martedì 6 marzo 2018

Kurdistan - Movimento di Liberazione delle donne curde (KJK): Alle donne del mondo

Dalle montagne del Kurdistan, nelle terre dove la società si è sviluppata con la guida delle donne, vi salutiamo con la nostra grande libertà, passione, ambizione e lotta indissolubile. Dai quartieri del Rojava alle foreste del Sud America, dalle strade europee alle pianure dell’Africa, dalle valli del Medio Oriente alle piazze del Nord America, dalle montagne dell’Asia agli altipiani australiani; con il nostro amore che non conosce confini e con i nostri sentimenti più rivoluzionari, abbracciamo tutte le donne che rafforzano la lotta per la libertà e l’uguaglianza.

In occasione dell’8 marzo 2018, Giornata internazionale della lotta per le donne, commemoriamo tutte le donne che hanno dato la vita nella ricerca della libertà, nella resistenza contro la schiavitù, lo sfruttamento e l’occupazione. Da Rosa Luxemburg a Sakine Cansız, da Kittur Rani Chennamma a Berta Caceres, da Ella Baker a Henan da Raqqa, da Djamila Bouhired, alla palestinese Sana’a Mehaidli a Nadia Anjuman, siamo sempre grate alle immortali guerriere della lotta di liberazione delle donne. La loro luce squarcia l’oscurità che ci è stata imposta. Sul sentiero che hanno illuminato davanti a noi, marciamo verso la libertà. Insieme a loro, commemoriamo tutte le donne che sono state assassinate nel corso di un regime patriarcale di cinquemila anni, attraverso ogni sorta di violenza maschile, guerre, terrore di Stato, occupazioni coloniali, poteri mascherati religiosamente, bande di uomini, mariti e cosiddetti amanti.È il loro ricordo che spinge la nostra incrollabile determinazione a porre fine al femminicidio, la più antica guerra del mondo.

Care donne, compagne, sorelle,
siamo nel bel mezzo di un processo di trasformazione epocale. Il sistema patriarcale, coetaneo della civiltà statalista, sta attraversando una profonda crisi strutturale. Come donne, dobbiamo diagnosticare questa crisi sistemica con le sue cause e conseguenze, stabilire analisi forti e sviluppare prospettive che accelerino la nostra lotta. Perché, se la crisi strutturale del sistema costituisce una grande minaccia per le donne di tutto il mondo, offre anche opportunità per affermare la libertà delle donne. Opportunità che forse si presenta solo una volta ogni secolo.


Possiamo trasformare il 21° secolo nell’era della liberazione delle donne! E non è un sogno o un’utopia. È una realtà. Ma affinché si realizzi dobbiamo creare un programma di liberazione delle donne per il XXI secolo.

Per questo, dobbiamo prima di tutto cogliere pienamente, nella loro interezza, le contraddizioni e le caratteristiche fondamentali dell’epoca in cui viviamo. Quali possibilità e quali rischi queste contraddizioni e caratteristiche costituiscono dal punto di vista della liberazione delle donne? Che tipo di responsabilità dobbiamo assumere in questo senso, come organizzazioni e movimenti globali delle donne?

Nel XXI secolo il sistema mondiale è entrato in una profonda crisi, tanto che si parla di “nuovo ordine del mondo”.

Cercando di riorganizzarsi per uscire dalla crisi, la modernità capitalista per prima cosa tentò di applicare questo nuovo ordine in Medio Oriente sotto il nome di “Grande progetto per il Medio Oriente”. Ebbene, denominiamo il processo iniziato con gli interventi in Afghanistan e in Iraq, proseguito con la primavera araba in Nord Africa e intensificato negli ultimi anni in Siria, Iraq e Kurdistan, “terza guerra mondiale”. Mentre i regimi dello Stato-nazione in Medio Oriente, creati dagli Stati occidentali cento anni fa per riprodurre il caos e la crisi in modo permanente, cercano di proteggere lo status quo, le potenze straniere tentano di dividere nuovamente la regione.

Nominare l’attuale periodo in Medio Oriente “terza guerra mondiale” non è solo un tentativo di sottolineare il coinvolgimento delle potenze internazionali. Oltre a ciò, è chiaro che la ricostruzione della modernità capitalista in Medio Oriente avrà conseguenze su scala globale. Il sistema mondiale contemporaneo o la modernità capitalista non è un fenomeno degli ultimi 500 anni. Il suo seme ha messo radici nella forma del primo Stato risalente a 5000 anni fa in Mesopotamia e da allora ha subìto diverse trasformazioni per sostenersi fino ad oggi.

Per questo motivo, difendere la Soluzione Confederale Democratica come “terza via” contro lo status quo-ismo degli stati regionali e l’interventismo riprogettato delle potenze straniere, costituisce una responsabilità fondamentale per tutte e tutti noi, e supera i confini della Siria e del Medio Oriente. 
Il sistema di autonomia democratica che si sta attualmente costruendo con la leadership delle donne nel Rojava e nel Nord della Siria, in tali condizioni di guerra e resistenza, è l’unico modello risolutivo che ha il potenziale per porre fine alle crisi, al caos, alle contraddizioni e ai conflitti che si sono sistematicamente riprodotti nella regione durante il secolo scorso. 
Non solo gli Stati-nazione che sono stati creati insieme ai confini disegnati artificialmente dopo la prima guerra mondiale non riflettono la composizione etnica, culturale, religiosa e sociale della regione, ma hanno anche mirato a far saltare in aria la nostra millenaria cultura della vita comune. 
Oggi, nel Nord della Siria, per la prima volta viene costruito un sistema basato sulla partecipazione paritaria e libera delle donne, sul pluralismo etnico e religioso e sulla democrazia partecipativa. 
Come alternativa democratica, questo modello pone una soluzione ai problemi obsoleti del Medio Oriente, contro i regimi maschili, sessisti, monistici, nazionalisti, settari, che sono stati alimentati dal sistema globale per decenni.

Questo è il motivo per cui lo Stato turco, che ha il secondo più grande esercito nella NATO, ha lanciato con tutta la sua forza un’operazione contro il Rojava, ad Afrin, nel Nord della Siria, il 20 gennaio 2018. Questo è anche il motivo per cui potenze straniere come USA, Russia e UE non stanno ostacolando gli attacchi militari ad Afrin. Perché in Afrin si costruisce un modello di società democratica che mette al centro la liberazione delle donne. 
La resistenza di Afrin rappresenta la rivolta delle donne contro la vita capitalista della modernità. Le città e i villaggi circostanti ad Afrin resistono al fascismo, alla misoginia, allo sradicamento dei valori culturali e all’inimicizia tra i popoli. Ed è chiaro che non è solo lo Stato turco e gli alleati delle bande islamiste reclutati che si scontrano con le unità di difesa femminile e popolare di Afrin: in un piccolo pezzo di geografia come Afrin, due sistemi mondiali, due ideologie, due progetti futuri si stanno battendo. 
Mentre uno è basato sulla liberazione, l’ecologia e il pluralismo delle donne, l’altro è fatto di misoginia, potere maschile, monismo, dominio e sfruttamento. Uno brilla con tutti i colori della vita, mentre l’altro rappresenta l’oscurità. 
Pertanto, è di vitale importanza e significativo per le donne del mondo rivendicare e difendere la crescente resistenza contro il fascismo ad Afrin. 
Poiché ciò che è sotto attacco e che viene difeso, sono valori universali della libertà delle donne. In questa occasione, come KJK, salutiamo e ci congratuliamo con le/i combattenti per la libertà, che assumono la guida della resistenza ad Afrin, e con il popolo di Afrin che difende eroicamente le sue terre dagli invasori. Le donne e l’unità vinceranno. Il fascismo perderà.

Il processo rivoluzionario in Rojava e nel Nord della Siria mostra questa verità a tutte e tutti noi: le vere rivoluzioni devono essere rivoluzioni femminili. I tentativi rivoluzionari che non si basano sulla liberazione delle donne non hanno possibilità di successo. 
La ragione fondamentale dell’incapacità dei movimenti socialisti e rivoluzionari del ventesimo secolo di realizzare obiettivi desiderati nonostante i loro innumerevoli sacrifici, dedizione e programmi, è il fatto che non hanno messo la liberazione delle donne al centro delle loro lotte. 
La questione delle donne non è un problema secondario, bensì è alla base di tutte le altre questioni. Le donne sono la prima classe oppressa, asservita, sfruttata, colonizzata e dominata. Tutte le altre forme di sfruttamento iniziano dopo lo sfruttamento delle donne. 
Per questo motivo, condurre una lotta efficace contro il sistema egemonico sarà possibile solo nel quadro di una forte ideologia e programma di liberazione, in cui l’organizzazione autonoma e separata delle donne gioca un ruolo attivo. 
La nostra esperienza di lotta ideologica e pratica trentennale come Movimento per la libertà delle donne del Kurdistan ci mostra questo.

Care donne, care compagne,
il seme del sistema globale basato sulla modernità capitalista si trova in Medio Oriente, in particolare in Mesopotamia. È in questa regione che l’attuale crisi sistemica si mostra direttamente, così com’è. 

Ma poiché la crisi del sistema mondiale patriarcale-capitalista ha una qualità globale, non esiste terra risparmiata dal sentire questa crisi, nessun lago, montagna o fiume lasciato intatto, nessuna società che non sia stata influenzata dai tentativi di dominio. 
Tuttavia, quelle più colpite dalla crisi sono le donne. E ciò è direttamente connesso al carattere sessista della modernità capitalista. Il sistema sta cercando di superare la crisi sfruttando e abusando delle donne in modo ideologico e materiale ancora più forte, e così cerca di garantire la sua esistenza.

Contro le affermazioni comuni, il liberalismo, come una delle ideologie fondamentali dello Stato- nazione, non ha portato alcun contributo positivo alla liberazione e all’uguaglianza delle donne. Al contrario, è proprio in quest’epoca liberale che il sessismo è stato rafforzato e usato come elemento ideologico. È una grande bugia che il liberalismo libera le donne. La mercificazione della donna, in tutto il suo corpo, personalità e anima, costituisce la forma più pericolosa di schiavitù.

In questo contesto, la modernità capitalista costituisce il più alto stadio del sistema patriarcale. In nessun punto della storia della civilizzazione le donne sono state soggette allo sfruttamento tanto quanto lo sono state nell’era della modernità capitalista. 
Dalla prospettiva delle donne, esiste una colonizzazione che è aumentata di mille volte nella sua profondità e nei suoi scopi. Il sessismo nella società dello stato-nazione mentre assegna all’uomo il massimo potere ha trasformato la società nella colonia più inferiore attraverso la figura della donna. In questa dimensione, nella storia della civilizzazione in generale e nella modernità capitalista in particolare, la donna è nella posizione di essere la più vecchia e la più nuova nazione colonizzata. 
Dalla prospettiva del sistema egemonico una ragione per quest’insostenibile crisi è la colonizzazione delle donne.

Le donne e la liberazione delle donne costituisce il fondamentale potere che si oppone al sistema patriarcale e capitalista mondiale. 
Al cuore di tutte le forme di potere, di egemonia, di sfruttamento, di saccheggio, di schiavitù, di violenza, e di oppressione che il sistema stesso crea in sé si basa sulla dominazione della donna. La schiavitù e la proprietà imposte sulle donne passo dopo passo si diffondono complessivamente nell’intera società. 

Questo è il motivo per cui la lotta di liberazione delle donne, tra tutte le lotte anti-sistema ha la più grande forza di scuotere dalle fondamenta il sistema del maschio egemonico. E, di fatto, è questa dinamica che disvela la crisi che il sistema sperimenta. Come donne, dobbiamo vedere chiaramente la forza che possediamo e gli effetti che creiamo.

In questo senso, l’aumento massivo della violenza e degli attacchi contro le donne in tutto il mondo è direttamente connesso a questa situazione di crisi e alla relazione tra il sistema mondiale patriarcale capitalista e la liberazione delle donne. Il sistema sessista basato sullo sfruttamento attacca la donna che pone la più grande sfida e pericolo al suo potere. 
Nei fatti parliamo di una guerra di aggressione sistematica. La forma di questa guerra di aggressione può differire al livello locale ma stiamo essenzialmente di fronte ad un fenomeno universale. Dobbiamo guardare alle connessioni tra gli stupri di gruppo in Asia e la violenza di genere negli Stati Uniti. 
Con un approccio olistico dobbiamo esaminare le uccisioni delle donne in Latinoamerica, che hanno raggiunto il livello di un massacro, come i rapimenti e la resa in schiavitù di donne e ragazze da bande, mascherate come religiose, in Africa e in Medio Oriente. Dobbiamo analizzare insieme la crescita del fascismo, i regimi misogini e i loro attacchi ai diritti ottenuti dalle donne come risultato delle loro lotte. E dobbiamo essere profondamente consapevoli del fatto che questa guerra, guidata dal sistema patriarcale su scala globale, sta cercando di soffocare la ricerca e le lotte di liberazione delle donne.

Per questo, probabilmente, il sistema maschile dominante non è mai stato così tanto messo sotto pressione nella storia della civilizzazione. 
Le sue fondamenta non sono mai state scosse fino a questo punto. Analogamente, dalla prospettiva delle donne, le condizioni per assicurare la liberazione non sono mai state così mature. Le possibilità di realizzare la seconda grande rivoluzione delle donne non ha mai raggiunto questo stadio. 
Questo è il motivo per cui stiamo attraversando un periodo storico. Ci sono dunque grandi opportunità, ma anche i pericoli sono altrettanto grandi.

Se questo è il caso, cosa dobbiamo fare, se vogliamo confrontare questi pericoli e effettivamente valutare le possibilità per assicurare la liberazione delle donne e attraverso questa la liberazione di tutta la società? Come possiamo difendere noi stesse dai crescenti attacchi del sistema? In questo caso, l’autodifesa non va intesa in senso passivo. E’ necessaria un’autodifesa attiva. 
La più grande e la più efficace forma di autodifesa è creare una vita libera e stritolare le vene del sistema dominante maschile. Dobbiamo rendere la nostra vita insostenibile per il sistema, non il contrario. 
Ma perchè questo possa succedere dobbiamo portare avanti una lotta ad un livello più alto. Su scala globale, la lotta di liberazione delle donne ha creato un forte fondamento in entrambe le dimensioni teoretica e pratica. Ma ora è il momento di mettersi in marcia.

Come Movimento di Liberazione delle donne del Kurdistan siamo state impegnate in una grande lotta per più di 30 anni per approfondire l’ideologia di liberazione della donna, per rivelare la forza di autodifesa e la coscienza delle donne e per assicurare alle donne una equa e libera partecipazione nell’ambito della politica, per superare il sessismo in tutte le sfere della vita e per accelerare la libertà delle donne. 
All’interno di questo cammino abbiamo sempre compreso l’enorme importanza e senso di condividere i nostri risultati e conclusioni con tutte le donne del mondo. E ora, con grande entusiasmo, gioia e determinazione per trasformare il 21 secolo nell’era della donna liberata, per portare alla seconda grande rivoluzione delle donne, noi miriamo di essere all’altezza della missione del movimento universale di liberazione delle donne.

Care donne,
è assolutamente essenziale che ci organizziamo ad un livello universale per creare un sistema di donne globale e equo contro il sistema mondiale capitalista sessista e patriarcale. Una tattica cruciale del sistema egemonico è la divisione. La nostra forza, tuttavia, deriva dall’unità. Senza rigettare le differenze tra noi, mentre proteggiamo le nostre particolarità e i nostri colori, non c’è nulla che – se non come un mosaico, allora come un artefatto di marmo – il movimento globale di liberazione delle donne non possa raggiungere. Perché questo possa accadere, dobbiamo sviluppare alleanze democratiche tra donne. 


Dobbiamo sviluppare modi, metodi, e prospettive appropriate alle condizioni, secondo le caratteristiche e le necessità del ventunesimo secolo. Essenzialmente, dobbiamo tutte insieme sviluppare per il ventunesimo secolo il programma di liberazione delle donne.

Come movimento di liberazione delle donne del Kurdistan noi dobbiamo lo sviluppo della nostra rivoluzione come una rivoluzione di donne al nostro leader Abdullah Ocalan, che 19 anni fa è stato rapito all’interno di una cospirazione della organizzazione di bande maschile e statale chiamata NATO ed è ancora in ostaggio in Turchia in condizioni di isolamento che non hanno precedente storico.

È il sistema di analisi di Ocalan, le sue prospettive di liberazione, la sua trasformazione personale, i sui sforzi senza fine per lo sviluppo del movimento per la liberazione della donna che mettono insieme la forza che sta dietro queste dinamiche che ora ispirano persone in tutto il mondo. Il suo essere rinchiuso in una prigione in un’isola negli ultimi 19 anni e il suo completo isolamento dal mondo esterno negli ultimi quasi tre anni sono connessi all’influenza delle sue idee. 

Però i pensieri non possono essere isolati; gli spiriti liberi non possono essere tenuti in ostaggio. Il seguente estratto dalle prospettive di Ocalan, sviluppato in condizioni di isolamento carcerario, è illuminante sotto la prospettiva di una lotta universale di liberazione delle donne:
Senza dubbio, la denuncia della situazione della donna è una dimensione del problema. 
Ma quello che è più importante riguarda la questione della liberazione. In altre parole, la soluzione del problema ha un’importanza molto più grande. Si dice spesso che il livello di libertà generale della società si può misurare dalla libertà delle donne. È corretto e importante considerare come si possa riempire questa affermazione. La liberazione delle donne e l’uguaglianza non semplicemente determina la libertà ed uguaglianza della società. 
Per questo sono necessari la teoria, programmi, organizzazioni, e pianificazione di azioni. 
Più importante, mostra che non possono esserci politiche democratiche senza le donne e inoltre che, nei fatti, la politica di classe rimarrà inadeguata, e natura e pace non possono essere sviluppate e protette.”

Come movimento di liberazione delle donne curde, in occasione dell’8 marzo 2018, lanciamo un appello alle donne del mondo: mettiamoci assieme e assieme sviluppiamo la necessaria teoria, programmi, organizzazione, e piani di azione per la liberazione della donna. Con la coscienza che solo una lotta organizzata può portarci risultati, aumentiamo l’organizzazione in tutte le sfere della vita. 
Collettivizziamo le nostre coscienze, forza di analisi, esperienze di lotta, e prospettive per creare le nostre alleanze democratiche. Non lottiamo le une separate dalle altre – lottiamo assieme. 
E, lungo il percorso, trasformiamo il ventunesimo secolo nell’era della liberazione della donna! 
Perché questo è esattamente il momento giusto! 
È il momento per la rivoluzione delle donne!


Afrin è ovunque, e ovunque è resistenza!
Evviva la lotta universale di liberazione delle donne!
Jin, jiyan, azadi! Donne, vita, libertà!



8 marzo 2018
Komalên Jinên Kurdistan (KJK)


Scarica in PDF: Declarazione del KJK-8 marzo 2018

sabato 3 marzo 2018

Messico - Marichuy e l’esclusione politica

di Luis Hernández Navarro 

I promotori del voto utile possono stare tranquilli. María de Jesús Patricio non sottrarrà voti a nessuno nella corsa presidenziale. La voce dei popoli indigeni non ci sarà sulla scheda elettorale. L’unica aspirante alla Presidenza che negli ultimi mesi ha parlato chiaramente della depredazione, lo sfruttamento, l’oppressione e la discriminazione che subisce il Messico del basso non sarà candidata.

Marichuy aveva bisogno di 866 mila 593 firme per essere ammessa alla contesa elettorale. Anche se ancora manca la verifica finale, ha raccolto 281 mila 952 firme. (…).

Il livello di affidabilità delle firme consegnate dalla portavoce del Consiglio Indigeno di Governo (CIG) è del 94,48%. Il più alto tra tutti gli aspiranti alla candidatura indipendente. Gli altri hanno compiuto vere magie. La percentuale di firme convalidata di Jaime Rodríguez, El Bronco, è stata solo del 59,46%; quello di Armando Ríos Piter, 65,66%, e quello di Margarita Zavala, 67,59%. L’aspirante Édgar Portillo ha presentato solo il 2,63% di firme vere.

Le adesioni di Marichuy sono state raccolte da un esercito di volontari che non hanno ricevuto alcun compenso e senza risorse economiche per comperare gli apparecchi telefonici necessari per scannerizzare e trasmettere le sigle all’Istituto Nazionale Elettorale (INE). Mentre il resto degli aspiranti ha commissionato ad agenzie specializzate o a personale stipendiato la raccolta delle firme, la squadra di Marichuy, molti giovani studenti, ha cooperato al compito senza nessun compenso e senza altra spinta che quella di contribuire ad una giusta causa. In un paese in cui i voti si comprano e l’anagrafe elettorale si vende, il gruppo di appoggio del CIG ha dato una lezione di dignità e autentico senso civico.

Praticamente in tutto il mondo, partecipare alle elezioni richiede grandi somme di denaro. Anni fa, il film statunitense intitolato Chi più spende… più guadagna! mostrava come le campagne elettorali sono una bestia insaziabile che divora fortune. Nel film, Montgomery Brewster, un giocatore di baseball in disgrazia, avrebbe ricevuto un’eredità di 300 milioni di dollari a condizione che fosse stato in grado di spenderne 30 milioni in un mese senza comprare niente. Per superare la sfida non trovò modo migliore che candidarsi come sindaco di New York.

Come succede in Chi più spende… più guadagna!, nelle campagne elettorali in Messico circolano fiumi di denaro. Partiti e candidati spendono enormi fortune per vincere o per impedire che i loro avversari vincano. Molte di queste risorse non sono lecite, ma si usano.

Controcorrente a questo comportamento, in questi mesi Marichuy si è spostata praticamente per tutto il paese con pochissimi soldi. Ha rifiutato l’aiuto ufficiale e si è affidata essenzialmente al lavoro spontaneo e gratuito dei suoi simpatizzanti. Le comunità che ha visitato negli angoli più reconditi del paese sono state i suoi anfitrioni. Si è così dimostrato che è possibile fare un’altra politica che non giri intorno ai soldi.

Ancora prima dell’avvio della sua campagna, María de Jesús Patricio è stata vittima del razzismo e della più bassa misoginia. La sua doppia condizione di donna e indigena ha tirato fuori il peggio della società e della politica messicane. Molte belle coscienze liberali, tanto pronte a saltare sul pulpito alla prima occasione per criticare personaggi della nostra vita politica, sono stati in silenzio di fronte alle aggressioni.

Gli esempi delle assurdità circolate in rete sono numerosi. L’account @nopalmuino ha scritto: “Quella di #Marichuy è una pagliacciata, votare per lei solo perché indigena e donna… bisogna proprio essere stupidi”. Un altro che si firma Avvocato del diavolo, ha detto: “sì voterei per #Marichuy. Si vede che è esperta di pulizie in Messico”. Un altro che si fa chiamare Gonz and Roses ha twittato: “Quella #Marichuy somiglia a quella che pulisce casa mia”. L’enigmatico 0111001Or ha sparato: “Chi è #Marichuy e perché non sta facendo il pozole?”.

Tuttavia, queste non sono state le uniche espressioni contro di lei dalla politica più becera. Dalle file di una certa sinistra, alcuni personaggi l’hanno presentata non per quello che è, una donna indigena brillante e intelligente con una lunga esperienza politica, che difende una causa ignorata nella campagna elettorale, quella dei popoli indigeni e l’anticapitalismo, ma come un burattino dello zapatismo per sottrarre voti a chissà chi e perfino come uno strumento del governo o di Carlos Salinas de Gortari.

La campagna di María de Jesús Patricio ha riscosso grande successo evidenziando l’esistenza di quei rabbiosi razzisti, misogini ed escludenti nella società e nella politica messicane. In realtà, tutta questa spazzatura emersa dalla campagna elettorale mostra una delle ragioni per cui è stata necessaria questa incursione.

Le difficoltà che Marichuy ed il CIG hanno affrontato per essere presenti sulla scheda elettorale dimostrano che, benché formalmente esistano per legge le candidature civiche, ciò che prevale è un regime partitocratico in cui le carte sono a favore del monopolio della rappresentanza politica dei partiti. Possono inserirsi nella politica come candidati indipendenti, principalmente e quasi esclusivamente, i politici tradizionali.

Questo regime partitocratico, elitario ed escludente, nato dal Pacto de Barcelona del 1996 tra PRI, PAN e PRD, lascia senza rappresentanza politica un’enorme settore del paese. Lungi dal mettere in discussione la partitocrazia, la logica dei comizi del 2018 la rafforza. Basta guardare le liste dei candidati a deputati e senatori delle diverse coalizioni e le loro proposte in futuri ministeri di governo, per vedere che, essenzialmente, benché competano per sigle differenti, molti sono gli stessi di sempre. La campagna di Marichuy è diventata la prova evidente che una vera transizione democratica continua ad essere la questione in sospeso centrale dell’agenda politica nazionale. 

http://www.jornada.unam.mx/2018/02/27/opinion/019a2pol
Twitter: @lhan55
Traduzione “Maribel” – Bergamo

venerdì 2 marzo 2018

#8 Marzo - Maschi e contro il patriarcato?

Nel mondo di oggi dominano le semplificazioni e forse si corre più che in passato il rischio di pensare che sia sufficiente usare parole adeguate, assumere posizioni e atteggiamenti “politicamente corretti”, per non essere dalla parte di chi opprime. Non è affatto così, in modo particolare per quel che riguarda gli uomini e l’eredità del patriarcato. Se non possiamo sentire la sofferenza della violenza e del disprezzo sulla nostra pelle, di quale cambiamento possiamo parlare nell’oppressione maschile? E allora? Dobbiamo rassegnarci e accettare con l’opportunismo del caso, oppure con amara e comoda serenità, il destino che ci ha fatto nascere dalla parte di un privilegio per il quale proviamo vergogna? Naturalmente no, sebbene non ci siano linee da seguire né percorsi liberatori segnati. Possiamo cominciare, tuttavia, dalla consapevolezza di dover attraversare una crisi molto profonda

Foto: En Pareja.com

di Raúl Zibechi

Possono esistere maschi anti-patriarcali? Due anni fa, nella casa di Mujeres Creando, a La Paz, ho formulato questa domanda a Maria Galindo. Lo sghignazzo fragoroso deve aver risuonato fino a El Alto, arrampicato sulle pendici della hoyada (una depressione del terreno circostante, ndt), per poi vagabondare nell’altopiano. È rimasta a ridere per un bel po’, Maria. Quando ha recuperato la serenità, ha detto una cosa che m’è sembrata di senso comune, provenendo dall’anima e dal corpo di una donna femminista lesbica in un mondo di maschi: solo se si attraversa una crisi profonda.

Adesso, che si avvicina la giornata di lotta dell’8 marzo e si moltiplicano le assemblee di donne per preparare lo sciopero e le mobilitazioni, sento la necessità di tornare su alcuni interrogativi. Possono esistere uomini non patriarcali? C’è poi una domanda ancora più complessa: noi maschi possiamo essere femministi? Credo siano due orientamenti diversi. La prima domanda possiamo discuterla. La seconda dovremmo scartarla, almeno nell’accezione in cui viene posta.

Noi maschi possiamo simpatizzare con il femminismo, ma assumere il fatto che potremmo essere tali è un altro paio di maniche. Possono essere comunisti un padrone o un banchiere? Sì, potrebbero, sempre che si disfino dei loro beni materiali e si guadagnino la vita lavorando. È chiaro che stiamo parlando di cose materiali, che vanno e vengono, dunque. Il caso del patriarcato è molto differente perché le relazioni di oppressione di quel tipo non si risolvono in una maniera tanto “semplice”, diciamo, come disfarsi di fabbriche, case e campi.

Vorrei precisare le domande. Cosa ne facciamo del privilegio maschile? Come potrei disfarmi dei privilegi dell’essere maschio di fronte alle donne? Si tratta di privilegi simili a quelli che abbiamo noi maschi bianchi (o donne bianche) nelle comunità indigene o nei quilombos/palenques neri. Quell’asimmetria non scompare mai, salvo che uno si integri vivendo un tempo molto lungo nella comunità, come uno dei tanti, in ogni aspetto della vita. E comunque, anche in quel caso, semmai uno dovesse un giorno uscire dalla comunità, potrebbe reintegrarsi senza troppi problemi nel mondo da cui proviene.

Essendo maschi bianchi eterosessuali, poi, i privilegi si moltiplicano. E allora? 

Ritorno alla frase rumorosa di Maria Galindo. Senza crisi non ci sono cambiamenti. Almeno alcuni di quei cambiamenti che possano avvicinarci a una sensibilità capace di connetterci con il dolore delle donne, con la permanente e brutale (o sottile) umiliazione di ogni giorno, di ogni minuto. Se non possiamo sentire la sofferenza delle violentate, delle disprezzate, delle molestate sulla nostra pelle, fosse anche appena un po’, di quale cambiamento possiamo parlare? Perché nel mondo di oggi, sembrerebbe che sia sufficiente usare le parole adeguate, i termini politicamente corretti, per non essere più parte del mondo degli oppressori.

Per questo è necessaria la crisi. Perché de-costruire il ruolo del maschio oppressore non è una questione teorico-accademica; perché non basta andare alle manifestazioni dell’8 marzo; perché non è sufficiente assumersi una parte dei compiti domestici. 

A questo punto, voglio precisare che non ho la minima idea di come potremmo uscire dal ruolo di oppressori. Non c’è una linea e nemmeno c’è un cammino da seguire ma ci sono da creare modi di vivere e di sentire. Senza imbrogliarci. Creare è sempre qualcosa di incerto, perché non possiamo mai anticipare i risultati. Per questo la crisi. Perché si tratta di uscire da un ruolo, cosa già di per sé difficile, senza sapere dove collocarsi, in quale ruolo mettersi, come muoversi. Nei cortei delle donne siamo abituati a posizionarci in coda, oppure di fianco sul marciapiede. È un primo movimento. E poi? 

Sulla base della mia esperienza nel mondo indigeno e nero, posso solo dire che si tratta di camminare in punta di piedi, senza far rumore, sempre ai lati, mai al centro. Lavorare sull’ego in ogni secondo, in ogni movimento, con tutti i pori e tutti i desideri.

Ogni volta che ho domandato a qualche compagna “cosa dobbiamo fare”, è comparso un gesto di incertezza. Neppure loro sanno che posto possiamo occupare noi maschi che non vogliamo essere patriarcali, né nella vita quotidiana né negli spazi collettivi comuni. 

Dovrebbe essere un farsi più piccoli per uscire dal ruolo ereditato, qualcosa come camminare con gli occhi bendati, sapendo che ci saranno scivoloni, cadute, ferite… e che, probabilmente, prima o poi apparirà una mano che ci sostiene. Che altro possiamo chiedere, noi che opprimiamo, alla vita?

Questo articolo è uscito in spagnolo su Desinformemonos.
Traduzione per Comune: Marco Calabria.

martedì 27 febbraio 2018

Bolivia - Cochabamba. L’acqua è la comunità

Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono eterne. A Cochabamba, quasi vent’anni dopo la rivolta che ha insegnato a difendere la proprietà collettiva dell’acqua al mondo intero, l’accesso alla fonte primaria della vita è tornato a essere non un diritto ma un privilegio per pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Ci sono i planes maestros ma, racconta Oscar Olivera, sono stati progettati da tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la Bechtel nel Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta per conto dello Stato boliviano. La sola via resta auto-organizzarsi. Non si tratta di un’opzione necessariamente “minoritaria”: in undici paesi dell’América Latina sono stati censiti oltre 50 mila sistemi comunitari, molto diversi tra loro, che provvedono all’accesso per oltre 30 milioni di persone. L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci del passato che parlano al futuro, è la prima materia di cui abbiamo bisogno, per fortuna la più abbondante che c’è nel pianeta, una materia viva che possiamo desiderare ma non possedere. E men che mai vendere. L’acqua è la comunità, la vita insieme


foto tratta da mashable.com
di Marco Calabria


Tu hai la sorte
di portare l’aquilone del mattino

alla terra dei pesci
e alla guerra degli uomini.
Ti prego
acqua benedetta ombra di nuvole
anche se l’avido secolo ti fa infuriare
corri leggera sulla mia mano
non farmi mai naufragare.
(Roberto Roversi)

Ci sono voci del passato che parlano al futuro, ha scritto una volta Eduardo Galeano a proposito della prima grande rivolta contro le multinazionali del terzo millennio. Nelle migliaia di occasioni in cui gli è stato chiesto di raccontarla, Oscar Olivera, il più noto dei portavoce di quella rivolta, la Guerra dell’Acqua dell’anno Duemila, non ha mai trascurato di precisare quale fosse il più potente dei nemici che la gente di Cochabamba aveva dovuto affrontare per vincere. Non erano le multinazionali cui il governo boliviano del presidente-generale Hugo Banzer aveva affidato per quarant’anni la gestione delle risorse idriche cittadine. E non erano neanche il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o gli squadroni dell’esercito. Il vero nemico da vincere era la paura. La paura di ribellarsi, di finire schiacciati, di non poter essere all’altezza di una battaglia che sembrava impensabile e che sarebbe invece stata essenziale per il mondo intero.

Lo spazio e il tempo in cui si dispiegava, e dunque si rendeva visibile, quella ribellione è stato quello in cui un’intera città, in quegli anni la terza della Bolivia, ha scoperto la sua potenza, il potere di sconfiggere avversari talmente minacciosi che ci voleva un bel coraggio anche solo per nominarli. Non sarebbe accaduto, però, senza altri spazi e altri tempi, meno visibili ma più lunghi e profondi, in cui affondavano le radici e le ragioni della rivolta. Si tratta di quelli degli usos y costumbres di una gestione comunitaria dell’acqua che esisteva da secoli e che c’è ancora. Per comprenderne la portata e la natura, proviamo a fare un bel salto in lungo, fino a un giorno di febbraio del 2017. Arriviamo alla Escuela 21 de Septiembre, il giorno dell’equinozio di primavera nell’emisfero sud, che si trova a soli quaranta minuti dalla piazza centrale di Cochabamba, il luogo più simbolico delle battaglie di strada del Duemila. La campanella della ricreazione è suonata ma, nella città che ha vinto una “guerra”, i bambini non hanno acqua per bere né per lavarsi

Sono ben seicento figli e nipoti delle centinaia di migliaia di persone che hanno lottato diciassette anni prima, quando – per garantire i profitti del colosso statunitense Bechtel, dell’italiana Edison e della spagnola Abengoa, – si voleva impedire alla gente perfino di raccogliere l’acqua piovana.

Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono eterne. Eterna semmai, in una città cresciuta in una valle andina che ha sete da sempre, potrebbe essere la risonanza delle voci del passato di cui parlava Galeano, quando diventa lotta per difendere l’ispirazione e la sostanza della vittoria del Duemila. È stato così che nel febbraio scorso un piccolo gruppo di persone ha deciso di far da sé, recuperando la cultura che la “modernità” dei tubi, dei rubinetti e del cloro avevano provato a cancellare. L’acqua è infine arrivata alla scuola 21 de septiembre, è venuta dal cielo e ha una gestione comunitaria. Per costruire in un solo mese, e con le proprie mani, un sistema di raccolta dell’acqua piovana con due cisterne della capacità di 52mila litri ciascuna, i papà e le mamme, i maestri e le maestre – con l’aiuto generoso di qualche volontario, tra cui lo stesso Olivera -, hanno utilizzato i tetti e il campo sportivo. Hanno dovuto tener conto della media della piovosità, della topografia della zona e dello spazio disponibile. Sono stati giorni di lavoro molto duro ma anche di un ricco scambio di saperi, di profonda condivisione e di allegria. Soprattutto quando, durante le pause tra le lezioni, i bambini uscivano all’aperto e facevano un sacco di domande.

Da dove viene l’acqua?
A distanza di qualche mese, Oscar commenta quella piccola grande impresa così: «Vedi, magari sembrerà strano, ma io penso che una delle cose più importanti sia proprio il fatto che i bambini e gli insegnanti non hanno fatto ricorso ad alcun ente dello Stato. Dalle istituzioni, forse un giorno sarebbe anche potuta arrivare dell’acqua ma i ragazzini non avrebbero mai potuto conoscerne la provenienza». Sta tutta qui la diversità della relazione con le risorse naturali di certe cosmovisioni in cui ci si può ancora imbattere con frequenza, in particolar modo tra gli indigeni, nel continente sudamericano. A Napoli o a Los Angeles, difficilmente si darebbe un qualche rilievo al fatto di sapere da dove arriva l’acqua. Va da sé che la tentazione di considerarla una merce trova terreno fertile e meno resistenza. Abbiamo chiesto a Oscar chi è che oggi provvede a far funzionare le cose. «Della raccolta dalle cisterne e della distribuzione si occupa la custode della scuola, è molto facile farlo», ha detto. Con i suoi compagni, sta ancora istruendo la custode stessa e alcuni dei genitori sui piccoli lavori di manutenzione ma, «appena possibile, dobbiamo fare un corso anche con i bambini. Hanno tra i quattro e i dodici anni, devono poter cominciare a comprendere la visione andina dell’acqua, il suo essere un bene comune, il valore della reciprocità. Dobbiamo restituire loro non solo la possibilità di vivere dell’acqua ma di conviverci», precisa.

La mancanza dell’acqua alla scuola del quartiere Sivingani non è naturalmente un fatto isolato. A Cochabamba, quasi settecentomila abitanti, secondo stime del 2012, l’accesso alla fonte primaria della vita è tornato presto a essere non un diritto ma un privilegio per pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Già nel 2009 si rilevava che il Servizio municipale per l’acqua potabile e le fognature (SEMAPA) distribuiva acqua potabile solo alla metà della popolazione (54 per cento), quasi tutta residente nel centro e nel nord della città, dove vivono le persone più facoltose (Ledo, 2009). Gran parte della zona sud e dell’area più periferica del Dipartimento, il conurbano, vengono di fatto escluse quasi completamente dal servizio pubblico. Sono le aree abitate dalla gente povera, assai poco appetibili per il business delle costruzioni, quelle che subiscono anche i maggiori danni dai fenomeni climatici estremi, siccità e inondazioni, che anche a Cochabamba si sono intensificati in modo repentino negli ultimi anni. I pozzi si seccano, l’acqua diventa insalubre. E servono soldi.

Gli abitanti devono arrangiarsi da soli o ricorrere ai camion, che per lo più vendono acqua la cui qualità è molto dubbia a prezzi elevatissimi. Un ottimo articolo di Lucia Linsalata, realizzato per la campagna internazionale “Labradorxas de Agua”, lanciata nello scorso aprile, fornisce dati di grande interesse. Segnala, ad esempio, che nelle periferie urbane del sud di Cochabamba un metro cubo di acqua, né di qualità elevata né igienicamente sicura, arriva a costare tre dollari statunitensi. Nella zona nord, quella dove vive la classe cittadina media e alta, una famiglia che la riceve attraverso il Servizio municipale la paga sei volte meno. La gente del nord est, inoltre, paga in media per l’acqua appena l’1 per cento delle sue entrate, quella della zona sud il 10. Piuttosto sorprendente, no? Più si spende, meno acqua si ha: una famiglia media della zona sud, composta di sette-otto persone, ha accesso e consuma appena 120 litri di acqua al giorno, 30 in meno di quanti ne usa una sola persona delle zone residenziali del nordest e meno della metà del consumo medio pro capite in Italia: 245 litri al giorno, nel 2017, secondo l’Istat.

Oscar Olivera

Lo Stato come la Bechtel
Possibile che le istituzioni, proprio in una città cui, quando si parla di acqua, guarda tutto il mondo siano così latitanti? «Esistono i cosiddetti planes maestros ma sono stati progettati da tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la Bechtel nel Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta per conto dello Stato», è la risposta secca di Oscar. «La giunta cittadina, attraverso SEMAPA, continua a ingannare la popolazione con le promesse di un rifornimento che non arriva mai e le tariffe non tengono in alcun conto il consumo delle famiglie», aggiunge. Ad aggravare la situazione, c’è il fatto che in questo momento la giunta di Cochabamba è in mano alle forze politiche che si oppongono al governo nazionale di Evo Morales. «C’è un sabotaggio reciproco tra i partiti e, come sempre, a pagarne le conseguenze è la gente che soffre la sete da sessanta anni», conclude con amarezza.

Essendo stati testimoni diretti, in un viaggio in Bolivia di molti anni fa, della rottura dei rapporti con il presidente indigeno appena eletto, quando Olivera, il più prestigioso degli esponenti della Coordinadora del agua y de la vida di Cochabamba, fu uno dei pochissimi leader delle lotte a sottrarsi alla cooptazione governativa, non possiamo esimerci dal chiedergli un aggiornamento del giudizio sulle politiche per l’acqua del governo Morales. La risposta è ancora durissima: «Il governo di Evo è stato quasi ‘partorito’ dalla Guerra dell’Acqua. Se la nostra ribellione popolare non avesse vinto contro le multinazionali, non credo che Morales e il MAS sarebbero andati al governo nel 2006. Purtroppo, abbiamo dovuto capire subito che avrebbe voltato le spalle alla gente, per quel riguarda l’acqua, ignorando l’Agenda che avevamo presentato alla fine del 2005. Questo governo ha abbandonato le imprese pubbliche e i sistemi comunitari, l’acqua non arriva a pesare nemmeno per il 2 per cento sul bilancio dello Stato. Tutto quel che si sta facendo adesso è finanziato dalla cosiddetta “cooperazione internazionale”, che dona sì milioni di euro e dollari ma i piani e le soluzioni sono stabiliti solo dal governo e dalla burocrazia della cooperazione. Non esiste alcuna possibilità di partecipazione della popolazione all’elaborazione di quei piani».

Abbandonati dallo Stato, e ripetutamente delusi dalle promesse di estensione della rete idrica municipale da parte di SEMAPA, gli abitanti della zona Sud ancora una volta non hanno scelta. La sola via per portare l’acqua nelle loro case, tutelare la salute delle famiglie e migliorarne le già molto precarie condizioni di vita, ribadendo insieme il diritto ad affermare la propria dignità, è auto-organizzarsi. Una pratica comunitaria molto radicata nella tradizione delle culture contadine indigene andine ma anche in quella dei tanti ex minatori migrati nella regione cochabambina alla ricerca di un clima e di una terra meno duri di quelli di altre zone della Bolivia. Così, da oltre vent’anni, in quest’area marginalizzata di una valle tutt’altro che verde, tra mille e una difficoltà, si scavano tenacemente pozzi e si cercano finanziamenti per farlo, si mettono insieme le piccole somme disponibili e le immense fatiche di un lavoro collettivo. Spesso il lavoro è gestito con turni obbligatori ma logica è quella del bene comune e della cooperazione. In questo senso, il lavoro astratto di tipo capitalista è veramente lontano. Così come, malgrado le difficoltà e le contraddizioni non manchino, si può tranquillamente affermare che nei sistemi comunitari l’acqua sia ben lontana dall’essere considerata una merce.

Centinaia di sistemi comunitari
Aiuta molto, come abbiamo visto nel caso della scuola, la capacità di recuperare antiche conoscenze e saperi organizzativi che non si sono mai perduti a queste latitudini. Non solo, stiamo parlando di popolazioni segnate spesso da una significativa storia di autonomia politica, anche nella gestione e nella distribuzione delle poche risorse disponibili. È questa la ricetta essenziale che ha fatto del sistema comunitario della zona sud di Cochabamba una delle esperienze più rilevanti di gestione dell’acqua in territori urbani a livello planetario. Una gestione comune, molto differente sia da quelle statali che da quelle private, che però difficilmente si può definire un modello, vista la complessità e la varietà di situazioni diverse che riesce a far convivere. Secondo la rilevazione di Labradorxs de Agua, sono almeno duecento i sistemi che compongono la rete delle zona Sud, alcuni raccolgono poche decine di famiglie, altri ne contano quasi mille. Tutti fanno tesoro, in un modo o in un altro, delle conoscenze pratiche derivanti dagli usos y costumbres locali della valle cochabambina. A quei duecento sistemi, peraltro, ne vanno aggiunti quasi altrettanti censiti nelle aree periurbane (Tiquipaya, Sacaba, Colcapiruha, Quillacollo) e un ulteriore numero, imprecisabile ma certo largamente superiore, disperso nelle aree rurali più distanti dalla città di Cochabamba.

Abbiamo usato il verbo “disperdere” non in modo casuale. Per approfondire un concetto complesso quanto interessante, essenziale alla comprensione della relazione tra potere, politica e vita quotidiana in diverse zone della Bolivia, rimandiamo a “Disperdere il potere”, (Zibechi, 2007), grande racconto della “Guerra del Gas” di El Alto, capitale aymara, cresciuta fino a 900 mila abitanti ai margini settentrionali di La Paz. Qui, ci limitiamo a segnalare che, malgrado l’infinita varietà della trama di esperienze comunitarie che si è disegnata nei secoli nel territorio che oggi si chiama “Bolivia”, ciò che le unisce davvero, insieme a forme molto originali di legame tra le persone, restano la tendenza all’auto-gestione e al controllo esercitati spesso senza deleghe dalla stessa popolazione. D’altra parte, per chi non resistesse alla tentazione di uno sguardo tanto “europeo” da sfiorare la prospettiva di una nuova colonialità, per poi giungere a frettolose conclusioni tendenti a incasellare la realtà comunitaria di cui si parla come un esempio di “esperienze minoritarie”, sarà utile ricordare qualche altro numero. Secondo la Rivista Aqua Vitae, n.12 del 2010, in undici paesi dell’América Latina sono stati censiti oltre 50 mila sistemi comunitari che provvedono all’accesso all’acqua per oltre 30 milioni di persone. Dai 16 mila della Colombia (ne usufruiscono 12 milioni di persone) ai 1.456 del Cile (un milione e mezzo i beneficiari), dai 12 mila del Perù (oltre 8 milioni di persone) ai 2.500 del Paraguay (1.200.000 persone). In Bolivia il censimento si ferma a 4.500 sistemi (con 2.250.000 abitanti coinvolti).

Numeri significativi a scala continentale che, naturalmente, non raccontano la complessità di situazioni tanto diversificate e quasi sempre esposte a grandi fragilità derivanti dalle inevitabili contraddizioni interne e dalle grandi pressioni esterne esercitate dalle economie e dalle politiche degli Stati in cui si trovano. Per quel riguarda la stessa Cochabamba, Olivera non è ottimista sul futuro immediato: «Buona parte della popolazione è in questo momento troppo frammentata e disorganizzata, così finisce per subire la subordinazione all’apparato dello Stato. Non è immaginabile a tempi brevi la riproposizione di un tentativo di imporre un’agenda dal basso. Però la gente resta indignata per le ingiustizie e per la mancanza d’acqua. Verrà un momento di articolazione rapida e forte che certamente darà vita a un nuovo poderoso movimento. I piccoli spazi che restano aperti in alcune comunità e in altre esperienze come la scuola di cui abbiamo parlato riveleranno allora tutta l’importanza strategica necessaria alla nuova ribellione che saprà crescere. La gente tornerà a prendere decisioni e deciderà di lottare».


Chi decide? Le istituzioni costituenti o i processi della vita di ogni giorno?
Il tema delle decisioni, così rilevante nell’auspicio espresso da Oscar, contiene una delle domande chiave sulla gestione comunitaria dell’acqua: dove si prendono le decisioni? Per chiunque abbia una qualche esperienza di partecipazione ai movimenti sociali, la risposta sale alle labbra quasi spontanea: in assemblea. Filemón Escobar, ex presidente dell’Associazione Agua 22 de Abril, venuto a mancare nel giugno scorso, dopo essere stato anche uno storico leader sindacale dei minatori e un esponente politico di grande rilevanza sulla scena politica boliviana (è stato a lungo anche mentore politico di Evo Morales), aveva le idee molto chiare: “Un’associazione comunitaria è un’organizzazione dove la popolazione, riunita in assemblea, è la massima autorità”. Certo, l’assemblea è non solo lo spazio pubblico in cui un sistema comunitario dell’acqua nasce, ma anche quello in cui si definiscono i termini, le tariffe da pagare e gli accordi di gestione, insomma le “regole” stesse del sistema.
Eppure, anche in questo caso, non sembra superfluo segnalare che a Cochabamba le regole di funzionamento variano da assemblea ad assemblea e da quartiere a quartiere. Una nuova testimonianza di quanto possa essere improprio parlare di modelli. Non solo. La rilevante questione dei “momenti decisionali” offre forse lo spunto per un invito a non concentrare l’attenzione nel disegno delle “istituzioni costituenti” comunitarie, definizione già in sé piuttosto avventurosa, ma a tenere uno sguardo aperto sulle diverse esperienze di lotta quotidiana. Lotte “genuinamente” auto-prodotte tra mille imprevedibili avversità, ma spesso capaci di costruire e consolidare relazioni sociali diverse tra uomini e donne per soddisfare le differenti necessità di riproduzione collettiva della vita. In altre parole, la comunità non si istituisce, né si sancisce in un dato evento o momento formale. Non si fonda come una società o un’associazione ma è il risultato di un lungo processo di scelte e decisioni, individuali e collettive, per garantire l’accesso comune a quel che desideriamo o di cui abbiamo bisogno. L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci del passato che parlano al futuro, è la prima materia di cui abbiamo bisogno, per fortuna la più abbondante che c’è nel pianeta, una materia viva che possiamo desiderare ma non possedere. E men che mai vendere. L’acqua è la comunità, la vita insieme.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E WEB
Roberto Roversi (1995). Versi tratti da Poetare d’Acqua. Centro Antartide, Bologna
Galeano Eduardo (2010). Carta leída en la ceremonia de apertura de la Conferencia Mundial de los Pueblos sobre el Cambio Climático y los Derechos de la Madre Tierra.
Oscar Olivera, Raquel Gutierrez e altri (2008). Nosotros somos la Coordinadora Fundacion Abril. Cochabamba
Ledo Carmen (2009), El agua es nuestra de cada dia. Retos e iniciativas de una Cochabamba incluyente y solidaria UMSS-CE-PLAG, Bolivia
Linsalata Lucia (2017), Agua en común. Labradorxs de Agua. Fundación Abril, Cochabamba
Zibechi Raúl (2007). Disperdere il potere. Carta-IntraMoenia Roma-Napoli



*Questo articolo fa parte del 15° Rapporto sui Diritti globali Apocalisse umanitaria (Ediesse).

giovedì 22 febbraio 2018

Messico - Conclusa la raccolta di firme per le Presidenziali

María de Jesús Patricio ed il CIG: cosa è stato ottenuto. 

di  R. Aída Hernández Castillo*

Il 19 febbraio si è chiuso il termine per la registrazione dei candidati indipendenti alla Presidenza della Repubblica. Solo tre candidati “indipendenti” sono stati registrati, e tutti tre spendendo giornalmente come o più dei candidati dei partiti politici. 

María de Jesús Patricio, portavoce del Consiglio Indigeno di Governo (CIG) non è riuscita a raccogliere il numero di firme nei 17 stati come richiesto dal sistema elettorale per essere candidata indipendente. Fin dal principio sapevamo che sarebbe stata una battaglia impari su un terreno profondamente marcato dalle disuguaglianze che caratterizzano il nostro paese. 

Mentre Jaime Rodríguez Calderón, El Bronco, per raccogliere le firme spendeva 58 mila pesos al giorno e contava su tutto l’apparato istituzionale del governo dello stato di Nuevo León, María de Jesús Patricio spendeva 860 pesos condivisi con i consiglieri e le consigliere che viaggiavano con lei. Durante tutto il processo sono state affrontate le barriere tecnologiche: la richiesta di un cellulare moderno che permettesse di scaricare l’applicazione per raccogliere le firme, la connettività Internet richiesta, il denaro per la mobilità degli ausiliari; ogni passo rappresentava la lotta contro le disuguaglianze e le esclusioni che Marichuy ed il CIG denunciano.

Devo riconoscere che come membro della Asociación por el Florecimiento de los Pueblos AC che la sostiene, mi sento frustrata per non essere riuscita a superare tutte queste barriere e non avere potuto fare di più per smuovere le coscienze di questo paese intorno all'urgenza di cambiamenti profondi. Questo sentimento si acutizza perché il 19 febbraio mi trovo ad Ahome, territorio yoreme, dove la violenza del crimine organizzato colluso con le forze dell’ordine ha trasformato lo stato di Sinaloa in una grande fossa comune. 
Le testimonianze delle madri dei desaparecidos ci ricordano per l’ennesima volta che ci troviamo in un momento di emergenza nazionale che non si risolve con “corsi di formazione” o “modernizzazioni istituzionali”. 

Vogliamo un cambiamento profondo che nessuno dei candidati che appariranno sulle schede elettorali è disposto a fare.

Il paese è piagato di Ayotzinapa anonime dove le forze dell’ordine colluse col crimine organizzato stanno perpetrando un massacro di giovani sotto i nostri occhi e con la complicità del nostro silenzio. Gli studenti di Conalep massacrati a Juan José Ríos per non aver rispettato il coprifuoco stabilito dal crimine organizzato che controlla l’ejido più grande del Messico; il giovane yoreme studente dell’Università Interculturale di Sinaloa il cui corpo è stato ritrovato in una fossa clandestina a Capomos; i 117 corpi scoperti dalle Buscadoras [Cercatrici – N.d.T.], madri di desaparecidos che con pale e picconi cercano i loro “tesori”, non sembrano suscitare più marce né proteste. Ci siamo abituati a questa politica di morte.

Parallelamente, María de Jesús Patricio percorre il paese per parlare e promuovere una politica di vita. Quando sono invasa dalla disperazione per non essere riuscita a raccogliere le 866 mila firme richieste, penso a quello che si è ottenuto. Nelle sue visite a 126 località in 27 stati della Repubblica Messicana, María de Jesús ed i compagni del Consiglio Indigeno di Governo hanno portato un messaggio di rispetto per la vita ed articolato sforzi organizzativi in difesa della madre terra e contro questi politici dello sviluppo che ci stanno ammazzando tutti, qualcuno in maniera più rapida di altri.

Nel suo percorso ha visitato comunità indigene in resistenza in tutto il paese, comunità e lotte ignorate dagli altri candidati. Ha incontrato le organizzazioni dei popoli totonaco che si oppongono ai megaprogetti di gas fracking in Veracruz; a Texcoco le comunità della valle di México che lottano contro la costruzione del nuovo aeroporto che colpirà non solo i loro terreni agricoli, ma i manti freatici che forniscono acqua a Città del Messico; a Ciudad Neza la sua voce si è unita a quella delle organizzazioni che denunciano i femminicidi e le molteplici violenze contro le donne; in Chiapas ha denunciato la violenza paramilitare che attenta all'autonomia indigena. L’obiettivo principale della sua campagna è stato, e continuerà ad essere, quello di articolare le nostre lotte e costruire alternative di vita dal basso, a partire dal rispetto per la madre terra e la dignità dei popoli.

Il suo appello è stato per difendere la vita e il territorio dalle politiche di morte e riprendere i valori comunitari e le esperienze di resistenza dei popoli indigeni. 

Nel suo discorso a Totonacapan ha detto: “I capitalisti ci vogliono far credere che il nostro territorio sono le migliaia di pozzi petroliferi, le decine di concessioni minerarie, le donne assassinate, le ed i desaparecidos. Ma noi sappiamo che non è così, perché la violenza, la deforestazione, le alte tariffe di luce e acqua, il controllo dell’acqua da parte dei cacicchi regionali e nemmeno i megaprogetti estrattivi sono il territorio indigeno di Veracruz. I nostri territori sono le lingue originarie, le culture ancestrali, le nostre resistenze, l’organizzazione comunitaria che ci invita a non venderci, a non arrendersi né cedere, a non dimenticarci dell’eredità dei nostri antenati, che ci invita ad organizzarci e a governarci esercitando quello che decidiamo collettivamente”.

Lasciando da parte che le regole imposte dall’alto non gli permettono di essere sulla scheda elettorale, il suo appello a non cedere, a continuare ad organizzarci e difendere la vita e il territorio è vigente. Proseguiamo dunque in questa nuova tappa di resistenza. Andiamo avanti.

*Ricercatrice del Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropología Social

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

Fonte: La Jornada

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!