mercoledì 18 gennaio 2017

Argentina - La comunità Mapuche vittima delle violenze della polizia, il responsabile si chiama Benetton


Benetton e i Mapuches
Terreni di proprietà della Benetton
La storica controversia tra Benetton e i Mapuches in Patagonia si sta aggravando. Benetton in Patagonia possiede 800.000 ettari. La comunità mapuche sostiene di avere i domini di parte del vasto territorio che detiene la Compagnia delle terre del sud argentino, proprietà di Benetton dal 1991. La società si dichiara proprietaria di un territorio oggetto di controversia dal 1891, poco dopo la fine della cosiddetta Campagna del Deserto, che mise fine ai possessi indigeni nella zona tra il 1878 e il 1885. Secondo Benetton, che oggi è uno dei più grandi proprietari terrieri stranieri in Patagonia e in Argentina, non c’erano mai stati reclami da parte dei mapuche prima le terre venissero da lui acquistate.

Giorni fa forze della polizia sono entrate due volte in una comunità mapuche nella provincia di Chubut, a 1.700 chilometri da Buenos Aires, e represso  con pestaggi e sparatorie.  Il risultato è di nove mapuche feriti, dieci arrestati e cinque poliziotti.
L’oggetto immediato di protesta è l’uso che la Provincia di Chubut di fa del treno La Trochita. Un tempo la linea ferroviaria aveva uno scopo sociale, trasportando la gente di luogo in luogo , ma ora il treno  è utilizzato esclusivamente per turismo. Gli abitanti vogliono che la Provincia li avvisi ogni volta che la linea deve essere utilizzata, in modo che si capisca che queste terre appartengono a loro. Un tavolo di trattativa stato interrotto dopo tentativi di accordo e i Mapuche sono scesi in agitazione, bloccando strade, occupando terre. In Argentina cresce attenzione e sostegno al popolo Mapuche. Vi è stata una presa di posizione di Amnesty International. “Occorre ripensare le forme di coordinamento con le comunità”, ha detto Paola Rey Garcia, direttrice di Protezione e Promozione dei diritti umani di Amnesty International Argentina. Significativa è una lettera aperta, dura e pesantissima, de las Madres de Plaza de Mayo a Benetton:
Benetton, ladro,  predatore, sfruttatore,  assassino di popoli indigeni:
Le Madri di Plaza de Mayo vogliamo dirle giù le mani, perché nel suo affanno di far più soldi per lei e la sua famiglia non si rende conto delle conseguenze noi lo intendiamo fermare perché la mano nel tentativo di Lei  e la sua famiglia siete torturatori e assassini del nostro popolo. I vostri beni grondano di sangue indigeno.
 Il cibo che mangia è fatto di bambini che uccide tutti i giorni con il suo atteggiamento di tutti i giorni.
Benetton, quando morirà sarà mangiato da vermi che si intossicheranno in quanto il suo corpo è responsabile dei crimini di uomini, donne e bambini che hai ucciso per tanti anni.
Chi acquista marchio di abbigliamento sa che è pieno di sangue? ll fuoco dell’inferno non basterà a bruciare un corpo come il suo con tanti peccati.
Hebe de Bonafini, Presidente dell’Associazione Madri di Plaza de Mayo
Più politici sono i messaggi che Il gruppo di artiste tessili Puntadas Ranquelas invia all'indirizzo email di Benetton in Italia: “Benetton contraddice la sua politica a favore della diversità, che è pura apparenza e strategia di marketing visto che è complice e causa principale della repressione dei popoli indigeni nel Chubut, Patagonia argentina.  Che il mondo intero sappia, ed è quello che faremo. Benetton fuori dall’Argentina.”
Lo storico Osvaldo Bayer, dopo aver visto le scene di brutalità contro i Mapuche, si è scagliato contro Mauricio Macri che permette la repressione e ha affermato: “Otra vez, la Patagonia rebelde”, “Un’altra volta la Patagonia ribelle.”
tratto da Pressenza

martedì 17 gennaio 2017

Ecuador - Così Correa reprime ecologisti e indigeni

La violenza armata sociale e istituzionale del governo di Quito non si può criticare. Acción Ecológica, organizzazione indipendente molto nota per le denunce delle devastazioni ambientali operate in nome dello sviluppo e dello sterminio dei popoli indigeni, lo fa e la sua è da trent’anni una voce autorevole ascoltata in tutto il mondo. Per questo Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, a capo di un governo “progressista” che dice di rappresentare la “rivoluzione dei cittadini”, ha avviato la procedura istituzionale per farla sciogliere. Vuole mettere a tacere, in particolare, le informazioni sulla repressione della lotta degli Shuar, popolo dell’Amazzonia, contro un’impresa mineraria cinese che, oltre a contaminazione, desolazione e miseria per i popoli indigeni, lascerà all’Ecuador appena delle briciole del suo redditizio business estrattivista
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foto: http://www.infobae.com
di Silvia Ribeiro
Lo scorso 20 dicembre, il governo dell’Ecuador ha iniziato la procedura per sciogliere l’organizzazione Azione Ecologica (AE), che da 30 anni ha una traiettoria ampiamente riconosciuta a livello nazionale e internazionale.Questa misura di estremo autoritarismo e intolleranza alla critica sociale, cercando di silenziare un’organizzazione sociale indipendente, coincide con l’aumento della militarizzazione e della repressione contro il popolo indigeno shuar nella Cordigliera del Cóndor e la denuncia da parte di AE delle violazioni lì commesse. A favore di chi è tanta violenza armata, istituzionale, sociale? È per aprire la strada e difendere gli interessi della Explorcobres S.A. (EXSA), impresa mineraria cinese, che oltre a contaminazione, desolazione e miseria per i popoli indigeni, lascerà all’Ecuador appena delle briciole.
Il popolo shuar non ha lasciato dubbi sulla propria opposizione all’attività mineraria e agli altri mega-progetti nei suoi territori. Come gli altri popoli indigeni, da decenni hanno attivamente resistito all’avanzata delle imprese minerarie e petrolifere. Gli è costato repressione, criminalizzazione e l’assassinio di molti dirigenti. Già nel 2006, gli shuar espulsero gli accampamenti dell’EXSA e di una impresa idroelettrica che si disponeva a rifornirla. Insieme ad altri popoli hanno formato delle reti di popoli contro l’attività mineraria.
Nel 2006 questa forte mobilitazione paralizzò in varie province dei progetti minerari, dando il motivo al presidente Correa, allora in campagna elettorale presidenziale, di affermare che avrebbe “rivisto la politica estrattiva”. Con il processo dell’Assemblea Costituente fu stabilito un Mandato Minerario, in cui fu incluso di mettere fine alle concessioni minerarie che non avessero  avuto processi di consultazione ambientale con i popoli e le nazionalità indigene, che danneggiassero le fonti d’acqua, le aree naturali protette e i boschi, e una moratoria a nuove concessioni. Nonostante ciò, nel decennio trascorso, il governo è andato promuovendo normative che hanno svuotato di contenuto il Mandato Minerario, e invece della moratoria alle nuove concessioni, si è trasformato in un entusiasta promotore dell’attività mega-mineraria, neanche come esecutore, ma come facilitatore dello sfruttamento minerario di imprese straniere (Acosta e Hurtado  http://tinyurl.com/jjce45u).
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In questo contesto di crescente impunità, nell’agosto del 2016, la comunità shuar Nankintz, parrocchia di San Carlos Panantza, provincia di Morona Santiago in Ecuador, fu vittima di un violento sgombero da parte di poliziotti e militari, che rase al suolo le loro case e proprietà e uccise animali domestici, lasciando gli abitanti a cielo aperto per aprire la strada all’Explorcobres. (goo.gl/3mLNR9)
Questo sgombero avvenne dopo un ordine giudiziario viziato che non tenne conto della mancanza di una consultazione libera, preventiva e informata di cui hanno diritto i popoli indigeni, secondo quanto stabilito nelle leggi nazionali e nei trattati internazionali sottoscritti dall’Ecuador.
Il popolo shuar non accettò lo sgombero. Il 21 novembre e il 14 dicembre, membri del popolo shuar cercarono di recuperare il territorio a Nankintz, fatto che portò a gravi scontri con la polizia e i militari che proteggono l’impresa mineraria, con vari militari e poliziotti feriti e un poliziotto morto. Fin dal primo conflitto, la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Amazonia Ecuadoriana, Confenaie, esortò il governo dialogare per evitare nuovi scontri, ma non ci fu accordo, al contrario, il conflitto è aumentato con l’arresto di vari dirigenti shuar e decretando lo stato d’emergenza nella provincia.
Azione Ecologica è l’organizzazione ecologista più conosciuta ed attiva del paese, con una lunga traiettoria di difesa dei diritti della natura e dei popoli, lavorando insieme a numerose organizzazioni comunitarie, di quartiere e di popoli indigeni. Il 18 dicembre, riguardo al conflitto a Morona Santiago, fece un appello per creare una Commissione di Pace e Verità. Spiegava: “noi ecuadoriani ed ecuadoriane scommettiamo sulla pace in armonia con la natura. Ma per ottenere la pace, e che sia duratura, chiediamo un bagno di verità. Abbiamo bisogno di conoscere che cosa è successo nella Cordigliera del Cóndor e in tanti altri territori dove sono stati imposti progetti minerari e di altra indole?” (www.accionecologica.org).
Il 20 dicembre il governo rispose notificando l’inizio della procedura di scioglimento dell’organizzazione, per “diffondere i gravi danni ambientali e all’ecosistema che deriverebbero dall’attività estrattiva” nella Cordigliera del Cóndor e per riferire sulla violazione dei diritti umani delle comunità che vivono in questa zona. Accusa assurda, perché questo è giustamente la missione di Azione Ecologica, che inoltre non ha mai promosso azioni violente e per questo fa un appello a stabilire una Commissione di Pace e Verità.
20649305aÈ la seconda volta che il governo cerca di chiudere Azione Ecologica -nel 2009 decretò la sua chiusura ma dovette fare marcia indietro-, oltre al fatto che l’organizzazione ha subito molestie da parte dei media ufficiali, furti ed altri abusi, anche un attacco sessuale contro un’appartenente al gruppo, per dissuaderli dalle loro attività di denuncia, documentazione e solidarietà.
Centinaia di organizzazioni di tutto il mondo hanno manifestato contro la chiusura di AE e per il rispetto dei diritti e dei territori indigeni. Cinque relatori dell’ONU hanno inviato una lettera al governo sollecitando l’immediata cessazione di queste azioni, che “asfissiano la società civile”.
È assurdo e cinico che un governo che si auto-denomina “rivoluzione cittadina” faccia appello alla chiusura delle organizzazioni le cui critiche non vuole udire. Ed è ancor più grave che a più di 524 anni dalla Conquista, continui ad abbattere a sangue e fuoco i popoli originari del continente.
*Ricercatrice del Gruppo ETC
 Traduzione del Comitato Carlos Fonseca, che ringraziamo

venerdì 13 gennaio 2017

Messico - Il potere de abajo

Che i popoli indigeni del Messico decidano di creare un consiglio di governo sembra un fatto grande importanza. Milioni di uomini e di donne stabiliscono il proprio autogoverno in modo coordinato, in un solo consiglio, che rappresenta tutti e tutte. È uno spartiacque per gli indigeni, che potrebbe avere ripercussioni in tutta la società, come avvenne nel gennaio del 1994. Raúl Zibechi commenta con ottimismo la decisione presa dall’Ezln e dal Congresso Nazionale Indigeno dopo l’ampia consultazione e l’approvazione della proposta da parte di 43 diversi popoli. L’attenzione dei media “a pagamento” si è concentrata e si concentrerà sulla portavoce indigena che verrà candidata nelle elezioni messicane del 2018 ma la cultura politica che praticano gli zapatisti e il CNI consiste nel promuovere l’autogoverno di tutti i settori della società, non hanno mai voluto governare gli altri. E non hanno alcuna intenzione di competere con i politici professionisti, perché – dicono – “non siamo la stessa cosa”
di Raúl Zibechi
Non era mai accaduto, in América Latina, che decine di popoli e nazioni indigene decidessero di dotarsi di un proprio governo. La recente decisione del quinto Congresso Nazionale Indigeno (CNI) di creare un Consiglio Indigeno di Governo che si propone di “governare questo paese” avrà profonde ripercussioni in Messico e nel mondo. La decisione è stata presa sulla base della consultazione e dell’approvazione di 43 popoli.
Come segnala il comunicato “¡Y retembló!“, siamo di fronte a decine di processi di trasformazione radicale, di resistenze e ribellioni che “costituiscono il potere del basso”, che ora si esprimerà nel Consiglio di Governo. Allo stesso modo, quell’organismo avrà come portavoce una donna indigena, che sarà una candidata indipendente nelle elezioni del 2018.
È il modo che i popoli hanno trovato perché “l’indignazione, la resistenza e la ribellione figurino nelle schede elettorali del 2018”. In questo modo, pensano di poter “scuotere la coscienza della nazione”, per “demolire il potere dell’alto e ricostituirci, non più solamente come popoli ma come paese”. L’obiettivo immediato è fermare la guerra, creare le condizioni per organizzarsi e superare in modo collettivo la paura che paralizza e provoca il genocidio (da parte di quelli) in alto.
Nella parte finale, il comunicato sottolinea che questa potrebbe essere forse “l’ultima opportunità, come popoli originari e come società messicana, di cambiare in modo pacifico e radicale le nostre stesse forme di governo, facendo sì che la dignità sia l’epicentro di un mondo nuovo”.
Fin qui, per grandi linee, la proposta e il percorso da seguire per renderla realtà. Guardando a distanza, chiama l’attenzione che le discussioni da ottobre in poi si siano centrate sulla questione della portavoce indigena come candidata nelle elezioni del 2018, lasciando da parte un tema fondamentale come (credo sia) la formazione del Consiglio Indigeno di Governo. È evidente che non si può comprendere la nuova cultura politica che incarnano il CNI e l’EZLN con i paraocchi della vecchia cultura centrata su discorsi mediatici e sulle elezioni come forma pressoché unica di fare politica.
Che i popoli indigeni del Messico decidano di creare un consiglio di governo sembra un fatto della più grande importanza. Si tratta di popoli e nazioni che non saranno più governati da altri che non loro stessi. Milioni di uomini e di donne stabiliscono il proprio autogoverno in modo coordinato, in un solo consiglio, che rappresenta tutti e tutte. È uno spartiacque per gli indigeni, che avrà ripercussioni in tutta la società, come le ebbe la sollevazione del primo gennaio del 1994.
E’ qui che conviene fare alcuni chiarimenti di fronte alle più disparate interpretazioni e, se mi sto sbagliando, anticipo le mie scuse. La cultura politica che praticano lo zapatismo e il CNI consiste nel promuovere l’autogoverno di tutti i settori della società: rurali e urbani, indigeni, contadini, operai, studenti, professionisti e tutti gli altri settori che si vogliono aggiungere. Mai hanno voluto governare gli altri, non vogliono soppiantare nessuno. Il “comandare obbedendo” è una forma di governo per tutti gli oppressi, che ciascuno sviluppa a modo suo.
Il comunicato chiarisce che gli zapatisti non vogliono competere con i politici professionisti, perché “non siamo la stessa cosa”. Nessuno di coloro che hanno conosciuto almeno un po’ lo zapatismo, lungo questi 23 anni, può immaginare che si mettano a contar voti, a inseguire incarichi nei governi municipali, statali o federali. Non si dedicheranno ad aggregare né a dividere le sigle elettorali, perché vanno per un’altra strada.
In tempi di guerra contro quelli in basso, credo che la domanda che si fanno il CNI e l’EZLN sia: come contribuire a far sì che i più diversi settori del paese si organizzino? Non è in discussione il fatto che siano loro a organizzarli, quel compito è di ciascuno di essi. Si tratta di capire come appoggiare, come creare le condizioni perché questo sia possibile. La candidatura indigena va in quella direzione, non come un “acchiappavoti”, bensì come possibilità di dialogo, perché altri e altre sappiano come hanno fatto.
La creazione del Consiglio Indigeno di Governo è la dimostrazione che è possibile autogovernarsi; se milioni di persone di popoli e nazioni possono, perché non dovrei poter io nella mia comunità, nel mio distretto, ovunque sia? Così come la sollevazione del 1994 ha moltiplicato le ribellioni, ha contribuito alla creazione del CNI e di molteplici organizzazioni sociali, politiche e culturali, così adesso può accadere qualcosa di simile. Niente è potente quanto l’esempio.
Quest’anno celebriamo il centenario della Rivoluzione d’Ottobre. L’ossessione dei bolscevichi e di Lenin, che trova conferma nel meraviglioso libro di John Reed I dieci giorni che sconvolsero il mondo, era che tutti si organizzassero in soviet, anche coloro che fino a quel momento li combattevano. Chiamavano perfino i cosacchi, nemici della rivoluzione, a creare i propri soviet e a inviare delegati al congresso di tutta la Russia. “La rivoluzione non si fa, ma si organizza”, diceva Lenin. Indipendentemente da quel che si pensi sul dirigente russo, quell’affermazione è il nucleo di qualsiasi lotta rivoluzionaria.
Il passare dall’indignazione e la rabbia all’organizzazione, solida e persistente, è la chiave di ogni processo di cambiamenti profondi e radicali. Di rabbia ce n’è anche troppa in quei momenti. Serve organizzarla. Potrà la campagna elettorale messicana del 2018 trasformarsi in un salto in avanti nell’organizzazione dei popoli? Nessuno può rispondere. Ma è un’opportunità che il potere del basso si esprima nelle forme più diverse, perfino in atti e schede elettorali, perché la forma non è l’essenziale.
Pensandoci bene, invece di accusare il CNI e l’EZLN di creare divisioni, i critici, che non sono pochi, potrebbero riconoscerne l’enorme flessibilità. Sono capaci di fare incursioni in terreni che finora non avevano calpestato e di farlo senza abbassare le bandiere, mantenendo in alto i principi e gli obiettivi. I mesi e gli anni a venire saranno decisivi per delineare il futuro delle oppresse e degli oppressi del mondo. È probabile che in pochi anni potremo valutare la formazione del Consiglio Indigeno di Governo come il cambiamento che stavamo aspettando.
 fonte: La Jornada 
Traduzione per Comune-info: marco calabria

mercoledì 11 gennaio 2017

Kurdistan - La rivoluzione delle donne in Rojava: vincere il fascismo costruendo una società alternativa


di Dilar Dirik

(attivista curda e dottoranda all'università di Cambridge)

La sua ricerca è incentrata sul Kurdistan e il movimento delle donne curde


La resistenza contro lo Stato Islamico a Kobane ha fatto conoscere al mondo la causa delle donne curde. Con la loro tipica miopia, i media non hanno preso in considerazione le radicali implicazioni del loro gesto, ovvero l’essere pronte ad abbracciare le armi in una società patriarcale, e per di più contro un gruppo che sistematicamente stupra e vende donne come schiave sessuali, anzi, persino riviste di moda si sono appropriate della lotta delle donne curde per i loro scopi sensazionalisti. Le combattenti più “attraenti” finiscono nelle interviste e nei servizi che ne fanno poi un’immagine esotica da toste amazzoni. La verità è che, per quanto possa essere affascinante – sopratutto in una prospettiva orientalista – scoprire una rivoluzione femminile tra i curdi, la mia generazione è cresciuta riconoscendo le donne combattenti come parte della nostra identità.

L’Unità di Difesa Popolare (curdo: Yekîneyên Parastina Gel, YPG) e l’Unità di Difesa delle Donne (curdo: Yekîneyên Parastina Jin‎ , YPJ) di Rojava, regione a maggioranza curda nel nord della Siria, affrontano il cosiddetto “stato islamico” da due anni e stanno opponendo una strenua resistenza nella città di Kobane. All’incirca il 35 per cento dei combattenti, un numero stimato di 15.000, sono donne. Fondata nel 2013 come un’armata delle donne indipendente, il YPJ dirige autonomamente operazioni e addestramenti. Ci sono centinaia di brigate femminili sparse nel Rojava. Quali sono le motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobane non è caduta? La risposta si trova nella radicale rivoluzione sociale che accompagna i loro fucili di autodifesa.

Innanzitutto bisogna analizzare le implicazioni di stampo patriarcale, nella guerra e nel militarismo, per comprendere la natura della lotta delle donne contro l’ISIS e della sistematica guerra condotta dall’ISIS contro le donne. Normalmente, in guerra, le donne vengono percepite come parti passive nei territori difesi dagli uomini, mentre al contempo il sistematico ricorso alla violenza sessuale è strumento di dominio e umiliazione del nemico. 
Essere militante è “non-femminile” (un-womanly); scavalca le norme sociali e mina lo status quo. La guerra è vista come una questione maschile: suscitata, condotta e conclusa da uomini. Che “combattente” possa dunque essere anche donna, crea disagio generale. Nonostante la tradizionale divisione di genere esemplifichi e idealizzi le donne come delle sante, la punizione è altrettanto feroce una volta che abbiano osato violare il ruolo prestabilito. Questo è il motivo per il quale tante donne combattenti, ovunque nel mondo, sono soggette a violenza sessualizzata in quanto combattenti in guerra o prigioniere politiche. Come molte femministe hanno indicato, lo stupro e la violenza sessuale non hanno poco o nulla a che vedere con il desiderio sessuale, ma sono strumenti per dominare e imporre la propria volontà su un’altra. Nel caso delle donne militanti, il fine della violenza sessualizzata, fisica o verbale che sia, è di punirle per essere entrate in una sfera maschile.

Le militanti curde stanno combattendo contro lo stato turco (secondo esercito più grande della NATO e primo ministro che si appella alle donne chiedendo loro di partorire almeno tre figli) , contro il regime iraniano (il quale disumanizza le donne apparentemente nel nome dell’Islam), contro il regime siriano (stupro sistematico come strategia di guerra) e contro i jihadisti, come quelli dell’ISIS. Inoltre, combattono anche contro il patriarcato, ancora insito nella stessa società curda. E ancora contro matrimoni precoci e forzati, violenza domestica, delitti d’onore e cultura dello stupro.

L’ISIS ha dichiarato una guerra alle donne con rapimenti, matrimoni forzati e schiavitù sessuale. Si tratta di una distruzione sistematica della donna, una forma specifica di violenza: femminicidio. La violenza sessuale è il castigo per le donne militanti che sono entrate in una sfera riservata agli uomini, al “ genere privilegiato”. Per i membri dell’ISIS, che dichiarano “halal” (lecito) stuprare le donne nemiche e che si aspettano 72 vergini in paradiso come ricompensa per le loro atrocità, le donne militanti sono certamente un perfetto nemico…

Nonostante l’esplicita natura sessista della guerra e della violenza, in tutto il mondo le donne si schierano in prima fila nelle lotte per la libertà ma, una volta che la “liberazione” è raggiunta, vengono respinte, rimandate nei ruoli tradizionali in modo di ristabilire la “normale” vita civile; considerando ciò, cosa possiamo imparare sulla liberazione da un punto di vista radicale?

La repressione delle donne curde avviene su vari livelli, e questa esperienza ha maturato in loro la consapevolezza che le diverse forme di oppressione sono interconnesse tra loro. Da qui scaturisce l’ideologia che ora anima la resistenza nei tre cantoni del Rojava dichiarati autonomi nel gennaio del 2014, tra cui, appunto, Kobane. È una resistenza che trova risonanza con gente in lotta in tutto il mondo, che sente la causa come propria.

Qual è il credo politico dietro la resistenza delle donne curde?

“Noi non vogliamo che il mondo ci conosca per le nostre pistole, ma per le nostre idee,”, dice Sozda, una comandante del YPJ a Amude, indicando le immagini che tappezzano la loro stanza in comune: guerriglieri del PKK e Abdullah Öcalan, il rappresentante ideologico del movimento, attualmente in prigione. “Non siamo soltanto donne che combattono l’ISIS. Noi lottiamo per cambiare la mentalità della società e mostrare al mondo di cosa siano capaci le donne.” Per quanto il PKK e l’amministrazione del Rojava non siano esplicitamente legati, condividono gli stessi principi politici.

Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), fondato nel 1978, ha iniziato una guerriglia contro lo stato turco nel 1984. Inizialmente puntava all'indipendenza del Kurdistan, ma sorpassò ben presto i concetti di stato e nazionalismo, criticati in quanto oppressivi ed egemonici. Ora propugna un progetto di liberazione sotto forma di democrazia – inclusiva, femminista e radicale – e di autonomia regionale: “confederalismo democratico” ( parità dei generi, ecologia ) e democrazia diretta per tutti i gruppi (etnici, linguistici, culturali e religiosi). Abdullah Öcalan afferma esplicitamente che il patriarcato, insieme al capitalismo e allo Stato, sono alla base di oppressione, dominazione e potere: “L’uomo è un sistema. Il maschile è diventato Stato e lo ha trasformato in cultura dominante. L’oppressione di classe di genere si sviluppano insieme. La mascolinità ha generato il genere dominante, la classe dominante, e lo stato dominante”. Si ribadisce il bisogno di una lotta femminista autonoma e cosciente: “la libertà della donna non può essere assunta una volta che una società ha ottenuto generale libertà ed eguaglianza”. I quadri del PKK frequentano seminari contro il patriarcato e a sostegno dell’uguaglianza di genere, in modo di cambiare il senso di privilegio e diritto naturale dell’uomo sulla donna. Öcalan dimostra le connessioni tra differenti istituzioni di potere: “Tutte le ideologie, di stato e di potere, derivano da comportamenti sessisti […]. Senza la schiavitù della donna nessun altro tipo di schiavitù può esistere, e nemmeno svilupparsi. Il capitalismo e lo stato-nazione non sono che il maschile dominante nella sua forma istituzionalizzata. Detto con franchezza: il capitalismo e lo stato nazione sono il monopolio del maschio dispotico e sfruttatore”. Anche il movimento delle donne produce indipendentemente teorie e critiche sofisticate, ma che, nel Medio Oriente, il leader di una lotta per la liberazione metta la liberazione femminile come misura critica della libertà stessa, è pressoché straordinario. Solo leggendo, capendo la posizione di questo movimento e le sue azioni corrispondenti, è possibile comprendere la mobilitazione di massa delle donne di Kobane. Questa posizione non è emersa dal nulla, ma nasce da una tradizione radicata con un determinato sistema di principi.

Il PKK ripartisce ogni posizione nell’amministrazione tra un uomo e una donna, dalle presidenze del partito ai consigli di quartiere, tramite il principio di co-presidenza (co-chair concept, lett. “seggio in comune”). Oltre al fornire ad entrambi lo stesso potere decisionale, il concetto di co-presidenza mira a decentralizzare il potere, prevenire il monopolismo, e promuovere la ricerca del consenso (consensus-finding). Il movimento delle donne è organizzato autonomamente, socialmente, politicamente e militarmente. Mentre questi principi organizzativi cercano di garantire la rappresentanza femminile, la mobilitazione massiva sociale e politica mira alla coscienza della società in modo da interiorizzare i concetti appoggiati. Influenzate dalla linea femminista del PKK, la maggioranza delle donne nel parlamento turco e nelle amministrazioni municipali sono curde. Insieme al YPG/YPJ, unità del PKK realizzarono un corridoio umanitario per salvare i Yazida nelle montagne del Jebel Sinjār (Nord-Iraq) ad agosto. Alcune donne del PKK morirono difendendo la cittadina di Makhmour, nel Kurdistan iraqeno, a fianco dei compagni uomini. Ispirati da questi principi, i cantoni del Rojava hanno rinforzato i meccanismi di copresidenze e quote, hanno creato unità di difesa della donna, comuni femminili, accademie, tribunali e cooperative. Il movimento delle donne Yekîtiya Star è organizzato autonomamente in tutti i settori, dalla difesa all’economia, fino alla sanità. Assemblee e consigli femminili coesistono con quelli popolari e hanno potere di veto sulle decisioni di quest’ultimi. La discriminazione basata sul genere viene fronteggiata dalle leggi. Uomini colpevoli di violenze contro le donne non sono supposti a far parte dell’amministrazione. Nel bel mezzo della guerra, uno dei primi atti del governo è stata la criminalizzazione di fenomeni come matrimoni forzati, violenza domestica, delitti d’onore, poligamia, matrimoni precoci e il “prezzo della sposa”. Molte donne non-curde, specialmente arabe e siriane, si sono unite ai ranghi militari e amministrativi del Rojava e vengono incoraggiate ad organizzarsi autonomamente. In tutti i settori, incluse le forze di sicurezza interna, la parità dei sessi è parte centrale dell’educazione e dell’addestramento.Mentre alcuni editorialisti affermano arrogantemente che le donne di Kobane lottano “per valori occidentali”, le accademie femminili in Rojava criticano la nozione delle donne occidentali più libere, e dell’occidente detentore di un monopolio dei valori come la parità dei sessi. “Non c’è libertà individuale se l’intera società è schiavizzata”. In seminari pubblici, le donne esprimono le proprie critiche alle scienze sociali e propongono vie di liberare il sapere dal potere. Eppure questa rivoluzione femminista popolare ed esplicita è completamente ignorata dai media mainstream.

“La nostra lotta non è solo per la difesa della nostra terra”, spiega una comandante del YPJ,
Jiyan Afrin. “Noi in quanto donne facciamo parte di tutte le estrazioni sociali, indipendentemente se combattiamo l’ISIS o la discriminazione e violenza contro le donne. Stiamo cercando di mobilitare e di essere le autrici della nostra stessa liberazione”. Quale liberazione?

L’esperienza del movimento femminile curdo illustra che per una rivoluzione sociale significativa i concetti di liberazione devono essere sciolti dai parametri dello status quo. Per esempio, il nazionalismo è un concetto patriarcale. Le sue premesse limitano le lotte per la giustizia. Similarmente, l’idea di uno stato-nazione perpetua il sistema egemonico, oppressivo e dominante. Piuttosto che sottoscrivere questi concetti, la liberazione dovrebbe essere vista come una lotta senza fine, il tentativo di costruire una società etica, solidarietà tra le comunità e giustizia sociale. Dunque, piuttosto che essere una questione basata sui diritti che carica il peso sulle donne, la liberazione e l’uguaglianza dei generi dovrebbe diventare una questione di responsabilità di tutta la società, perché misurano l’etica e la libertà della società stessa. Per una lotta radicale e rivoluzionaria, la liberazione della donna deve essere nel processo sia obiettivo intrinseco, sia metodo attivo. La partecipazione politica deve andare oltre al voto e ai diritti e deve venir radicalmente reclamata dalle persone.

In un'era nella quale grandi statiste alimentano guerre ingiuste in paesi del terzo mondo pretendendo di “salvare le povere donne oppresse”, insieme a gruppi razzisti e maschilisti che credono di contribuire alla causa femminile nel Medio Oriente tramite azioni sensazionaliste egocentriche che loro considerano radicali, e nella quale l’estremo individualismo e consumismo sono propagati come emancipazione, le combattenti di Kobane hanno contribuito a ri-articolare il femminismo radicale rifiutandosi di attenersi alle premesse dell’ordine costituito da stato-nazioni capitalisti e patriarcali, reclamando l ‘autodifesa legittima, dissociandosi dal monopolio di potere dallo stato, e combattendo una forza brutale non per conto degli imperialisti, ma per una liberazione nella quale loro stesse stabiliscono i termini.

Da Kobane, la combattente YPJ Amara Cudî mi racconta via internet: “Una volta ancora, nuovamente, i curdi sono apparsi sul palcoscenico della Storia. Ma questa volta con un sistema di autogoverno e autodifesa, specialmente per le donne, che ora, dopo millenni, scrivono loro stesse la loro storia per la prima volta. La nostra filosofia ha reso noi donne coscienti che possiamo vivere solo resistendo. Se non possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra. Per riuscire, è vitale sapere per cosa stiamo lottando”.

Senza questo impegno collettivo per scuotere la coscienza della società, per trasformare i senzavoce in attori politici, Kobane non sarebbe stata capace di resistere per così tanto. Questo perché la mobilitazione politica e ideologica della popolazione di Rojava sono imprescindibili dalle vittorie contro l’ISIS: una rivoluzione genuina deve prima sfidare la mentalità di una società. Perciò, la lotta delle donne contro l’ISIS non è solo militare, ma anche esistenziale. Esse non resistono solo contro la misoginia dell’ISIS, ma anche contro la cultura dello stupro e del patriarcato nella loro stessa comunità. Dopotutto, l’ISIS cavalca sopra il concetto di “onore” nella regione, costruito intorno ai corpi e alla sessualità delle donne. Per questo, un grande striscione nel centro di Qamishlo dichiara: “Noi sconfiggeremo gli attacchi dell’ISIS garantendo la libertà delle donne nel medio oriente.”

Uno non deve simpatizzare con il PKK, ma non può nemmeno sostenere la resistenza a Kobane negando il pensiero che la alimenta, per poi esprimere solidarietà alle donne coraggiose che combattono l’ISIS. Non puoi scrivere l’epos delle donne di Kobane senza aver letto la vita di Sakine Cansiz, cofondatrice del PKK , che aveva guidato un ‘insurrezione in un carcere turco e aveva sputato in faccia al suo torturatore. È stata assassinata insieme Fidan Dogan e Leyla Saylemez il 9 gennaio 2013 a Parigi. Donne come lei hanno aperto la strada alla lotta contro lo stato islamico – donne che erano state, prima dell’ascesa dell’ISIS, etichettate come prostitute, terroriste, streghe irrazionali e confuse, crudeli, perché combattevano lo stato turco, membro della NATO.

Oggi, le donne di Rojava decorano le loro stanze con foto delle loro compagne Sakine, Fidan, e Leyla.

La de-politicizazzione della lotta a Kobane priva i combattenti del senso del loro operato e estrae la mobilitazione collettiva dal contesto – questo per interesse della coalizione, che consiste di stati che non solo avevano ignorato e marginalizzato la resistenza di Rojava all’ISIS per due anni, ma anche rifornito di armi gli stessi individui che poi avrebbero formato questo sanguinario gruppo. Solidarietà con le donne di Kobane vuol dire anche interessarsi alle loro politiche. Vuol dire sfidare l’ONU, la NATO, le guerre ingiuste, il patriarcato, il capitalismo, la religione politica, il commercio mondiale di armi, il nazionalismo, il settarismo, il paradigma dello stato, la distruzione ambientale – i pilastri di un sistema che ha scatenato l’inizio di questa situazione. Non permettete che coloro che hanno proiettato ombre buie, violente sul Medio Oriente e che causarono l’ascesa dell’ISIS, pretendino ora di essere i “buoni”. Sostenere le donne di Kobane vuol dire alzarsi in piedi e diffondere la rivoluzione.

(Titolo come apparso nel blog dell’autrice: The Women’s Revolution in Rojava: Defeating Fascism by Constructing an Alternative Society, dal capitolo “A Small Key Can Open A Large Door: The Rojava Revolution” in Strangers in a Tangled Wilderness, Marzo 2015, Combustion Books. Traduzione di Eugenia - tratto da Al di là del Buco)

domenica 8 gennaio 2017

Messico - Riassunto alla chiusura de "L@s zapatistas y la ConCiencias por la Humadidad"


All'incontro, dal 26 dicembre 2016 al 4 gennaio 2017, hanno partecipato 200 donne e uomini zapatisti, di tutte le zone, come "alunni", decine di scienziati, tra cui fisici, matematici, biologi, astronomi, e centinaia di "escuchas" messicani ed internazionali. I lavori serrati delle otto giornate sono stati organizzati in sessioni plenarie e di approfondimento in cui le basi d’appoggio zapatiste hanno posto ai relatori le loro domande. 
Vai alla cronaca delle varie giornate.
In contemporanea con l’Incontro si è svolta la seconda parte del V Congresso Nazionale Indigeno in cui è stata ratificata la proposta di costituire un Consiglio Indigeno di Governo. La voce del Consiglio, che vedrà la sua Assemblea Costituente nel maggio 2017, sarà una donna indigena, che verrà proposta come candidata indipendente alle elezioni presidenziali nel 2018.
Nell’atto di chiusura dell’Incontro il 4 gennaio 2017 una zapatista alunna ha letto una valutazione comune di questa prima tappa di un percorso che è stato voluto per aprire la possibilità che gli scienziati possano condividere i loro saperi con le comunità delle montagne del sud est messicano.
L’impegno per gli alunni zapatisti è quello di riportare le "parole dure" o "elevate" , che hanno ascoltato in questi 8 giorni nelle proprie comunità. Perché questo era quello che si voleva fare: conoscere, avere accesso alle scienze per rafforzare l’autonomia e l’autogoverno.


Nell'ultima mattinata, durante la sessione plenaria, una relatrice ha detto che "gli zapatisti stanno costruendo un’arca per affrontare la tormenta che arriva" ed è forse il momento che gli scienziati costruiscano anche loro la propria arca, così come tanti altri, per affrontare nel presente questa inedita forma di potere, l’Idra capitalista, il capitale finanziario, che avanza con distruzione e morte.
Sono stati 8 giorni intensi, a volte incredibili per i temi trattati. Ma forse è proprio questo che si tratta di fare: sfidare il presente senza porsi barriere e mettendosi in discussione a partire da quel che ognuno fa e da dove ognuno si trova. 


Gli zapatisti ci provano a non dare niente per scontato. Neppure la loro stessa identità, che non diviene mai una gabbia in cui guardare ad un passato che non tornerà più.
Lo hanno ripetuto più volte in queste giornate "certo possediamo saperi che vengono dalle nostre radici, ma oggi non bastano e non ci bastano più per affrontare il presente"
La scommessa, il sogno servono per aprire nuovi orizzonti perché "se l’umanità affronterà lo spazio, nei viaggi interstellari porti con sé non sia il peggio di quel che ha costruito ma il meglio ..."

Uscendo dall’auditorio nell’ultima giornata, dopo gli interventi del SubComandante Moisés e del SupGaleano, intervenuti dopo gli alunni zapatisti, la limpida notte chiapaneca brilla di stelle, a volte invisibili alle nostre latitudini ... fa bene ogni tanto vedere qualcosa di diverso, può aiutare a costringerci tutt@ ad andare al di là della normale quotidianità. E di questi tempi ce n’è bisogno!
Video degli interventi conclusivi dell’Incontro “L@s Zapatistas y las ConCiencias por la Humanidad”


L’ultimo giorno dell’Incontro hanno parlato nelle sessioni plenarie: Celia Oliver, César Abarca, C. Hugo I. Cruz Rosas, Ma. del Pilar Martínez Téllez , Martha Patricia Mora Flores, Nelson Ravelo, Steven Rose. Nelle sessioni di divulgazione C. José Manuel Serrano Serrano, Mariana Patricia Jácome Paz , Marina Nolasca Valdés Navarrete. 
Ascolta gli audio completi dell’ultima giornata in Radio Zapatista.
Pronunciamento congiunto del CNI e dell’EZLN, letto il 4 gennaio 2017 per la liberazione della sorella Mapuche Machi Francisca Lincolao Huircapan.


Di seguito la playlist video a cura Cooperazione Rebelde - Napoli e Associazione Ya Basta - Caminantes


Raccolta audio e comunicati a cura Radio Zapatista

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!