martedì 30 ottobre 2018

Messico - Comunicato congiunto del CNI, CIG ed EZLN


Comunicato congiunto del Congresso Nazionale Indigeno, Consiglio Indigeno di Governo e Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale contro il megaprogett del Nuovo Aeroporto Internazionale del Messico (NAIM) ed in appoggio e solidarietà con le popolazioni migranti.

26 ottobre 2018

Al Popolo del Messico
Ai popoli del Mondo
Alla Sexta Nazionale ed Internazionale
Alle reti di appoggio al CIG
Ai mezzi di comunicazione

Noi popoli, nazioni, tribù e barrios del Congresso Nazionale Indigeno ed EZLN, ci rivolgiamo con rispetto al popolo del Messico ed ai popoli originari e contadini che degnamente si oppongono al megaprogetto di morte che chiamano Nuovo Aeroporto Internazionale del Messico (NAIM), i quali senza arrendersi, senza vendersi, né cedere, non hanno lasciato cadere la speranza, che è la luce per la quale sogniamo e costruiamo la giustizia.

La nostra parola va rispettosamente anche a coloro che sono obbligati a cercare in altri suoli quello che gli hanno strappato nelle loro geografie; a coloro che migrano alla ricerca di vita, e a coloro che li appoggiano disinteressatamente con i propri mezzi, tempi e modi.
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Abbiamo visto, seguito e vissuto da vicino la lotta delle comunità del lago di Texcoco e dintorni. Abbiamo visto la loro determinazione, la loro dignità ed il loro dolore che sono stati anche nostri. Non dimentichiamo la repressione di maggio del 2006, la tortura sessuale, l’ingiusto incarceramento dei compagni e delle compagne del Fronte dei Popoli in Difesa della Terra e della Sexta nazionale e internazionale; così come l’omicidio del nostro compagno Ollin Alexis Benhumea e del giovane Francisco Javier Cortés Santiago; repressione ordinata allora da Vicente Fox ed Enrique Peña Nieto, con l’avallo ed il plauso di tutto lo spettro politico di sopra, compreso chi oggi si presenta come “il cambiamento”.

Oggi, senza alcuna considerazione per i nostri diritti come popoli originari, i malgoverni dicono di consultare i messicani per sapere se preferiscono l’aeroporto nel Lago di Texcoco o a Santa Lucía, ma noi pensiamo che entrambe le soluzioni portano alla depredazione dei territori circostanti, alla devastazione ambientale, alla mercificazione della vita comunitaria dalla loro cosiddetta aerotropolis. Entrambe portano a fare del nostro paese il pezzo necessario che permetta il libero flusso al capitale transnazionale che faciliti l’entrata e l’uscita delle merci, lo sfruttamento di tutto quanto abbiamo a beneficio di pochi. Ognuna delle due opzioni sono dirette ad appoggiare la morte che minaccia l’umanità. Ossia, appoggiare il capitalismo neoliberale come boia dei nostri popoli.

venerdì 26 ottobre 2018

Centro America - La Carovana partita dall’Honduras nel suo viaggio in Messico




Cosa spinge migliaia di cittadini honduregni, guatemaltechi e salvadoregni a lasciare i loro paesi d’origine per cercare di arrivare negli Stati Uniti?



Sono migliaia i profughi che, a partire dal 13 ottobre scorso, si sono riversati nelle strade di San Pedro Sula (Honduras) nella speranza di raggiungere il Nord America. Nel percorso si sono aggiunti guatemaltechi e salvadoregni, che hanno colto l’occasione di questa grande Carovana, con la “C” maiuscola come scrive il giornalista di El Faro Sebastián Escalón, per provare ad entrare negli Stati Uniti.

Partita dalla seconda città honduregna per popolazione, dopo la capitale Tegucigalpa, la Carovana ha attraversato Città del Guatemala e Tecún Umán sotto la pioggia ed il sole, dormendo per la strada e mangiando ciò che gli abitanti guatemaltechi decidevano di offrire loro.


Come spiegano i giovani che scelgono di concedere interviste ai giornalisti locali e stranieri, a differenza dei migranti, che cercano di passare inosservati, la volontà questa volta è quella di farsi notare così da poter raccontare e far conoscere la situazione.

La fuga acquista quindi un significato ancor maggiore: una vera e propria manifestazione collettiva.
Lo urlano in slogan le migliaia di persone che ne fanno parte: “Non si può vivere se si è poveri in America Centrale!”

Avanzano insieme donne e uomini, giovani ed anziani, con passo deciso.
Marciano verso la terra del vecchio “sogno americano”. 


È la forza della massa che muove le oltre settemila persone in marcia.

Si lasciano alle spalle disoccupazione, violenze, povertà e conflitti civili che da anni insanguinano i paesi d’origine. 

Marciano nella speranza di migliorare il proprio futuro, andando proprio verso quel modello di società che, negli anni, ha causato impoverimento, violenze e repressione in tutta l’America centro-meridionale.


La carovana si trova ora in Chiapas, ed attraverso i reportage di Radio Zapatista possiamo seguire il lento avanzare attraverso il primo stato messicano dalla frontiera.



DA DOVE VENGONO LE DONNE E UOMINI DI OGNI ETA’ CHE COMPONGONO LA CAROVANA?

Con il crollo dei cartelli colombiani degli anni 2000 la produzione di droghe dirette negli Stati Uniti si è spostata verso nord, in Messico ma non solo.
Uno spostamento che ha segnato in profondità quello che viene chiamato "centroamerica".

I profitti delle narcotraffico, garantiti dall’ipocrisia del proibizionismo ed in mano a poteri legali ed illegali, producono un’immensa quantità di denaro, che finisce nei scintillanti palazzi della finanza globale, devastando con la violenza del controllo del territorio intere comunità.
Una guerra non dichiarata che assieme ad una situazione economica e sociale drammatica ha creato un clima invivibile che, spesso, non viene raccontato.


In una sistema di comunicazione dove la semplificazione la fa da padrona è importante analizzare le diverse, e più specifiche, cause territoriali che hanno portato migliaia di persone a riversarsi nei territori messicani al di là del ponte Rodolfo Robles, verso Ciudad Hidalgo.




DONNE E UOMINI HONDUREGNI
A partire da chi compone in maniera numericamente maggiore la marcia troviamo cittadini honduregni che scappano da cause che hanno radici profonde, legate alla povertà e alle disuguaglianze endemiche nel paese, assieme all’attuale crisi politica del governo di Juan Orlando Hernández.

Brasile - Le comunità quilombas in lotta contro una seconda schiavitù



Durante gli anni della schiavitù americana a migliaia furono deportati da diverse zone dell’Africa per lavorare nelle piantagioni e nelle industrie della zona del Salvador. Tre milioni furono gli africani impiegati dagli schiavisti brasiliani: per ogni schiavo che arrivava in Nord America, dodici erano pronti a sbarcare nei porti brasiliani. Col tempo questi ultimi, nonostante le le logiche schiaviste volte ad evitare la formazione di piccole comunità nelle riserve, hanno costituito la nervatura del sistema di lavoro delle colonie e, in termini demografici, sono andati a costituire circa la metà della popolazione in loco.
Le condizioni erano durissime, i tassi di mortalità incredibilmente alti. Si trattava di luoghi inaccessibili ai colonizzatori bianchi, dove i fuggitivi vivevano di sussistenza, replicando usanze e riti ereditati dal passato africano.
Questo fino al 13 maggio 1988, quando in Brasile venne formalmente abolita la schiavitù, ma per le comunità di schiavi originari dell’Africa questa data rappresenta solo l’inizio di una seconda segregazione.
Dal 14 maggio per loro non c’è stato un piano di politiche pubbliche integrative, nessun livello di sanità garantito, niente cibo. Tutto ciò fino al 2002 quando il Presidente Lula avviò, attraverso il decreto 48/87, la procedura di riconoscimento delle comunità nel Paese. Nati dagli schiavi che fuggivano dalle proprietà dei negrieri i quilombas ad oggi riconosciuti in Brasile sono circa 5mila. Distribuiti su tutto il Paese, ma prevalentemente organizzati nella zona del Rio Paraguacu (Salvador), i quilombas incontrano ancora oggi numerose difficoltà.
La prima, secondo il difensore dei diritti umani Ananias Vian, è il mancato riconoscimento della storia di queste comunità che non viene menzionata nei libri scolastici, scritti con visione eurocentrica e colonizzatrice. Proprio per questo è stato avviato un progetto per la realizzazione collettiva di un testo paradidattico che riconosca la storia delle comunità afro. Il libro si chiama Rapporto antropologico di contestualizzazione storica e geografica della comunità ed è stato scritto nell’ultimo anno da una squadra di antropologi, storici e geografi per ricostruire l’origine e lo sviluppo di questa comunità antica e in attesa di riconoscimento.
Questo è lo strumento che ci permetterà di ottenere quanto ci spetta di diritto, è il primo passo di una strada che dobbiamo continuare a percorrere insieme
Una sorta di carta d’identità, tappa fondamentale per vedere certificati la propria esistenza e soprattutto l’accesso alla terra che il gruppo rivendica.
In loco, infatti, la cultura afrobrasiliana non solo non viene riconosciuta, ma viene anche apertamente messa al bando dalle numerose comunità religiose di evangelisti presenti nella zona che arrivano a bollare come culti diabolici le tradizioni locali.
Come spiega Leonardo di Blanda di COSPE Brasil, onlus attiva localmente con diversi progetti, i problemi non si esauriscono sul piano culturale, ma si manifestano trasversalmente su tutti gli aspetti della vita dei quilombas, a partire dalle terre su cui questi vivono.
Con l’abolizione della schiavitù le comunità afrobrasiliane si sono trovate a vivere dove prima venivano sfruttate, senza nessun documento di passaggio di proprietà. I quilombas hanno quindi nel tempo avviato dei processi di autocertifiazione molto lunghi ed onerosi che vengono spesso ostacolati dal fenomeno dei grilleiros, persone che rivendicano con titoli fittizi la proprietà sulle terre, il più delle volte parenti dei vecchi schiavisti della zona.

mercoledì 24 ottobre 2018

Brasile - L'urgenza di cercare nuove strade

Ele Nao, femministe manifestano contro Bolsonaro. Foto Medium
di Raúl Zibechi

La schiacciante votazione che ha ricevuto Jair Bolsonaro al primo turno delle elezioni brasiliane, che lo colloca alle porte della presidenza, è però una buona opportunità affinché, come persone di sinistra, riflettiamo sulla necessità di percorrere nuove strade. Non basta, pertanto, limitarsi a denunciare quello che già sappiamo: il carattere militarista, autoritario e di ultra-destra del candidato. È necessario spiegare perché mezzo paese lo vota e che implicazioni comporta per il progetto di emancipazione.

Il Brasile vive una profonda frattura di classe, di genere e di colore della pelle che si manifesta in maniera nitida nei partiti della destra, i quali hanno delineato i loro obiettivi in modo chiaro e trasparente: vogliono installare una dittatura mantenendo il sistema elettorale. La sinistra crede in una democrazia inesistente, basata su una impossibile conciliazione delle classi. Se Bolsonaro è fascista, come dicono il PT e i suoi intellettuali, dobbiamo ricordare che non è mai stato possibile sconfiggere il fascismo, votando. È necessaria un’altra strategia.

L’altra è la frattura geografica: un paese diviso tra un sud ricco e bianco e un nord povero e nero/meticcio. Il fatto curioso è che tanto il PT che i principali movimenti sociali sono nati nel sud, dove hanno avuto alcuni governi statali e municipali. Quella regione è adesso l’epicentro della profonda svolta a destra, con chiaro contenuto razzista e machista.

Dobbiamo spiegarci le ragioni per le quali le élite e le classi medie abbienti hanno prodotto questa fenomenale svolta, disertando dal loro partito preferito, la socialdemocrazia di Fernando Henrique Cardoso, per Bolsonaro. Hanno abbandonato la democrazia e conservano appena le elezioni, come maschera della dominazione.

La ragione principale la spiega in una interessante intervista il filosofo Vladimir Safatle. “Il Brasile arriva al 2018 con due delle sue maggiori imprese che sono pubbliche, così come due delle maggiori banche. Per di più, con un sistema sanitario che copre 207 milioni di persone, gratuito e universale, qualcosa che non possiede alcun paese con più di 100 milioni di abitanti”. Safatle aggiunge che le università non sono solo per le ricche minoranze  e conclude che “il Brasile arriva ai nostri giorni in una situazione molto atipica dal punto di vista del neoliberalismo”.

L’autoritarismo è il modo per imporre l’agenda necessaria al sistema finanziario, all’agro-business e alle compagnie minerarie affinché possano continuare ad accumulare ricchezza in un periodo di crisi sistemica. Non lo possono fare senza reprimere i settori popolari e criminalizzare i loro movimenti. Per questo Bolsonaro convoca i militari e la polizia e si permette di minacciare l’attivismo sociale, con modi molto simili a quelli della ministra della Sicurezza argentina Patricia Bullrich, che accusa i movimenti sociali di mantenere rapporti “molto stretti” con il narcotraffico, quando tutti sappiamo che è la polizia quella che lo protegge.

Il razzismo, la violenza anti-LGBT e l’odio verso la sinistra da parte delle classi medie brasiliane, mostrano il volto occulto del paese con la maggiore disuguaglianza del mondo. Non vogliono perdere i propri privilegi di colore, di genere, di posizione geografica e di classe. Poco gli importa che vengano assassinate più di 60 mila persone ogni anno, nella stragrande maggioranza giovani, neri, poveri, perché sanno che quello è il prezzo per mantenere i loro privilegi.

Marielle Franco, una delle principali voci di opposizione all’occupazione militare di Rio assassinata nel marzo di quest’anno. Foto Resumen.cl
Davanti a questo scenario, le sinistre non devono continuare ad aggrapparsi a una strategia che è stata delineata per altri tempi, quando il dialogo di classe era ancora possibile. Nel precedente mezzo secolo siamo passati dalla strategia della lotta armata alla strategia puramente elettorale. Entrambe hanno in comune l’obiettivo di prendere il potere e concentrano tutte le loro batterie in quella direzione.

martedì 23 ottobre 2018

Germania - Hambi (fo)Resta! Villaggi sospesi, pipistrelli e carboni ardenti



di Liza Candidi

Fra le notizie passate ingiustamente sottotono ce n’è una che dovrebbe renderci euforici. Per la sua portata, ma anche per il significato che ha per tutte le mobilitazioni che paiono condannate a inevitabile disfatta.

Nella Renania tedesca, lo scorso 6 ottobre, una fiumana di 50mila tra attivisti e cittadini – sfidando un’imponente e violenta operazione di sgombero da parte della polizia – è riuscita a impedire il disboscamento di una foresta di dodicimila anni, ponendo un primo blocco alle attività estrattive di carbone che fanno della zona uno dei distretti industriali più inquinati d’Europa.

È una conquista strappata sul campo grazie a un agguerrito gruppo di ambientalisti (Ende Gelände) che da sei anni occupa l’Hambacher Forst, l’antica foresta che negli scorsi decenni è stata quasi integralmente distrutta dall’industria estrattiva gestita dal colosso energetico RWE.
Ora rimane solo il 9% della sua estensione originaria, 200 ettari circondati da un’area desertica, la più estesa miniera di lignite del continente, responsabile da sola dell’emissione di un terzo di anidride carbonica dell’intera Germania­­­­­.

Un paesaggio lunare che continua a espandersi, nonostante il vertice di Parigi sul clima abbia ammesso che solo una significativa riduzione dei combustibili fossili può evitare l’aumento di temperature superiore alla soglia critica di 1,5°C.
Mentre l’apposita commissione per il carbone, istituita dal governo Merkel, continua ad occuparsi di progetti meramente speculativi di “greenwashing” in vista della transizione energetica del 2035, le enormi escavatrici ampliano il raggio d’estrazione, deforestano e fanno perfino dislocare villaggi.

Il potere contrattuale della RWE infatti è tale da pagare gli abitanti perché si spostino altrove, disgregando comunità e impedendo attività agricole a causa delle falde contaminate.
Per difendere l’ultimo polmone verde della zona chiedendo la dismissione immediata dell’energia fossile, nel 2012 gli occupanti dell’Hambacher Forst iniziano a costruire case sugli alberi e ponti sospesi, dedicando a querce e faggi nomi di villaggi aerei, come Oaktown o Beechtown. Costruiscono capanne termoisolate, alimentate ad energia solare ed eolica, e dotate di connessione internet, con cui svolgono attività politica direttamente dalla foresta.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!