giovedì 18 giugno 2009

Brasile - Il crimine di studiare



I Sem terra si mobilitano in difesa dei fondi educativi per la campagna


Dalla sua origine l'educazione è stato un tema centrale per il Movimiento de Trabajadores Rurales Sin Tierra (MST) del Brasile.
Una mobilitazione costante su questo tema è sempre stata al centro dell'azione del Movimento.
Nello Stato del Rio Grande do Sul, negli ultimi giorni i Sem Terra sono scesi in piazza contro il taglio dei fondi del Programa Nacional de Educación en Áreas de Reforma Agraria (Pronera), una conquista storica dei gruppi che lottano per la terra in Brasile.
La mancanza di fondi colpisce in maggioranza gli studenti figli di contadini ed esclude molti giovani dall'accesso al servizio scolastico.
Per questo centinaia di contadini sono scesi in piazza e si sono mobilitati di fronte all'Instituto Nacional de Colonización y Reforma Agraria (INCRA) in tutto il paese per chiedere il blocco dei tagli ai fondi scolastici.
Inoltre nello stato del Rio Grande do Sul, l'MST è vittima di un vero e proprio attacco dei settori più reazionari che da due anni cercano di criminalizzare le scuole itineranti del Movimento per attaccare tutto il Movimento.
I grandi proprietari terrieri le multinazionali hanno trovato sponda nei rappresentanti del governo "statale" e "centrale" nel definire le scuole di base dei Sem Terra come "formazione di guerriglieri" e "luoghi in cui si fa il lavaggio del cervello".
"Il problema non è chiudere le nostre scuole, ma aprirle" ha sintetizzato Janaina Stronzake, del MST del Rio Grande do Sul, in una intervista a Radio Mundo Real.
Lo sfondo di questo conflitto è uno scontro tra modelli antagonistici e non conciliabili sul modello di sviluppo. Da un lato le imprese del settore - Aracruz, Votorantim e Stora Enso - che vogliono imporre le monocolture di eucalipto e dall'altro chi lotta per la terra e un fututo diverso.

Massacro in Amazzonia: la guerra per i beni comuni



di Raúl Zibechi


Il massacro commesso il 5 giugno scorso contro gli indigeni amazzonici peruviani da parte del governo di Alan Garcìa è l'ultimo capitolo di una lunga guerra per l'appropriazione dei beni comuni, sostenuta dalla firma del Tlc tra Perù e Stati Uniti.

Alle sei del mattino di venerdì 5 giugno, tre elicotteri Mi-17 sono partiti dalla base della Polizia nazionale a El Milagro, hanno sorvolato la Curva del Diavolo – parte della strada che collega la selva con la costa nord del Perù – che era bloccata da dieci giorni da circa cinque mila indigeni awajùn e wampis. Dagli elicotteri sono partiti i gas lacrimogeni contro la folla [anche se altre versioni dicono che hanno sparato con le mitragliatrici], mentre nello stesso momento un gruppo di agenti è intervenuto a terra contro il blocco, a colpi di fucilate degli Akm. In quel momento sono state ferite un centinaio di persone e 20 o 25 sono state uccise. La popolazione della vicina città di Bagua, circa mille chilometri a nord est di Lima, vicino alla frontiera con l’Ecuador, è scesa in strada per appoggiare gli indigeni, incendiando palazzi pubblici nazionali e locali del partito del presidente Garcìa, l’Apra. Molti poliziotti sono stati assaliti e uccisi per vendetta, mentre altri indigeni venivano uccisi dagli agenti. Un gruppo di 38 poliziotti che presidiavano una stazione petrolifera in Amazzonia sono stati catturati come ostaggi, e alcuni sono stati uccisi, mentre alcune migliaia di indigeni minacciavano di far saltare in aria la stazione numero 6 dell’oleodotto nord-peruviano. Le versioni sono contraddittorie. Il governo ha assicurato, tre giorni dopo i fatti, che ci sono 11 indigeni e 23 poliziotti uccisi. Le organizzazioni indigene segnalano invece che i morti tra le proprie file sono 50 e che i desaparecidos sarebbero 400. Secondo testimoni, i militari hanno bruciato dei cadaveri e hanno lanciato i corpi nel fiume, per nascondere le prove del massacro, inoltre hanno fatto prigionieri i feriti ricoverati in ospedale. In ogni caso, è certo che il governo ha mandato le forze armate per stroncare una protesta pacifica, che durava da 57 giorni, concentrata nelle regioni impervie di cinque dipartimenti: Amazonas, Cusco, Loreto, San Martìn e Ucayali. L’8 giugno, la Commissione interamericana per i diritti umani [Cidh] appartenente all’Organizzazione degli stati americani [Oea], ha condannato la violenza e ha ricordato allo stato peruviano la sua responsabilità nel chiarire la dinamica dei fatti e rimediare alle conseguenze negative. La stessa Cidh ha chiesto alle parti di promuovere un processo di dialogo. Il 9 il Coordinamento nazionale per i diritti umani ha denunciato che «è stata registrata una serie di irregolarità e possibili violazioni dei diritti umani nella zona di Bagua». Il Cndh ha evidenziato la risposta negativa del governo, che ha non ha ritenuto di informare quale personale di polizia è incaricato delle indagini, la sua preoccupazione per la situazione delle 25 persone detenute nella caserma di El Milagro e per le 99 persone arrestate da quando era iniziata la protesta a Bagua. Il presidente Garcìa ha accusato gli indigeni di essere «terroristi» e ha parlato di una «cospirazione internazionale», nella quale, secondo i suoi ministri, sarebbero coinvolte Bolivia e Venezuela, che in quanto paesi produttori di gas e petrolio cercherebbero di evitare che il Perù possa sfruttare i propri giacimenti e diventare quindi un concorrente. Poche settimane fa, il Perù ha concesso asilo politico al dirigente antichavista venezuelano Manuel Rosales, accusato di corruzione, e a tre ex ministri boliviani del governo di Gonzalo Sanchez de Lozada, sotto processo per la morte di circa 70 persone durante la cosiddetta «guerra del gas» dell’ottobre del 2003. Il 9 giugno ci sono state anche le dimissioni della ministra per le donne e lo sviluppo sociale, Carmen Vildoso, in polemica con la forma scelta dal governo per gestire la situazione. Secondo il primo ministro Yehude Simon, però, le dimissioni sarebbero dovute al disaccordo per lo spot del governo in cui, su immagini di agenti di polizia uccisi e indigeni armati di lance e frecce, i nativi vengono qualificati come «selvaggi», «assassini feroci» e «estremisti», che seguono «ordini internazionali» per «bloccare lo sviluppo del Perù» e impedire che il paese «sfrutti i suo petrolio». Lo spot «spiega» che non c’è stata alcuna repressione, solo il «brutale assassinio di umili poliziotti». Il dirigente dell’Associazione interetnica per lo sviluppo della selva peruviana [Aidesep], che riunisce circa 300 mila indigeni di 1350 comunità, Alberto Pizango, è stato etichettato come «delinquente» dalla ministra dell’interno Mercedes Cabanillas, che ne ha ordinato la cattura. Per questo, Pizango ha chiesto asilo all’ambasciata del Nicaragua a Lima. La maggioranza parlamentare governativa ha accusato la sinista, il Partito nazionalista peruviano e il suo leader Ollanta Humala, nonché i mezzi di comunicazione amazzonici di «aver istigato atti di violenza degli indigeni contro la polizia» e ha minacciato di aprire un’inchiesta per terrorismo. Il conflitto era iniziato il 9 aprile con la mobilitazione dei popoli amazzoni, occupazioni di strade e condutture di petrolio e gas, contro l’applicazione di una serie di decreti presidenziali nel quadro delle norme del Trattato di libero scambio firmato tra Perù e Stati Uniti. Alcuni giorni dopo la protesta e il massacro, però, il governo è stato costretto a sospendere due decreti, i più contestati dagli indigeni, la Ley de aguas e la Ley de tierras.


Il cane dell'ortolano

L’inizio delle trattative con gli Stati Uniti risale al maggio del 2005, durante il governo di Alejandro Toledo [2000-2005]. Il trattato era destinato a sostituire la Legge di promozione andina e sradicamento delle droghe, firmata nel 2002 e in vigore fino a dicembre del 2006. Il Tlc elminia gli ostacoli allo scambio commerciale e inoltre facilita l’accesso a beni, servizi e flussi di capitale, ma include anche un’ampia gamma di temi legati alla protezione dei brevetti, agli appalti pubblici e per i servizi, e alla soluzione delle controversie. Il Tlc è stato sottoscritto a Washington l’8 dicembre del 2005, da Alan Garcia e George W. Bush. A giugno del 2006 è stato ratificato dal Perù e a dicembre del 2007 dal Congresso degli Stati Uniti. Il primo febbraio 2009 il Tlc è entrato in vigore, dopo un’ulteriore firma di Garcia e Bush, avvenuta il 16 gennaio di quest’anno. La firma del Tlc ha provocato grandi mobilitazioni nel 2005, soprattutto da parte dei contadini che si sono mostrati essere il settore più colpito dall’eliminazione delle barriere doganali e tariffarie. Anche se il governo aveva assicurato che ci sarebbero state delle compensazioni, non si è mai visto nulla. Il 18 febbraio 2008 c’è stata lo sciopero nazionale agrario, con occupazioni di strade in tutto il paese, e con un bilancio finale di quattro morti per la repressione poliziesca e l’imposizione dello stato di emergenza in otto province. Il 28 ottobre del 2007 Alan Garcia ha pubblicato un lungo articolo sul giornale El Comercio, di Lima, dal titolo «La sindrome del cane dell’ortolano». Garcia considera la natura come una risorsa e sostiene che sia una follia impedirsi di sfruttarla, lasciando da parte qualsiasi dibattito sulla protezione dell’Amazzonia : «Il vecchio comunista anticapitalista del secolo diciannovesimo si è trasformato nel protezionista del ventesimo e nel ventunesimo secolo cambia nuovamente casacca per diventare ambientalista», ha scritto. Secondo lui, quelli che si oppongono allo sfruttamento intensivo dell’Amazzonia sono come il cane dell’ortolano, che «non mangia e non lascia mangiare». «Ci sono milioni di ettari di legno che sono da sfruttare, e altri milioni di ettari che le comunità e le associazioni non hanno coltivato, né mai coltiveranno, e poi centinaia di miniere che non si possono sfruttare e milioni di ettari di mare, nei quali non entrerà mai l’itticoltura e la produzione. I fiumi che scendono da uno e dall’altro lato della cordigliera, se ne vanno al mare senza produrre energia elettrica», dice nel suo articolo. «La prima risorsa è l’Amazzonia», assicura Garcia. Sono 63 milioni di ettari, che secondo lui vanno divise in grandi proprietà da «5 mila, 10 mila o 20 mila ettari, perché in terreni più piccoli non ci possono essere investimenti di lungo periodo e di alta tecnologia». A proposito della terra, sottolinea che non si deve «consegnare piccoli lotti di terreno a famiglie povere che non hanno un centesimo da investire» e che «questa stessa terra venduta in grandi appezzamenti attrarrebbe la tecnologia». A Garcia importa poco che queste terre siano proprietà collettiva delle comunità, visto che, secondo lui, «sono solo terre incolte, perché i padroni non hanno formazione e risorse economiche, pertanto la loro proprietà è solo apparente».
Il TLC e i decreti legislativi

In base a questa logica di trasformare tutto in merce, il governo ha chiesto al Congresso nazionale di concedergli la facoltà di legiferare sui temi relativi all’applicazione del Tlc attraverso Decreti legislativi. Il 19 dicembre del 2007, il Congresso ha dato al governo piena facoltà per legiferare, per sei mesi, sulle materie legate al Tlc, attraverso la legge numero 29157. Protetto da questa investitura, il governo ha elaborato 99 decreti che sono alla base della protesta attuale. Un rapporto giuridico indipendente elaborato da Oxfam America conclude che il potere esecutivo ha approfittato delle facoltà cedute temporaneamente dal Parlamento «per emanare un ampio numero di norme con nessuna o pochissima relazione effettiva con il Tlc, distorcendo e snaturando i termini della delega legislativa approvata dal Congresso». Di conseguenza, il rapporto stabilisce che «questi decreti possono essere considerati incostituzionali per questioni di forma», tanto da «meritare l’abrogazione» da parte del Congresso stesso o del Tribunale costituzionale nazionale. Inoltre, Oxfam segnala che attraverso i 99 decreti, «si è cercato di attuare una riforma sostanziale della struttura organizzativa e delle competenze delle diverse articolazioni dello stato, così come del regime regolamentare applicabile ad attività economiche di particolare rilevanza», senza relazione stretta con il Tlc. I più controversi sono i decreti numero 1015 e 1073, dichiarati incostituzionali sulla base del rapporto di Oxfam, perché modificano il numero dei voti necessari a decidere di vendere le terre comunitarie [solo tre voti sono sufficienti]. Il 1015 è stato abrogato dal Congresso nell’agosto del 2008. Il decreto numero 1065 [Regole per lo sfruttamento delle terre di uso rurale] svuota di ogni effetto la norma che prevede l’accordo preventivo delle comunità per l’avvio di progetti e anche questo è stato dichiarato incostituzionale. Il decreto 1083 [Promozione dello sfruttamento efficiente e della conservazione delle risorse idriche] favorisce la privatizzazione dell’acqua per i grandi utenti come le imprese minerarie. Inoltre, i decreti numero 1081, 1079 e 1020 liberalizzano diversi aspetti della legislazione in settori come lo sfruttamento minerario, del legname e degli idrocarburi. È stato però il decreto 1090 [Legge forestale e della fauna silvestre] uno dei nodi centrali della polemica. Il testo lascia fuori dal regime forestale 45 milioni di ettari, ossia il 64 per cento dei boschi del Perù, con la loro biodiversità di flora e fauna, che potrebbero essere venduti alle imprese multinazionali. Il 9 aprile 2009 le 1350 comunità che fanno parte di Aidesep hanno deciso, di comune accordo, di iniziare le mobilitazioni nei rispettivi territori. Il primo ministro Yehude Simon, ex alleato del gruppo armato Movimento rivoluzionario Tupac Amaru [Mrta], ha definito pochi giorni dopo le richieste degli indigeni come «capricci». Il 5 maggio i vescovi di otto diocesi cattoliche hanno chiesto al presidente Garcia di abrogare i decreti perché erano «una minaccia per l’Amazzonia». Il 10 maggio il governo ha decretato lo stato d’emergenza in cinque regioni del paese dove c’erano stati i blocchi di strade e la paralisi di porti e oleodotti. Il 19 maggio, la Commissione affari costituzionali del parlamento ha dichiarato incostituzionale il decreto 1090. Il rapporto redatto dalla Commissione stabilisce nelle sue conclusioni che il decreto «non rispetta i limiti fissati dagli articoli 101 e 104 della Costituzione sulle materie sulle quali è proibito legiferare». Inoltre, «contravviene all’articolo 66 della Costituzione, perché regola la materie delle risorse naturali, riservata alla legge ordinaria». Insomma, i legislatori sono stati d’accordo nel ritenere che il potere esecutivo non ha la facoltà di legiferare su certe materie, secondo quando stabilito dalla Costituzione, compito che spetta al solo Congresso. La decisione della comissione avrebbe dovuto essere discussa nel plenum del parlamento, ma il 22 maggio la ministra della giustizia Rosario Fernandez ha denunciato per sedizione e cospirazione Alberto Pizango. Il 26 maggio awajùn e wampis hanno occupato la strada Belaunde Terry sulla Curva del Diavolo e circa 1200 indigeni controllavano la stazione petrolifera numero 6. Il 26 maggio c’è stata una massiccia mobilitazione a Lima, in appoggio alla lotta amazzonica. Il 28 gli abitanti delle comunità della selva di Cusco hanno occupato un secondo snodo dell’oleodotto Kamisea. Il primo giugno, industriali ed esportatori hanno chiesto al governo di «applicare la legge» per liberare le strade e gli oleodotti amazzonici. Il 2 giugno la presidente del Forum permanente delle Nazioni Unite per le questioni indigene ha chiesto al governo peruviano di «sospendere immediatamente lo stato d’assedio contro le comunità e le organizzazioni indigene» e di «evitare qualsiasi azione, come un intervento militare, che possa far crescere il conflitto». Il 4 giugno la maggioranza parlamentare filo-governativa ha deciso di sospendere il dibattito sulla costituzionalità del decreto 1090 e la Defensoria del pueblo ha presentato un ricorso per presunta incostituzionalità del decerto 1064. Il 5 giugno 639 agenti del Dipartimento operazioni speciali e personale delle forze armate hanno attaccato gli indigeni sulla Curva del Diavolo, causando decine di morti e centinaia di feriti e desaparecidos.
Il massacro nelle carceri
Il 18 luglio 1986, alle sei del mattino, i prigionieri politici di Sendero Luminoso nelle carceri di San Juan de Lurigancho e di El Fronton, nonché del carcere femminile di Santa Monica, a Lima e a Callao, si ammutinarono in modo coordinato. La rivolta scattò durante la celebrazione del congresso dell’Internazionale socialista a Lima, dove partecipava anche il Partito Aprista peruviano, guidato dall’allora presidente Alan Garcia. I prigionieri avevano un documento con 26 richieste legate al miglioramento delle condizioni di detenzione. Una riunione del consiglio dei ministri diede incarico alle forze speciali della marina di riprendere il controllo delle prigioni. Il primo fu il carcere femminile, di cui si fece carico la Guardia repubblicana, che abbatté una parete, lanciò gas narcotizzanti e liberò gli ostaggi, con un bilancio di due detenute uccise. A mezzanotte cominciò l’attacco all’isola-carcere del Fronton da parte della fanteria di marina. Il direttore del carcere, il giudice e il pubblico ministero protestarono per la presenza dei soldati, a cui venne negato l’accesso alla struttura. Nell’assalto morirono tre soldati, un ostaggio e 135 prigionieri, con appena 34 sopravvissuti. A Lurigancho operarono la gendarmeria e l’esercito, con un saldo di 124 prigionieri uccisi e nemmeno un soldato. Lo scandalo nazionale e internazionale fu enorme. Americas Watch assicurò che si era trattato «del più devastante attentato ai diritti umani in Perà negli ultimi decenni», e che «gran parte dei prigionieri furono uccisi a sangue freddo dopo che si erano arresi». La Corte interameicana per i diritti umani [Cidh] condannò gli eventi e una commissione parlamentare riuscì a trovare abbastanza prove da determinare la responsabilità politica del presidente. Tuttavia, Alan Garcia concesse l’impunità ai responsabili dei massacri. Il viceammiraglio Luis Gianpietri Rojas, capo delle truppe della marina a El Fronton, è l’attuale vicepresidente del secondo governo di Alan Garcia. La Commissione per la verità e la riconciliazione ha sostenuto che la mattanza è stato un punto di svolta nella politica antiterrorista, poiché fino a quel momento Alan Garcia aveva mostrato interesse a frenare le costanti violazioni dei diritti umani commesse dalle forze armate, ma a partire da quel momento scatenò la repressione. Con precedenti simili, si teme che la represione possa acutizzarsi anche in questo momento. La protesta amazzonica non è calata di intensità dopo il massacro: la quasi totalità dei 56 popoli indigeni amazzonici ha affermato di essere disposta a continuare la lotta fino a quando il governo non avrà ritirato i decreti legislativi che violano la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro e i diritti sui loro territori. Secondo tutti i testimoni, la situazione è ancora esplosiva. Nel tardivo tentativo di disinnescare la tensione, il 10 giugno il Congresso con i voti dell’Arpa e dei fujimoristi (sostenitori dell’ex presidente Alberto Fujimori) ha approvato la sospensione di due dei nove decreti più contestati dagli indigeni. I decreti 1090 e 1064 sono stati sospesi indefinitamente. La decisione può essere solo una manovra per guadagnare tempo oppure aprire spazi per un negoziato. Tuttavia, tanto lo sciopero amazzonico quanto le marce nelle principali città del paese sono state confermate dopo che è stata resa nota la parziale retromarcia del governo. Hugo Blanco, leggendario attivista peruviano ed editore del mensile Lotta indigena, abbozza in un suo editoriale uno sguardo di lungo periodo: «Dopo 500 anni di silenzio, gli amazzonici hanno ricevuto l’appoggio dei popoli del Perù e del mondo. Può essere che la maggiore vittoria di queste giornate sia proprio dare visibilità a questi popoli, tessendo relazioni tra i diversi settori del paese, divisi da quelli che ci dominano. Difendendo l’Amazzonia, stanno difendendo la vita di tutta l’umanità e non cedendo davanti agli inganni del governo, stanno riscrivendo la storia e stanno recuperando per tutti il senso della parola dignità».

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!