sabato 4 aprile 2009

Francia: Università in sciopero per studiare

Da due mesi non passa settimana senza una presenza in piazza di insegnanti-ricercatori e studenti. Alla protesta contro la riforma dello statuto degli insegnanti-ricercatori presentata dalla ministra Valérie Pécresse si è aggiunta una lista sempre più lunga di rivendicazioni. Progressivamente la mobilitazione si è allargata all’insieme delle università e a tutti gli istituti di ricerca, e il movimento continua.
Professori e studenti praticano lo sciopero "attivo", tra "conferenze alternative" e performance quotidiane, coinvolgendo un pubblico fatto di pendolari, passanti, turisti, abitanti dei quartieri, negozianti, impiegati di uffici e banche, auditori liberi di corsi e lezioni di storia, economia, filosofia, arte... L’università si riversa fuori dagli accademici confini e soprattutto sfida le barriere imposte dalla polizia e dai cagneschi vigilantes che filtrano l’accesso e controllano il territorio universitario, come accade nella venerabile Sorbona dove dal 2006 con il movimento esplosivo contro il CPE si teme annunciandolo un re-make del Maggio 68. Ma studenti e professori che sfilano sotto l’apparato inquisitore dei butta-fuori privati colgono la provocazione e scioperano organizzandosi per far vivere l’università. All’impressionante presenza poliziesca esterna corrisponde una surreale tranquillità all’interno degli spazi condivisi di studio e lavoro.
Gli insegnanti organizzano lezioni per la verifica dei corsi, seguono e correggono il lavoro svolto anche se non assicurano più le lezioni e i loro allievi creano delle reti per socializzare lo studio anche tramite internet. La norma che impone l’assenza di votazione e valutazione in caso di sciopero viene stravolta e l’eccezione sancita dai regolamenti accademici diventa regola, sistematicamente applicata da settimane. Quando il protocollo vuole imporsi, alla domanda "Sei in sciopero?" la risposta è "Si, ma in sciopero attivo". Le lezioni infatti ci sono, intermittenti, dentro e fuori. Moltissimi studenti grazie a questo sistema flessibile di formazione scoprono il lavoro di ricerca, possono approfondire delle tematiche non necessariamente previste dai programmi di studio e colmare molte lacune, la qualità dei corsi è riconosciuta a partire dagli iscritti al primo anno di università. Quattro, tre, cinque "conferenze alternative" quotidiane confermano l’ottimo livello di studio che viene proposto dagli ’scioperanti’. E poi si va in giro per la città, si fanno delle tappe per letture pubbliche e insieme, studenti e professori, fanno da guida scegliendo percorsi ’istruttivi’ nei vari quartieri, abbordando la letteratura e la poesia, ma anche l’attualità della crisi economica. Queste "ronde infinite degli ostinati", così si definiscono i disubbidienti delle università in lotta, permettono una mediatizzazione del movimento, il confronto con i cittadini e la diffusione libera dei contenuti. Un carnevale militante che comincia il lunedi e va in giro a denunciare le riforme e i decreti con la "vendita all’asta dei concetti straordinari e rari" oppure "il supplizio dell’università", poi ci sono gli happening come il "terribile concerto di pentole " per "svegliare i grandi e storici antenati" della République sepolti al Panthéon che si trova nel cuore del quartiere universitario, oppure "la lenta marcia indietro" lungo gli Champs-Elysées, e naturalmente la catena umana che circonda l’università e sfila leggendo ad alta voce "La Princesse de Clèves" provocatoria messa in scena contro l’attacco di Sarkozy agli studi letterari considerati inutili e dispersivi rispetto alla professionalizzazione dell’università prevista dal suo governo.
Ieri decine di migliaia di studenti e professori hanno manifestato contro la soppressione degli incarichi di ricerca, la riforma dello statuto degli insegnanti-ricercatori e la formazione dei professori, chiedendo l’abolizione della RLU, Legge sulla Responsabilità e Libertà delle Università votata nel 2007. L’incontro dei sindacati con la ministra si è sciolto il 30 marzo con l’abbandono del tavolo di trattativa da parte dei collettivi di ricercatori che "stigmatizzano l’immobilismo e l’ auto-compiacimento" del ministero dell’insegnamento universitario e della ricerca.
Marina Nebbiolo

venerdì 3 aprile 2009

Francia: Strasburgo assediata dalla Nato

Alla vigilia del vertice 100 manifestanti arrestati
Parigi - Due vertici mondiali nel cuore di due città dell’Europa, il G20 a Londra e quello della NATO che si svolgerà tra Strasburgo, Baden Baden e Kehl (3-4 aprile). Entrambi mobilitano cittadini e attivisti ma anche imponenti dispositivi di controllo per la "sicurezza". L’ultimo vertice internazionale in Francia è stato quello del G8 a Evian nel 2003, lontano dal centro della città, mentre quest’anno le misure adottate dalla polizia e dall’amministrazione cittadina obbligano gli abitanti di Strasburgo a tali restrizioni della libertà di movimento che uscire di casa o andare a lavorare sono diventate missioni e scelte a rischio. In realtà la pianificazione sicuritaria è stata decisa dai governi francese e tedesco in associazione con i consulenti statunitensi della NATO scavalcando gli interlocutori cittadini, il sindaco di Strasburgo, Rolan Ries del Partito Socialista, ha dichiarato che non ha avuto scelta di fronte alle richieste degli organizzatori del vertice, accontentandosi della "scelta di Strasburgo come simbolo di pace".
I cittadini invece si sentono in una città morta e in stato d’assedio con i parcheggi vietati e l’invito a circolare solo in bicicletta perché gli autobus restano bloccati nei depositi. Moltissimi abitanti hanno protestato perché la polizia si è presentata in casa per far togliere le bandiere "NO-NATO" e per i controlli d’identità eccessivi. Funzionari zelanti eseguono costanti e abusivi controlli della circolazione pedonale nelle differenti zone che ospitano il vertice, molte scuole sono chiuse e gli occupanti del campus universitario sono stati sgomberati all’alba della vigilia dei preparativi del summit. Anche alcune autostrade di accesso alla città sono bloccate, la libera circolazione prevista dalla convenzione di Schengen è sospesa e la frontiera con la Germania temporaneamente ristabilita. Il quotidiano di Strasburgo ironizza titolando "Evitiamo di ammalarci", infatti un complesso piano di "sicurezza sanitaria" prevede che le farmacie sospendano i rifornimenti e che gli infermieri a domicilio non circolino in automobile, medici e personale ospedaliero viene ridistribuito in ospedali separati per categoria: membri delle delegazioni NATO, forze dell’ordine, manifestanti. Le donne incinte sono invitate a farsi accompagnare dai poliziotti invece che dai familiari per partorire.
Parallelamente, l’insieme delle reti di movimento franco-tedesche che si sono date appuntamento a Strasburgo hanno organizzato una zona liberata a sud di Strasburgo, un villaggio autogestito, e una piattaforma di contro-informazione per articolare i diversi interventi di protesta al contro-vertice dall’1 al 5 aprile. I primi scontri si sono verificati nel pomeriggio tra polizia e 2.000 attivisti. Partiti dal villaggio autogestito per raggiungere il centro-città "fortezza" e manifestare solidarietà alle mobilitazioni contro il G20 di Londra, nel quartiere di Neuhof (sobborgo a sud di Strasburgo) i manifestanti sono stati attaccati dalle forze dell’ordine in assetto antisommossa con il lancio di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Gli attivisti si sono difesi con il lancio di pietre, barricate e fuochi d’artificio. Un centinaio di persone sono state arrestate nel bosco ad est del villaggio autogestito. Un fotografo tedesco dell’Agenzia Ddp è stato colpito da una pallotola di gomma al ventre durante gli scontri. Per sabato è prevista una grande manifestazione ma la Prefettura di Strasburgo non ha, per il momento, dato l’autorizzazione al passaggio nelle zone abitate.
Marina Nebbiolo
Foto mainstream (01) (02)
Link:sommet-otan-2009.blogspot.comhttp://www.non-otan-strasbourg.eu/http://www.dissent.fr/http://www.hns-info.net/spip.php?mot78
linksunten.indymedia.orgvillage2009.blogsport.dehttp://www.block-nato.org/http://www.block-baden-baden.int.tc/
Radio anti-Otan stream.giss.tv:8000/antinato.mp3.m3uestream.giss.tv:8000/antinato.mp3

Londra - ExCel centre, stiamo arrivando

Raid della polizia al Convergence Centre e al RampArts
La polizia rende noto il nome, dell’uomo deceduto durante le manifestazione di ieri. Si tratta di 47enne, che stava rientrando a casa. Non ancora chiare le dinamiche che hanno portato al decesso. I promotori delle manifestazioni aprono un’inchiesta indipendente. Raid della polizia al Convergence Centre e al RampArts
La giornata di ieri si è conclusa molto tardi. Mentre i media rimbalzavano la velina di Scotland Yard sulla morte di un uomo, deceduto a quanto pare per collasso cardiaco , il Climate Camp organizzato nel cuore della City è stato violentemente sgomberato. Circa 90 le persone arrestate, questo il numero ufficiale fino alle prime ore di questo pomeriggio, quando la polizia ha attaccato RampArt centre per una retata. Chi si trovava all’interno dell’edificio è stato ammanettato e identificato. Al momento è difficile capire quante siano le persone arrestate. Ufficialmente l’operazione è stata giustificata per rintracciare gli autori delle “violenze” di ieri. Nel frattempo un altro raid della polizia ha preso di mira il Earl St Convergence Centre. Circa una 40 di persone sono state ammanettate, fatte sdraiare a terra e identificate una ad una. Diverse centinaia di manifestanti si sono dati appuntamenti in Exchange Square in the City, per un corteo di commemorazione per il 30enne morto ieri. Gli organizzatori delle proteste hanno dichiarato di voler portare avanti un inchiesta indipendente sulla violenza perpetrata in questi giorni dalla polizia londinese. La city oggi torna ad essere oggetto di proteste. Per oggi era prevista un’iniziativa contro le guerre, ma in mattinata i movimenti hanno cambiato programma. Al momento migliaia di persone si stanno riunendo nei pressi della sede centrale della Banca d’Inghilterra per tentare di raggiungere l’ ExCel centre, dove si svolge il G20. Da Londra un primo report con Nicola Montagna [ audio ]

Fuga da Dubai - Il Real Estate di fronte alla crisi

di Lucia Tozzi*
Cantieri sterminati, torri altissime, luci psichedeliche: lo scenario è quasi identico a Dubai e a Beijing, i due epicentri mondiali della crescita urbana, che convogliano un’energia progettuale frenetica in milioni di metri cubi reali. Sono due modelli di espansione opposti – uno frutto della pianificazione comunista e l’altro della totale assenza di regole – ma fondati entrambi sull’autoritarismo dei governi e su immensi flussi di denaro. Nessuna rivendicazione democratica sui processi di trasformazione del territorio, nessun attrito ha frenato l’ascesa del Real Estate in questi luoghi, diventati in meno di dieci anni un mito irresistibile per gli immobiliaristi – ma anche per gli economisti, gli architetti, i semplici turisti – di tutto il mondo. I due grandi interpreti dello schizofrenico movimento di attrazione e repulsione occidentale di fronte a questo mix di kitsch, vitalità esuberante e regime dittatoriale sono Mike Davis e Rem Koolhaas, che da anni monopolizzano il dibattito scontrandosi da posizioni in apparenza molto nette: la condanna neomarxista e l’esaltazione postmoderna. Paradossalmente però il tono apocalittico delle invettive di Mike Davis, che ritraggono queste città come maledette Disneyland di lusso, capitali del riciclaggio e dei finanziamenti al terrorismo, popolate da affaristi e puttane ma sicure come la Svizzera, contribuisce molto più degli argomenti culturalisti e politically uncorrect di Koolhaas al fascino verso un Oriente che non ha nulla di esotico, ma è pura incarnazione di potenza. Questo mito che riunisce la freshness della conquista del West ai vizi più opulenti di Babilonia è l’esito di una rivoluzione in due tempi che ha sconvolto i rapporti tra economia e città. Negli anni Settanta la rendita fondiaria, fino ad allora considerata il peso morto del capitalismo, comincia a essere integrata nel mondo della finanza: da fonte di reddito passiva diventa a poco a poco uno dei principali motori di ricchezza sui mercati finanziari e comprensibilmente innesca profondi cambiamenti nel governo dello sviluppo urbano. Alla fine degli anni Novanta esplode la bolla della New Economy dando inizio al decennio trionfale del Real Estate, padrone incontrastato delle borse e delle città proprio nel momento in cui la popolazione mondiale inurbata supera numericamente quella rurale. Ma Europa e Stati Uniti, incubatori storici della rivoluzione, non hanno abbastanza vigore per svilupparla a pieno: infiacchiti dalla scarsa liquidità, rallentati dalle regole complesse della democrazia, dalla libera informazione, dal Welfare State che non ne vuole sapere di scomparire, da tessuti urbani obsoleti, ricevono un colpo mortale con l’11 settembre, quando gli investitori stranieri decidono di ritirare i capitali dall’Occidente e investirli nel proprio paese. Miliardi piovono su Dubai, mentre Bush e i Chicago boys nel tentativo di stare al passo inaugurano una propaganda senza risparmio di mezzi a favore della proprietà privata della casa. Per fare impennare il mercato immobiliare vengono varate tutte quelle leggi su mutui e prestiti bancari che sono all’origine della grande crisi finanziaria di oggi.
Per capire fino in fondo qual è la posta in gioco di questa crisi bisogna andare a Dubai. Gli esperti dicono che il sistema finanziario si rigenererà, ma a guidarlo non sarà più il settore immobiliare, bensì l’alimentare. È una notizia sconvolgente, ma in occidente nessuno sembra prendersene troppo cura. La cronaca del tracollo delle borse e dei salvataggi statali ha offuscato le analisi sugli effetti di questo spostamento. Nelle metropoli occidentali i cantieri sono rallentati da un pezzo, ma i valori di mercato hanno oscillazioni lievi: un metro quadro a Manhattan o a Londra costerà in fondo sempre cifre astronomiche. Se si fermano le gru a Dubai lo scenario è catastrofico: l’80% della popolazione, composta da stranieri puramente attratti dalla velocità degli affari e dal lavoro, è pronta a volatilizzarsi. I milioni di turisti che vengono a vedere il cantiere polveroso della futura capitale del lusso non avranno alcuna ragione di trascinarsi in questo buco bollente. Com’è noto, il petrolio è in via di esaurimento. Ma soprattutto, ad andare in rovina sarebbe l’idea ormai quasi realizzata che si possono costruire città grandiose ovunque, anche in luoghi dove non ha nessun senso costruirle. Città astratte, virtuali, agglomerati di proprietà private che hanno scarsi legami con la funzione abitativa, servono solo come supporto alle transazioni finanziarie. Arcipelaghi separati, protetti, estranei alla legge comune di un qualsivoglia stato, in cui la proprietà è garanzia di regole autonome. Dubai non è infatti un caso isolato, è un paradigma che ha prodotto centinaia, migliaia di nuovi progetti nei deserti sauditi, africani, in India, in Russia, in Kazakistan, in Siberia, e sta rimbalzando anche in Occidente. L’eventuale crollo di questo modello non affosserà probabilmente l’economia della regione - almeno finché gli altri Emirati continueranno a succhiare il petrolio e si continuerà a riciclare danaro – ma l’idea orgogliosa, manipolatrice, magniloquente di urbano che ha espresso in questi anni. Le città dell’area petrolifera torneranno all’insignificanza che le ha sempre connotate, mentre città promiscue, pianificate, stratificate avranno più chances di incarnare l’energia metropolitana.
Saranno le città cinesi, forti della loro popolazione omogenea e delle strategie a lungo termine, a prevalere, o l’informale degli slum indiani e sudamericani? Esiste invece una chance che torni in auge l’idea di uno spazio urbano condiviso, di un territorio comune, di una politica pubblica dell’abitare e dei servizi?

* (Napoli, 1974) una studiosa di fenomeni urbani. Vive a Milano. Collabora a il manifesto, Specchio+ de La Stampa e Arquine. È autrice di Microrealities (2006) e ha curato insieme a Stefano Boeri e Stefano Mirti Geodesign (Abitare Segesta, 2008)

CRIMINI DI GUERRA A GAZA: bruciati a morte dal fosforo bianco.


Testimonianze di B'Tselem.
Uccisi dalle fiamme nella loro casa bombardata dall’esercito – dalla voce di Ghada Riad Rajab Abu Halima, 21 anni.
Lo scorso 29 marzo, dieci settimane dopo aver fornito la propria testimonianza a B’Tselem, Ghada Abu Halima è morta in un ospedale egiziano per le ferite da contatto col fosforo bianco.

Fino alla settimana scorsa, vivevo con mio marito Muhammad, di 24 anni, e le nostre due bambine, Farah (3 anni) ed Aya (6 mesi) nel quartiere di as-Sifa, a Beit Lahiya. Abitavamo nella stessa casa dei genitori di Muhammad, Sa’dallah e Sabah Abu Halima, entrambi di 44 anni, insieme ai fratelli e alle sorelle di mio marito: Omar (18), Yusef (16), ‘Abd ar-Rahim (13), Zeid (11), Hamzah (10), ‘Ali (4) e la piccola Shahd (1 anno).
La nostra casa aveva due piani: al primo c’erano 250 metri quadri di magazzini, così vivevamo al secondo piano. Noi siamo contadini e possediamo della terra accanto a dove abitiamo.
Sabato sera [3 gennaio, N. d. R.], gli aerei israeliani lanciarono dei volantini invitando i residenti dell’area a lasciare le loro case. L’esercito aveva fatto la stessa cosa durante alcune precedenti incursioni e noi non avevamo abbandonato casa nostra, così anche quella volta decidemmo di fare lo stesso.
Intorno alle 4 del pomeriggio del giorno dopo, mentre tutta la famiglia era in casa, l’esercito cominciò a bombardare la nostra zona. Qualche minuto più tardi, delle bombe caddero sulla nostra abitazione. Scoppiò un incendio, e diversi membri della famiglia morirono tra le fiamme: mio suocero, la sua figlioletta Shahd e altri tre dei suoi figli – ‘Abd ar-Rahim, Zeid e Hamzah.
Mia suocera e i suoi figli Yusef, ‘Omar e ‘Ali soffrirono di ustioni. Il fuoco si propagò in tutte le stanze. Io reggevo mia figlia Farah, e anche noi due rimanemmo ustionate. A me andarono a fuoco i vestiti, e parte della mia pelle e di quella di Farah restò bruciacchiata. Per fortuna, la più piccola delle mie figlie, Aya, non fu toccata. Io mi strappai i vestiti di dosso e urlai che stavo bruciando. Ero nuda di fronte a tutti quelli che erano in casa. Il mio corpo era in fiamme e il dolore era insopportabile. Sentivo l’odore della mia carne che bruciava. Ero in condizioni orribili. Cercavo qualcosa per rivestirmi e non smettevo di gridare. Il fratello di mio marito si tolse i pantaloni e me li fece indossare. La parte superiore del mio corpo restò nuda finché mio marito non venne a coprirmi con la sua giacca.
Quindi corse in strada a cercare un’ambulanza o chiunque altro potesse aiutarci a portare fuori i morti e i feriti. Non riuscì a trovare alcun’ambulanza o veicolo dei vigili del fuoco. Vennero a aiutarci i suoi cugini, Matar e Muhammad-Hikmat Abu Halima, che vivono vicino a noi. Mio marito mi sollevò e Nabilah, sua zia, prese con sé Farah. Un’altra zia, che era giunta anche lei per aiutarci, prese Aya.
Muhammad, Farah, Nabilah con suo figlio ‘Ali, ‘Omar, Matar ed io salimmo tutti quanti su un carretto attaccato alla motrice di un camion. La guidava Muhammad Hahmat, dirigendosi vero l’ospedale Kamal ‘Adwan. Portammo anche il corpo della piccola Shahd. Tutti gli altri, li lasciammo nella casa.
Lungo la strada, vedemmo dei soldati a circa 300 metri dalla piazza di al-‘Atatrah. Muhammad fermò il veicolo, e improvvisamente i soldati aprirono il fuoco contro di noi. Uccisero Matar e Muhammad-Hikmat. ‘Ali fu ferito e riuscì a scappare con Nabilah e ‘Omar.
I soldati dissero a mio marito di spogliarsi, cosa che lui fece. Poi si rimise i vestiti e i soldati ci dissero di continuare a piedi. Lasciammo i tre corpi nel carretto. Mio marito, Farah ed io camminammo verso la piazza, dove salimmo in una macchina che passava di lì. Fummo portati all’ospedale ash-Shifa. Erano circa le 6 del pomeriggio quando arrivammo lì.
Io sono ricoverata ancora adesso. Avevo tutto il corpo ustionato, e anche il viso. Farah ha ustioni di terzo grado. Fummo inviati in Egitto per ricevere altre cure, e quindi cercarono di portarci a Rafah in ambulanza, ma l’esercito sparò contro di noi durante il percorso. L’autista rimase leggermente ferito al volto, e ci riportò in ospedale. Adesso siamo in attesa dell’autorizzazione di partire per l’Egitto.

Ghada Riad Rajab Abu Halima, 21 anni, sposata con due bambini, residente a Beit Lahiya, Striscia di Gaza. La testimonianza è stata fornita a Muhammad Sabah, all’ospedale di ash-Shifa, il 9 gennaio 2009.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!