada all’intervento militare – sotto la pressione di Governi interventisti come la Francia e la Gran Bretagna, vogliosi di intervenire militarmente e conquistarsi una presenza nell’area.
Pedissequamente e irragionevolmente il governo italiano, mollato dalla Lega, che teme l’«invasione» dei profughi, ma sostenuto dalla opposizione,  si lancia in una avventura bellica, dopo aver per anni fornito a quel Governo – oggi esecrato – ossequi, affari e grandi quantitativi di armi.
Parlare di difesa dei diritti umani dei libici, attraverso interventi militari che quasi inevitabilmente data la natura del conflitto armato in corso, supereranno la sola interdizione dello spazio aereo, mentre i diritti umani di migliaia di migranti sono da giorni calpestati nell’isola di Lampedusa, è grottesco e offensivo, in primo luogo per la popolazione di quell’isola, oggi esposta anche alla paura di possibili rappresaglie dalla Libia, e di tutto il nostro paese.
La marcia delle «rivoluzioni della dignità» arabe, in cerca di democrazia, libertà e giustizia sociale, una grande speranza del mondo, avrebbe meritatoe meriterebbe dall’Europa, dalla Comunità internazionale tutta, ben altra attenzione, sostegno intelligente e strumenti di intervento, per poter avanzare.
Non ce ne sono tracce, mentre la rivolta si estende in Medio Oriente.
Le rivolte popolari che in queste ore sono sanguinosamente represse in altri paesi mediorientali, come Yemen, Bahrein, Siria, come quelle che hanno pacificamente portato, pur con un prezzo di sangue, alla caduta dei regimi di Tunisia ed Egitto, rischiano di essere o definitivamente e sanguinosamente stroncate o bloccate, dalla «soluzione militare» del processo in Libia.
Si poteva fare diversamente? Sì, la strumentazione e l’iniziativa diplomatica e politica, insieme a quella umanitaria, potevano – e vorremmo augurarci che ancora possano – imprimere un andamento diverso alla iniziativa della comunità internazionale. Non ci si è neanche provato. L’Unione Europea ancora una volta non è stata in grado di svolgere alcun ruolo, e già i caccia francesi sorvolano i cieli della Libia, dopo che il governo Sarkozy ha fornito costosissimi aerei da guerra al colonnello Gheddafi (con i quali ha bombardato la sua popolazione), come quello italiano -, maggior fornitore di armi alla Libia -, che rulla i tamburi di guerra, appellandosi agli «interessi nazionali»; la Germania ha scelto sensatamente di astenersi.
La società civile italiana ed europea, i movimenti per la pace e per i diritti, che seguono e appoggiano la crescita e diffusione dei movimenti per la democrazia nella sponda sud del Mediterraneo hanno di fronte la responsabilità di mettere in opera tutte le iniziative possibili, una vera strategia politica, affinché quel processo possa continuare a svolgersi e restare nelle mani di coloro che lo hanno avviato. In primo luogo opporsi agli interventi militari, come quello che oggi si prefigura sulla Libia.

Alessandra Mecozzi Ufficio internazionale della Fiom-Cgil

Libia - L 'angoscia di Bengasi

Bengasi
Le esplosioni cominciano alle prime luci dell'alba. Botti in lontananza, dalla parte ovest della città. Continui, martellanti. Fumo nero che si alza. E poi i colpi, secchi, della contraerea. Bengasi si sveglia sotto assedio. Le truppe di Gheddafi sono subito fuori città. Nonostante il cessate-il-fuoco dichiarato urbi et orbi dal ministro degli esteri Moussa Koussa, i soldati lealisti sono avanzati e hanno cominciato a colpire con i razzi dalla parte sud-ovest. Sono arrivati da Ajdabiya, avanzando velocemente sulla strada della costa. «Non abbiamo intenzione di entrare a Bengasi», avevano affermato vari alti papaveri del regime solo l'altroieri.
Eccoli invece in città. Si avvicinano. L'esercito dei rivoluzionari del 17 febbraio alza le barricate. Risponde al fuoco. Fischiano razzi e contraerea. Andiamo a vedere. Facciamo un paio di chilometri. Vicino al fronte un miliziano ci fa segno di no. L'autista fa marcia indietro. Subito dopo si sente un colpo secco di razzo, vicinissimo. Scatta la contraerea. Fuggiamo sgommando a tutta velocità.
Nel cielo volteggia un aereo. Vola dalla stessa parte del mare. Le mitragliatrici entrano in azione. Lo colpiscono. Il velivolo va a fuoco e precipita. Il pilota si lancia con il paracadute. Dalla strada si levano grida di giubilo: "Allah Akbar", Dio è grande. Più tardi si scoprirà che era un mezzo dei ribelli di ritorno da una ricognizione. Secondo fonti del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), il governo messo in piedi a Bengasi dopo la rivolta del 17 febbraio, nel corso della giornata due aerei dei "giovani rivoluzionari" sono precipitati: uno è quello che abbiamo visto, colpito da fuoco amico, un altro sarebbe invece caduto per un problema al motore.
Le strade si riempiono di gente che fugge a est, verso la frontiera egiziana. Scappano come possono. In macchina, con i bagagli accatastati sul tetto. In furgoncino. In taxi. Vanno a casa di amici o di familiari. Alcuni dicono che vanno in Egitto. Il prezzo di un taxi collettivo per Tobruk, l'ultima città prima della frontiera egiziana, è schizzato da 70 a 250 dinari (da 35 a 125 euro). La città si svuota: i negozi chiudono. E' difficile anche trovare da mangiare.
Gli insorti si preparano alla battaglia finale: si schierano dietro trincee improvvisate. Preparano bottiglie molotov. Si fanno forza a vicenda. Ma il morale è basso. Solo verso mezzogiorno, c'è una fiammata di entusiasmo. I combattenti cominciano a girare per le strade strombazzando. "Li abbiamo respinti. Sono andati via". "Si sono ritirati a trenta chilometri dalla città". "No, a cinquanta". "Cosa dici? Si sono stabilizzati a dodici chilometri". Le notizie e le smentite si rincorrono. Non si capisce più nulla. I giovani rivoluzionari festeggiano inseguendo le voci di una vittoria che nessuno in realtà è in grado di confermare. Sparano in aria con il kalashnikov. Dicono di aver catturato due carri armati dell'esercito lealista e di averne bruciati altri tre. Ma l'impressione è esattamente opposta: il regime sta tornando. Gheddafi lo aveva detto: "Saremo spietati". "Vi troveremo". "Zenga, zenga, dar, dar", "Strada per strada, casa per casa". I rivoluzionari dicono che stanno vincendo. Ma gli abitanti di Bengasi se ne vanno, temendo la repressione del colonnello.
All'ospedale Jala, vicino al centro, ci sono decine di morti stesi per terra. "Sono ventisei", dice un infermiere. "E centinaia di feriti". Nella battaglia di Bengasi, nei tre ospedali della città sono arrivati settanta morti. Tre cadaveri carbonizzati giacciono sul suolo. Un uomo ha il dito alzato, l'espressione sospesa, quasi fosse stato investito improvvisamente da una grande fiammata. Un altro è un ammasso di carne e interiora, non ha più fattezze umane. E' chiuso in un sacco. In una stanza accanto, i cadaveri in condizioni migliori vengono lavati e messi in un lenzuolo, come prevede il rito musulmano. Un ragazzo ha un enorme buco dove prima c'era l'occhio sinistro. Un altro ha una ferita sul petto, con schizzi di sangue dappertutto che un ragazzo pulisce con una precisione certosina. C'è una confusione incredibile. "Ma che fanno gli occidentali. Quando arrivano?", grida un uomo sulla quarantina, appena entrato all'ospedale.
Un infermiere apre una cella frigorifera. Un lezzo nauseante si sparge per la stanza. L'odore acre della morte vecchia di almeno tre giorni. Dentro, ci sono quattro uomini. "Sono i miliziani di Gheddafi. Sono africani". Hanno effettivamente la pelle nera e i tratti dei sub-sahariani, anche se è difficile stabilire con certezza che non siano libici del sud. Li tengono lì per mostrarli ai pochissimi giornalisti rimasti in città. Per dimostrare che Gheddafi è isolato e che per sparare sul suo popolo può solo usare mercenari.
I cadaveri nel lenzuolo vengono portati fuori. Sono messi in bare di legno e portati via su diversi pick up. Vengono sparati colpi di kalashnikov in onore di ogni shahid, ogni martire della battaglia di Bengasi. All'interno dell'ospedale, ci sono decine di uomini armati. Arrivano ambulanze e feriti in macchina.
Un medico egiziano che è stato nei quartieri bombardati descrive scene raccapriccianti. I morti sono per lo più civili colpiti nelle loro case. In piccole bare, giacciono due bambini di circa dieci anni. Un uomo con il mitra piange in un angolo. "E' il padre?". Non risponde e va via. "Se entrano qui, faranno come ad Ajdabiya", dice sempre il medico egiziano. "Hanno sparato ovunque, senza pietà. Cecchini e soldati. Sono andati strada per strada, casa per casa. Zenga zenga, dar dar". Il bilancio del macello di Ajdabiya, secondo il dottore, sarebbe di 800 morti.
Alla piazza del Tribunale il morale è in caduta libera. Pochissime persone. Solo gli irriducibili. L'atmosfera festosa che c'era 24 ore prima si è trasformata in puro terrore. Dentro il palazzo non c'è anima viva. I membri del consiglio nazionale transitorio non ci sono. Sono tutti in località protette. Dalla facciata dell'edificio è scomparsa l'enorme bandiera della Francia che campeggiava fino a l'altroieri. "Che fine ha fatto?". "Fra un po' la rimettiamo", dicono alcuni signori. "La Francia è nostra amica". Ma intanto l'hanno levata. Aspettano i bombardamenti. Se non dovessero arrivare, gli amati francesi - e la comunità internazionale tutta - saranno i principali traditori del popolo libico, quelli che hanno abbandonato Bengasi al suo destino e alla vendetta spietata promessa dal colonnello Gheddafi.
Ashor Zgogo, uno studente di ingegneria che nei giorni scorsi passava le sue giornate al tribunale, è solo di fronte al Palazzo. Ha lo sguardo spento. "Tutto andrà per il meglio", dice con voce afona, gli occhi pietrificati. "La situazione sul terreno è a nostro vantaggio. Li abbiamo scacciati", ripete in modo meccanico, visibilmente sotto shock per quello che è successo nella mattina e per quello che potrebbe succedere nelle prossime ore. "Ci vediamo domani, ma stai attento", dice con un guizzo di vitalità, prima di ripiombare nel suo stato catatonico.
La televisione di stato libica annuncia che l'ex ministro degli interni di Tripoli, Abdelfattah Younis, passato con i ribelli dopo il 17 febbraio, è tornato all'ovile e ha ripreso le sue funzioni. Al Arabiya e Al Jazeera mandano in onda un'intervista telefonica in cui l'interessato smentisce. Accanto alla guerra sul terreno, sempre più vicina e sempre più pesante, continua a combattersi la guerra dell'informazione. Secondo notizie non confermate, un giornalista della tv irachena Al Hurriya sarebbe stato ucciso da un cecchino. "Era un libico. Lo hanno colpito apposta perché diffondeva la verità", dicono in piazza. Nulla si può verificare. I telefoni sono spenti completamente ormai da due giorni.
Nel pomeriggio la città è vuota. Le truppe di Gheddafi hanno interrotto l'attacco. Forse si sono ritirati, come sostengono gli insorti. Forse hanno ripiegato per colpire di nuovo più tardi, magari nel corso della notte. Ci sono barricate ovunque. Ognuno sembra rispondere per sé. Alcuni miliziani sono amichevoli. Altri un po' più aggressivi. Si sentono ogni tanto spari di kalashnikov, da tutte le parti. Si sparge la voce che uomini di Gheddafi in città, quelli della "Lijan Thauria", i cosiddetti "comitati della rivoluzione" creati dal colonnello in tutta la Libia, siano in strada e sparino all'impazzata sui passanti. Si diffonde il panico. Chi è rimasto, guarda la tv e ascolta la radio. Molti chiedono: "Che ora è a Parigi?". "Quando arrivano?". Il tramonto cala su una Bengasi deserta e spettrale, che aspetta una sola cosa: i bombardamenti degli occidentali. "Se non vengono, siamo finiti", dice un signore sulla cinquantina, l'aria visibilmente preoccupata. Un altro lo guarda negli occhi e gli punta il dito sul petto. "Non c'è nulla da temere. Fra poco arrivano, insh'allah".


Libia - La battaglia di Benghazi

Libia Bengasidi Gabriele Del Grande

Il prossimo da portare via è Mohamed Said Mahdi. L'hanno appena lavato. Il corpo è avvolto in un lenzuolo bianco dalla vita in giù. I capelli sono ancora bagnati. Un infermiere gli passa con cura per un ultima volta un batuffolo di cotone inumidito sul volto. L'occhio sinistro non c'è più. Gli hanno sparato in faccia. E un altro colpo sul fianco, al cuore. Aveva 24 anni ed è la vittima numero 70 di oggi. La guerra è arrivata a Benghazi. E l'ospedale Jala è il miglior punto d'osservazione per capire quello che sta succedendo alle porte della città. La camera mortuaria è affollatissima. Arrivano i parenti a riconoscere i propri morti, i ragazzi della piazza a farsi coraggio e i venti giornalisti rimasti in città a filmare la scena del massacro. Gli infermieri sono pochissimi. La maggior parte sono volontari, gente comune venuta a dare una mano. Ahmed El Fituri è uno di loro. Ha 33 anni e indossa un camice azzurro sopra la mimetica. I guanti di lattice sono sporchi di sangue. Ha appena finito di sistemare la salma di Hussein Salah El Barasi nella sacca da morto. L'esplosione di una granata gli ha distrutto completamente la faccia. Era un volontario della città di Beida. Faccio fatica a sopportare la vista di questa carneficina. Ma qualcuno bisogna pure che veda e che racconti. E allora dico a El Fituri che sì, che apra pure la cerniera dei quattro sacchi verdi. Sono i ragazzi bruciati vivi dagli missili Rpg e dai Katiuscia sparati questa mattina dai lanciarazzi delle milizie di Gheddafi. Sono carbonizzati. Potrebbero essere scambiati per un tronco d'albero. Irriconoscibili. A fianco c'è una cassa di legno di un metro, piene di cenere. Dice Fituri che è quello che resta di altri due martiri. Nessuno conosce il loro nome. Improvvisamente mi rendo conto di quanto è forte l'odore di morte che si respira qua dentro. Molti volontari hanno le mascherine. Fituri apre le celle frigorifero e mi mostra altri due corpi. Questi però sono dei mercenari di Gheddafi. In totale oggi ne hanno portati qui all'ospedale 12. Sono sia libici che stranieri, addosso non gli hanno trovato documenti, dalla faccia si direbbero dell'Africa occidentale, ma nessuno può dirlo con certezza. Alcuni hanno un completo militare, altri portano vestiti normali, jeans e maglietta. Sette di loro sono buttati a terra dietro una grata, con un foglio bianco addosso su cui c'è scritto “identità sconosciuta”. Mentre gli scatto una foto, improvvisamente fuori qualcuno si mette a sparare all'impazzata. È una raffica di colpi. Non faccio in tempo a capire cosa stia succedendo, che sento una mano sulla spalla. È Fituri, l'infermiere, che mi dice di stare tranquillo, che non c'è nessun pericolo, il nemico è lontano, sono spari in aria. Sparano per rendere onore a Abdallah Abdel Hakim Gergir. È avvolto in un lenzuolo bianco dentro una cassa aperta di legno. I parenti l'hanno appena caricata sul pickup. Aveva 26 anni, il funerale è fissato per domani. Mentre la macchina lo porta via, la folla lo accompagna gridando a pieni polmoni: “allahu akbar! la ilaha illa allah!”. Dio è grande, e non c'è altro dio all'infuori di allah! Appoggiato alla ringhiera all'ingresso dell'ospedale, un ragazzo singhiozza e porta le mani al viso per asciugarsi le lacrime. Chi passa lo consola. Per Benghazi è il momento del dolore ma anche della rabbia e del panico. Le milizie di Gheddafi non si erano mai spinte così vicino alla città. Ma la voce di un attacco imminente girava già da ieri sera. In piazza parlavano tutti di tre aerei militari atterrati a Sebha con centinaia di mercenari pronti a aggirare il fronte di Ijdabiya, occupare Qimenes, e da lì puntare dritto alla periferia di Benghazi. L'attacco è cominciato all'alba. Hanno sparato all'impazzata fino a mezzogiorno, usando l'artiglieria pesante, con decine di lanciarazzi e carri armati. Di aerei invece non se ne sono visti. Gli unici due che si sono levati in volo erano dell'armata rivoluzionaria. Uno è esploso in aria per un problema al motore. E l'altro è stato abbattuto per errore dal fuoco amico. Quando siamo usciti, verso le nove, per andarlo a fotografare, siamo stati costretti a scappare a gambe levate e a tornare in albergo. Perché per strada si sparava. E nelle retrovie i ragazzi si preparavano alla guerriglia urbana accatastando in mezzo alla strada rottami e cassonetti per creare delle improvvisate barricate dietro cui trincerarsi. Intorno alle dodici e trenta le sparatorie sono cessate e abbiamo cominciato a sentire strombazzare i clacson dei ragazzi che annunciavano la fuga dei miliziani di Gheddafi, che però avrebbero ripiegato a non più di venti chilometri dalla città, pronti a colpire di nuovo stanotte o al più tardi domani mattina. Resta invece un mistero che cosa sia accaduto ai 14 uomini delle forze di Gheddafi trovati ammanettati e uccisi con un colpo alla testa in mezzo al campo di battaglia. La versione ufficiale data dal consiglio nazionale transitorio è che siano stati uccisi dai militari di Gheddafi perché si erano rifiutati di sparare sui civili. Ma qualcuno ha messo in giro la voce che sarebbero stati giustiziati dai ragazzi in armi della rivoluzione, in risposta al massacro avvenuto stanotte a Ijdabiya. Di nuovo sono informazioni difficili da verificare e che prendiamo con le molle. Ma ormai in molti parlano di centinaia di morti a Ijdabiya, dove stanotte le forze di Gheddafi avrebbero circondato la città e bombardato tutta la notte con carri armati e lanciarazzi, per poi passare sotto le armi uno per uno decine e decine di civili. Verificarlo è impossibile. I telefonini non funzionano da tre giorni e internet è fuori uso da un mese. E anche uscire in città per indagare diventa sempre più pericoloso. Oggi per la prima volta ce lo hanno sconsigliato anche i ragazzi in armi, dicono che col clima che c'è in giro nessuno esclude che i vecchi miliziani di Gheddafi rimasti segretamente in città oppure entrati senza fare rumore negli ultimi giorni, potrebbero entrare in azione con operazioni mirate, anche contro i giornalisti. E intanto oggi, dopo l'assassinio dell'inviato di Al Jazeera, è stata la volta di Mohammed Nabbous, ucciso sul fronte da un cecchino. Era l'inviato della tv Al Hurra, la prima televisione libera che aveva iniziato a trasmettere da Benghazi dopo la rivoluzione del 17 febbraio. Aggiornamento alle 9:00 del 20 marzo 2011 Stanotte ha piovuto e Benghazi si è risvegliata per la prima volta nella tranquillità. Niente rumori di bombe e di sparatorie. La fuga dei suoi abitanti verso l'Egitto, già iniziata ieri alle prime avvisaglie dell'ingresso in città dei mercenari di Gheddafi, si è fermata. Dei bombardamenti della Nato non abbiamo sentito neanche il rumore. La notizia ci è arrivata da Al Jazeera.

Comunicato ARCI - Con le lotte per la democrazia, con i diritti dei migranti contro l’intervento militare


Aerei LibiaCon le lotte per la democrazia, con i diritti dei migranti contro l’intervento militare


Cosa c’entrano gli attacchi aerei su mezzi terrestri con una no-fly zone? Neppure è cominciata, la no-fly zone, ed è subito attacco militare.
Avevamo appena finito di denunciare i grandi rischi connessi al dispositivo militare della risoluzione ONU. E il vertice di Parigi ha deciso di correrli tutti, subito e volontariamente, iniziando un intervento militare aperto sul campo.
Il via libera alla no-fly zone ha dato fiato alle trombe di chi non vedeva l’ora di dimostrare una responsabilità europea finora dimenticata mettendo a disposizione basi, aerei soldati. Alle impegnative parti della risoluzione ONU legate all’iniziativa politica non c’è chi faccia cenno.
L’Italia oltretutto dovrebbe sentire l’obbligo morale di non intervenire militarmente in un paese che esattamente cento anni fa è stato con le armi conquistato e dichiarato colonia, e dove sono stati perpetrati orribili crimini di guerra. E invece addirittura ci proponiamo ad ospitare il quartier generale delle operazioni.
Le lotte democratiche nel mondo arabo proprio non si meritano l’entusiasmo militarista dimostrato in queste ore da tanti paesi europei, con l’Italia in testa come al solito.
L’Egitto va a votare, la Tunisia affronta una complicata transizione, in Yemen e in Barhein i regimi sparano sulle manifestazioni pacifiche, la Siria si ribella: in due mesi di rivolte e rivoluzioni l’Europa non ha sostanzialmente fatto niente, non ha dimostrato interesse, non ha offerto cooperazione, non ha stanziato un soldo e non si è mosso un ministro. Si è solo cercato di fermare i profughi.
Siamo a fianco dei libici in lotta contro il dittatore. Comprendiamo la loro disperazione e la paura che il paese torni sotto il tallone del regime. Ma confidiamo che essi capiscano anche le nostre ragioni, mentre manifestiamo la nostra opposizione all’intervento militare.
Ne abbiamo viste già tante. Abbiamo visto il prevalere degli interessi economici e strategici, nascosti dietro al manto della difesa dei diritti umani. Abbiamo visto i  “due pesi e le due misure”, che fa chiudere gli occhi davanti a violazioni grandiose del diritto internazionale come quella che patisce da decenni la Palestina.
Conosciamo l’incapacità di mettere in campo la forza della politica, e degli strumenti che ad essa corrispondono, per la difesa dei diritti calpestati, per la risoluzione dei conflitti nel nome della giustizia, per l’affermazione della democrazia.
E crediamo che a questo punto della vicenda libica, non essendo intervenuti a proteggere la rivolta quando da sola poteva liberare il paese dal regime, l’evoluzione della crisi vedrà una forte ingerenza straniera, che non può essere mai foriera di libertà e indipendenza.
I venti di guerra di l’Europa cui sta facendo sfoggio richiamano, persino nei nomi con la “coalizione dei volenterosi”, esperienze che avrebbero dovuto insegnare qualcosa. E noi non saremo di questa partita.
Continuiamo a sostenere tutte le esperienze democratiche del Maghreb e del Mashrek, continuiamo a difendere il diritto all’accoglienza dei profughi, siamo contro l’intervento militare.

ARCI

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!