mercoledì 25 febbraio 2009

Il piccolo Ahmad si risveglia cieco dopo dodici giorni di coma


Gaza – Infopal. Come sono stati difficili i giorni che il piccolo Ahmad ha passato nel reparto di cure intensive all’ospedale al-Shifa! I medici che lo hanno curato per 12 giorni lo davano per cerebralmente morto, ma si è risvegliato, senza che i suoi occhi, spenti dalle pallottole israeliane durante il massacro di Gaza, tornassero a vedere.
Una pallottola. Ahmad non immaginava che alla sua età non avrebbe potuto più giocare con i suoi amici. Il padre del bambino racconta: “A mio figlio piaceva uscire a giocare. Durante l’aggressione di Gaza doveva restare in casa. Dopo tante suppliche gli ho dato il permesso di uscire, chiedendogli di non far tardi. Era il giorno del ritiro israeliano dopo il massacro. Non potevo sapere che quelle poche ore di svago sarebbero costate così tanto. Mio figlio è stato colpito alla testa da una pallottola sparata dai soldati israeliani, e si è accasciato a terra, sanguinante. Subito, gli altri bambini avevano pensato che fosse stato colpito da un sasso”.
Il padre rimane qualche istante in silenzio per poi continuare il suo racconto: “L’ho portato prima dal medico, ma appena saputo che non si trattava di un sasso ma di una pallottola, l’ho subito accompagnato all’ospedale al-Shifa. Era in coma e vi è rimasto per dodici giorni, in cui è stato sottoposto a terapia intensiva. I medici non sono riusciti a estrarre la pallottola dalla sua testa”. Pareva ormai che non ci fossero più speranze per la guarigione del piccolo Ahmad.
Il padre continua a raccontare: “Dopo 12 giorni di morte clinica, i medici hanno detto di non poter fare più nulla per lui e che avrebbero sospeso l’anestesia. E qui è successo il miracolo: si è svegliato dal coma senza danni al cervello né al corpo, ma aveva perso totalmente la vista”.
Il piccolo Ahmad ora riconosce le persone intorno a lui dalla voce; qualche volta è nervoso e non vuole avere a che fare con nessuno. Faceva la prima elementare e amava molto la scuola e i suoi amici. Diverse volte aveva detto a suo padre: “Papà, sono stufo della guerra, voglio tornare a scuola e giocare con gli amici, basta guerra!”.

martedì 24 febbraio 2009

Grecia, esplode la crisi


di Christian Elia, PeaceReporter

Maggioranza e opposizione tentano un accordo nazionale per contenere gli effetti della crisi economica e della tensione sociale. Con il fantasma del terrorismo

Resteranno chiusi in una stanza fino a quando non troveranno un accordo. Il premier greco Costas Karamanlis, dopo aver passato mesi a ridimensionare la rabbia sociale che attraversa il Paese, ha oggi invitato l’opposizione guidata dai socialisti del Pasok per trovare un accordo istituzionale che permetta alla Grecia di tornare a respirare.

Vertice istituzionale. Giorgio Papacostantinou, portavoce del Pasok, ha commentato positivamente l’apertura del premier, garantendo la partecipazione del Pasok al tavolo di emergenza, ma mantenendo ’’molte e grandi riserve’’ sulla politica economica del governo. L’annuncio di Karamanlis, infatti, arriva due giorni dopo l’annuncio dell’Ue di imminenti procedure disciplinari nei confronti dei paesi che stanno sfondando il 3 percento del deficit di bilancio. Una procedura che toglie uno dei pochi strumenti per tentare di sostenere l’economia. Tra loro anche la Grecia. La crisi economica, che non è solo nel Paese ellenico, colpisce in particolare le economie più deboli e, a differenza che altrove, in Grecia sta comportando un’ondata di rabbia popolare senza precedenti. I sondaggi, da qualche mese, danno in vantaggio il Pasok che chiede da tempo elezioni anticipate. Nei giorni scorsi i toni erano diventati roventi. ’’Atene, ormai, è come Kabul o Baghdad’’, ha dichiarato venerdì scorso Michalis Chrysochoidis, ex ministro socialista degli Interni. Magari un’esagerazione a fini elettorali, ma la realtà degli ultimi mesi in Grecia è davvero pesante. Il Pasok, però, si è reso conto che non può approfittare oltre misura delle difficoltà del governo, perché l’elettorato medio comincia a essere impaurito e partecipare al tavolo di emergenza nazionale é un sintomo di maturità. Ma che succede tutt’attorno ai palazzi del potere?

Crisi di sistema. Lo sciopero dei camionisti, che da due giorni paralizzano i principali porti greci, è solo l’ultimo di una serie di grandi scioperi nazionali. Gli autotrasportatori chiedono una politica efficace dell’esecutivo nei confronti dell’immigrazione illegale, che ha nella Grecia una delle porte privilegiate d’ingresso in Europa, e delle merci contraffatte. Negli ultimi mesi si sono astenuti dal lavoro, nell’ordine, i medici, gli insegnanti, i pescatori, i portuali e i contadini. A questo si sono aggiunti gli studenti, rabbiosi dopo l’assassinio da parte della polizia di un uno di loro ad Atene, Alexis Grigoropulos, e i detenuti che protestavano per le disastrose condizioni dei penitenziari. Tutti gli scioperi si sono caratterizzati per un elevato livello di scontro con le forze dell’ordine e contro il governo. Il timore più grande, però, è che questa rabbia non trovi più i tradizionali canali di controllo, come partiti e sindacati. Solo la settimana scorsa ci sono stati altri due attentati ad Atene. Bombe contro un’emittente televisiva e contro una banca. La matrice degli attacchi, secondo gli inquirenti, è di stampo anarchico. Il gruppo indiziato, che non ha però rivendicato le azioni, è la Setta dei Rivoluzionari, che ha recentemente minacciato i giornalisti in quanto ’’omogenei al sistema’’. Secondo la polizia, esiste un legame tra questo gruppo e Lotta Rivoluzionaria, erede dell’organizzazione marxista 17 Novembre, attiva negli anni Settanta. Un periodo oscuro per la Grecia e non solo, che si nutriva della crisi di quegli anni. La riunione tra maggioranza e opposizione non sarà la soluzione di tutti i mali, ma è il segnale che in Grecia si manifestano prima che altrove i segni della crisi economica che sta mettendo in crisi il modello di gestione neoliberista nel mondo.

Gli effetti della crisi in Russia colpiscono gli estremi della scala sociale


Intervista ad Astrit Dakli

D: Parliamo molto in questo periodo degli effetti di quella che viene definita "crisi globale", una crisi che naturalmente colpisce anche la stessa Russia. Quali sono gli effetti di questa crisi?

R: La Russia sta vivendo molto male questa crisi globale, molto male perchè è un risveglio particolarmente brusco e sgradevole. Fino a pochi mesi fa i cittadini russi e lo stesso governo erano convinti di vivere in una situazione di grande forza, di progresso e di crescita molto rapida. Il paese era considerato ed era, una delle economie a più rapido sviluppo accompagnata poi al fatto di essere una tradizionale potenza militare e di avere una grande ricchezza di risorse. Insomma tutto faceva della Russia un paese molto potente e in grande crescita. Ora la crisi è venuta a colpire in maniera drammatica questa crescita e a far precipitare di colpo invece, in una situazione, non di povertà perché non è così, ma di grave freno su tutto quanto per vari motivi.In primo luogo perché con la crisi è crollato il prezzo del petrolio. Essendo in crisi l’economia mondiale le previsioni sul consumo di carburanti sono diminuite moltissimo ed è crollata la principale fonte di entrate del commercio estero di questo paese: carburanti, combustibili e gas. Contemporaneamente una delle voci maggiori di sviluppo interno era data dall’edilizia ed anche qui con la crisi finanziaria, la crisi delle banche, la difficoltà di credito che sono globali, nei posti in cui c’è uno sviluppo edilizio particolarmente intenso questo effetto è stato molto più grave perché questo sviluppo viene bruscamente fermato dalla mancanza di credito. Il risultato è che quasi tutti i cantieri, ed erano tanti i cantieri in un paese come la Russia, si sono fermati. Solo a Mosca c’erano migliaia di grandi cantieri. Questo stop improvviso al settore immobiliare e al settore petrolifero sono stati un shock fortissimo. Per ora questa crisi viene pagata soprattutto ai due estremi della scala sociale. I miliardari che avevano fortissimi investimenti di tipo finanziario si sono visti tagliare il proprio patrimonio in maniera impressionante. Ci sono dei dati che drammatici, personaggi che avevano patrimoni stimati in 20/30 miliardi di dollari se li sono visti ridurre a 5 o 6, perdite quasi inconcepibili nella loro dimensione. All’altro estremo della scala sociale i più colpiti sono stati i milioni di immigrati che arrivano in Russia e vivono in maniera semi-clandestina in condizioni tremende e lavorano proprio nell’edilizia nella stragrande maggioranza. Si sono trovati di colpo senza lavoro, senza nessun tipo di prospettiva, senza nessuna legalità di vita.


D: Da questa immagine dei due estremi della scala sociale che sono i primi ad essere toccati dalla gravità della crisi viene fuori anche un’immagine di una società che, come tutte le società a livello globale, si confronterà con temi come quello del protezionismo. Anche in Russia si sta assistendo a queste forme di neo-protezionismo che immagino sia soprattutto nei confronti degli immigrati?

R: Certo gli immigrati sono i primi a pagare in quanto sono una presenza semi-legale o del tutto illegale anche se ben accettata in quanto manodopera sotto pagata. Scontato più di tutti perché perdono sostanzialmente tutto ciò che hanno e non possono nemmeno tornare in patria perché nei loro paesi di origine, che sono soprattutto l’Asia centrale, il Caucaso, la situazione è ancora peggiore quindi non ci sarebbe posto per riaccoglierli. Ma al di là di questa stretta sul lavoro che viene dall’esterno è in corso una drammatica stretta protezionista sul commercio.Il governo ha deciso di imporre molte tasse aggiuntive, dei dazi in pratica, sulle importazioni. La cosa che ha fatto più discutere, che ha provocato anche un’ondata di proteste perfino di manifestazioni di piazza, addirittura violente, è stata la tassa sulle importazioni di auto dall’estero, per cercare di proteggere l’industria dell’auto nazionale. Ma il governo non ha tenuto conto che in alcune parti di questo immenso paese, soprattutto nell’estremo oriente, è molto più conveniente acquistare un’auto, anche usata, all’estero, soprattutto dal Giappone o dalla Corea, piuttosto che far venire un’auto di produzione nazionale.Il risultato è che c’era un’intera economia locale in queste aree dell’estremo oriente che si basava proprio sul commercio, la vendita, la manutenzione, i ricambi, legate a queste auto straniere di importazione. Con queste nuove tasse questo settore è andato in crisi di colpo e ha provocato una vera e propria crisi sociale, con migliaia e migliaia di disoccupati. Quindi invece di proteggere l’occupazione nazionale, alla fine queste misure hanno finito per danneggiarla. Questo naturalmente è solo un esempio, la tendenza spontanea del governo russo in questo periodo è decisamente protezionistica però si scontra con moltissimi problemi nella sua attuazione concreta.


D: In assoluto c’è qualcosa che, anche in maniera sotterranea, allude, come qui in Italia, a questo slogan “La crisi è vostra non la paghiano noi” o dal punto di vista sociale la cosa è molto compressa?

R: Certo che la "compressione" dal punto di vista dell’autorità, quindi repressione, presenza di polizia, difficoltà di fare materialmente queste proteste c’è, ma è del tutto evidente che anche le proteste ci sono. Ormai tutti i weekend da un mese a questa parte centinaia di città russe sono percorse da manifestazioni, certo non oceaniche, si tratta di poche centinaia di persone, però sono manifestazioni che vengono indette, si svolgono, tutti le vedono. Insomma la protesta c’è eccome e gli attori principali sono una parte dei sindacati e per altro verso molto spesso comitati spontanei di cittadini che si formano per protestare magari su una questione molto particolare come quella dell’auto e poi estendono la loro azione anche ad altre cose.Ci sono state proteste molto forti contro l’aumento delle tariffe pubbliche nei trasporti. Piano piano le proteste crescono, sono molto visibili e preoccupano sicuramente il governo.

La tigre celtica non ruggisce più


In 120mila in piazza a Dublino contro le misure economiche del governo
Intervista alla giornalista Orsola Casagrande

Crisi economica e grandi mobilitazioni in Irlanda, paese che ha vissuto uno straordinario sviluppo economico negli anni ’90 grazie soprattutto ai cospicui contributi economici dell’Unione Europea, ad una politica di deregolamentazione del mercato del lavoro e a una politica fiscale che ha incoraggiato gli investimenti esteri tanto che l’Irlanda è stata definita la "tigra celtica". Sabato 22 febbraio una manifestazione oceanica contro le misure anticrisi prese dal governo ha paralizzato Dublino. La giornalista Orsola Casagrande ci offre in questa intervista un quadro della situazione irlandese dentro la crisi globale.

Sabato scorso c’è stata questa enorme manifestazione convocata dai sindacati a Dublino e la partecipazione è stata bel al di là delle aspettative degli stessi sindacati (di 100/120mila persone parlava addirittura la polizia). Una folla mai vista da anni in Irlanda per una manifestazione sindacale che riporta in primo piano tutta la questione dell’economia irlandese, questa "tigre celtica" che da anni non ruggisce più e che forse in realtà, come cominciano a dire anche alcuni commentatori, non ha mai ruggito così tanto come si voleva far credere. Il boom economico degli anni ’90 in Irlanda è stato sicuramente accompagnato da un aumento dei prezzi spaventoso, soprattutto nel mercato immobiliare, ma non solo. A questo boom però non è coincisa una migliore qualità della vita per i tanti lavoratori irlandesi. Le ultime analisi confermano che il boom economico fosse da attribuire soprattutto a quella sorta di "paradiso fiscale" per chi andava a investire nell’isola di smeraldo, soprattutto investitori americani e di alcuni paesi europei. Ben presto però gli investitori americani se ne sono andati per spostarsi verso altri lidi, come l’India o altri paesi dell’Est europeo, portando con sé anche la manodopera con una ricaduta occupazionale sulla popolazione irlandese che non è stata al livello di quello che erano state le aspettative. Oggi si vorrebbe che a pagare la crisi fossero proprio i lavoratori ed é questo che è stato contestato in maniera massiccia dalla manifestazione di sabato scorso a Dublino. Peraltro c’è da ricordare che in Irlanda come in Inghilterra la legislazione in materia sindacale è molto più rigida rispetto a quella italiana ed è molto più complicato sia proclamare uno sciopero che essere presente come sindacato all’interno delle aziende, quindi è stato un doppio successo per il movimento sindacale. I sindacati tramite l’Irish Congress hanno presentato una piattaforma al governo per affrontare i nodi della crisi in maniera “negoziata” e, forti del successo di sabato, hanno scaldato i motori convocando già per giovedì prossimo una manifestazione del pubblico impiego. Sul piede di guerra anche il sindacato dei trasporti e quello del settore privato. In questa situazione potrebbero ritrovare un’unità che non hanno da anni, i lavoratori del settore privato e quelli del settore pubblico che in Irlanda sono sempre stati molto divisi.

Una tigre, dicevamo, che non ruggisce più da tempo e non solo a causa degli effetti di crisi strutturale che sta colpendo tutti. Qual’è la situazione economica dell’Irlanda?
I meccanismi per cui molte delle imprese che hanno poi investito in Irlanda in questi anni, gli americani soprattutto, si sono portati dal proprio paese i lavoratori e la manodopera specializzata hanno prodotto il fatto che i lavori rimasti agli "irlandesi" erano i quelli meno pagati e più precari. Anche qui come in Inghilterra grande flessibilità, grandi spostamenti e cambiamenti di lavoro e pochissima sicurezza anche dal punto di vista sociale e materiale. Tutto questo a fronte di una popolazione che vive per oltre due terzi a Dublino (l’Irlanda ha 3.5 milioni di abitanti e quasi 2 milioni vivono nella capitale) con aeree e interi quartieri molto poveri e aree rurali non floride. A questo si aggiunge un aumento dei prezzi veramente spaventoso e l’arrivo massiccio di immigrati che da un lato hanno iniziato a svolgere dei lavori sottopagati e dall’altro hanno portato ad una serie di situazioni di forte disagio in aeree in cui il disagio era già forte. Anche il governo irlandese, come molti altri a livello europeo, ha una legislazione sull’immigrazione molto rigida che ha creato notevoli problemi per gli immigrati che arrivano su quest’isola.

venerdì 20 febbraio 2009

Arundhati Roy: "Giustizia o guerra civile: la mia India a un bivio"

"Gli attivisti non si stancano, e io sono stanca"

«Il romanzo e il saggio sono come la sinistra e la destra del miocorpo. E io sto provando a essere ambidestra». Quasi un tormento per Arundhati Roy che ha messo il rapporto tra potere e impotenza al centro di ogni forma di scrittura. Il dio delle piccole cose, bestseller internazionale e Booker Prize nel 1997 da lei definito «un romanzo politico», è rimasto la sua prima e unica opera di narrativa. Da allora la scrittrice indiana è diventata la voce dei senza voce. Cortei, sit-in, scioperi della fame e tanti saggi.
Ha così incanalato la sua energia creativa in impegno militante, denunciando soprusi e ingiustizie: dalle grandi dighe sul fiume Narmada, che hanno lasciato senza terra milioni di contadini, alle persecuzioni dei musulmani per la «deriva fascista» dei fondamentalisti indù. Per anni è stata una scelta: «Nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo. Il saggio invece nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina» scriveva nel 2002 in Settembre alle porte. Oggi però le cose sono cambiate: «Sto cercando di scrivere il mio secondo romanzo, ma non è facile», ammette dalla sua casa di New Delhi. Una frase che rivela la fatica che sta facendo a indossare di nuovo i panni della narratrice. Già due anni fa aveva confessato al Guardian: «Ho detto tutto quello che potevo sulla globalizzazione, come scrittrice devo andare in un posto diverso». Ma il «trasloco» non è ancora riuscito. Da qualche tempo va ripetendo: «Non sono un’attivista. Gli attivisti non si stancano mai, mentre io sono esausta».
Eppure fino alla scorsa settimana, per San Valentino, era in prima linea al fianco di studenti e docenti universitari a una manifestazione contro le ronde moralizzatrici dei fondamentalisti indù che a gennaio hanno aggredito alcune ragazze in un discopub di Mangalore, accusandole di «comportamenti osceni», atti contro le tradizioni indiane, segnali indecenti della contaminazione occidentale. «Una guerra di classe combattuta sul corpo delle donne» l’ha definita Roy. La scrittrice, un’infanzia di esclusione sociale alle spalle (è cresciuta nel Kerala con la madre divorziata), ha preso la parola leggendo un brano del Dio delle piccole cose, saga familiare che la passione di una donna per un intoccabile trasforma in tragedia. «Sono fuggita da casa a 16 anni perché era intollerabile l’idea di crescere in un piccolo villaggio — ha ricordato alla folla con il microfono in mano, il corpo minuto e aggraziato che sprigiona carisma, qualche filo grigio ad accennare ai suoi 47 anni portati da ragazzina —. Sono fuggita per essere felice, libera, loro vogliono toglierci l’aria e impedirci di respirare. Dobbiamo reclamare l’aria, dobbiamo farlo ogni giorno».
E lei continua a farlo. «Scrivere saggi è soltanto un altro modo di capire la società in cui viviamo. Più diretto, pressante, a volte molto importante, soprattutto se vivi in una parte del mondo che sta sbandando verso il fascismo sotto i tuoi occhi». Ma Roy non considera la lotta per i diritti umani una prerogativa degli intellettuali. «Non prescriverei mai un ruolo prefissato agli scrittori: come gli idraulici o i meccanici, non sono un gruppo omogeneo con un unico orientamento culturale. Alcuni lavorano stando dalla parte dei governanti, altri dalla parte dei governati. Così pure per attori, giornalisti, sportivi, musicisti e tutti gli altri». Poi sembra distinguere tra sostenitori di una causa e testimonial: «Non credo che intervenire in una situazione politica come scrittore equivalga a sfruttare la propria fama per sostenere qualche particolare tipo di rivoluzione. Non si tratta di usare la propria celebrità ma di fare il proprio lavoro: guardarsi intorno. Vedere. Pensare. Scrivere». Ma lei stessa ammette che non tutti gli sguardi sono innocenti. Per esempio Maximum City dell’indiano Suketu Metha contiene un passo in cui lo scrittore osserva le torture della polizia. «Mi ha disturbato la facilità con cui l’autore è andato in una stanza per le torture con un poliziotto amico e ha descritto quello che accadeva. Guardare la tortura non è un atto neutrale. Non si può essere spettatori, si diventa complici».
Apprezza invece La tigre bianca di Aravind Adiga, Booker Prize l’anno scorso, che racconta il lato meno scintillante della rivoluzione indiana: «Il romanzo è stato accolto in India con molta rabbia. La cosa buona è che fa sentire a disagio chi deve essere messo a disagio». Giudizio più sfumato per The Millionaire dello scozzese Danny Boyle, tra i favoriti agli Oscar: «Ho visto il film, mi è sembrato girato in modo splendido, ha un grande impatto. Per il resto è stato come percorrere una strada accidentata. C’erano enormi buche culturali in cui il film continuamente inciampava. I dialoghi erano imbarazzanti, cosa che mi ha sorpreso perché invece ho apprezzato The Full Monty», dello stesso sceneggiatore, Simon Beaufoy. Poi racconta una di queste buche: «Il giovane protagonista, il "cane dello slum" di Mumbai (lo "Slumdog" del titolo inglese, il pezzente, è un neologismo coniato, pare, dallo stesso Beaufoy, ndr), è chiaramente britannico. E la sua sicurezza culturale intimidiva il poliziotto, chiaramente indiano, che lo stava torturando. La pelle scura che li accomuna è troppo sottile per nascondere la forma di quello che li separa. Era come guardare i bambini neri di uno slum di Chicago parlare con l’accento di Yale». Roy ha provato sentimenti ambivalenti: «Felice che il film sgonfi il mito dell’"India scintillante", delusa che non lo faccia con il brio e la coscienza politica che il regista e lo sceneggiatore hanno mostrato in altri lavori. Ma ovviamente l’audience internazionale trangugia il film come melassa...».
Diventare milionari vincendo a un quiz non è una forma di riscatto esemplare. Ma lei stessa ha riconosciuto che pure il tipo di protesta non violenta a cui ha aderito per oltre un decennio è fallita. E ora non se la sente più di condannare del tutto le persone che imbracciano le armi per far valere i propri diritti. La battaglia resta da combattere; come, non è chiaro. «C’è un grande dibattito in India su questo, la strada è ancora da trovare». Una cosa è certa: la sua India è a un bivio: «Da una parte la freccia indica Giustizia, dall’altra Guerra civile». Speranze per le prossime elezioni, ad aprile? «Le elezioni qui sono come un festival — dice —. Vanno e vengono senza portare molti cambiamenti. L’unico modo per evitare che la nostra società scivoli nel caos è che il governo garantisca un livello minimo di trasparenza. Oggi certe persone sanno che possono permettersi tutto: stupri, omicidi di massa, frodi pesanti, espropriazioni, la distruzione di foreste e fiumi».
E pure le cause dell’attentato di Mumbai sono soprattutto indiane, ribadisce. Anche dopo l’ammissione del Pakistan che l’attacco è stato in parte pianificato sul suo territorio con l’appoggio di una rete globale. «Non mi stupisco. Identificare la provenienza di un attentato terroristico è come identificare la provenienza del capitale. Del resto, la stessa polizia di Mumbai ha ammesso che gli attentatori hanno avuto un appoggio logistico in India. Gli attacchi sono nati da una particolare storia e sono stati gli ultimi di una serie, di cui molti, secondo i servizi segreti, pianificati ed eseguiti qui in India. Presentarli come una sorta di attacco al Paese buono da parte del Paese cattivo è banale». Lei, che definisce il terrorismo come «la privatizzazione della guerra», e ha chiamato George Bush e la sua risposta al Terrore come «l’incarnazione di un incubo mondiale», ora spera in Obama. «Il suo compito non è diverso da quello del pilota che pochi giorni fa ha dovuto fare un atterraggio di emergenza nell’Hudson a New York — dice —. Anche l’impero americano ha bisogno di un atterraggio d’emergenza morbido. La sua politica estera dovrà cambiare e molti dei suoi cambiamenti saranno dettati dalla sua economia debole. Obama sembra avere il garbo e l’intelligenza per fare un buon lavoro. Però sono stata delusa perché non ha avuto il coraggio di condannare la recente violenza di Israele a Gaza».
Alessandra Muglia
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 20.02.09

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!