mercoledì 22 luglio 2009

La road map di Abdullah Ocalan

Sarà resa pubblica tra metà agosto e il primo settembre la road map proposta dal presidente del Pkk Abdullah Ocalan.
Una proposta di pace che starà al governo turco decidere se cogliere o meno. Il Pkk dal canto suo ha prolungato il suo cessate il fuoco unilaterale fino al primo settembre proprio per consentire al presidente Ocalan di terminare la stesura della ‘yol haritasi’, la road map appunto. Un documento che conterrà le proposte e le considerazioni che in questi mesi sono state discusse e approvate in Kurdistan, Turchia e Europa. Dagli intellettuali alle organizzazioni kurde della società civile, dai rappresentanti politici kurdi ai guerriglieri, tutti hanno avuto occasione di dire la loro sulla formulazione di una proposta per una soluzione negoziata del conflitto kurdo-turco.

Nelle settimane scorse Murat Karayilan, membro del comitato centrale del Pkk, ha rilasciato un’intervista al giornalista di Milliyet Hasan Cemal.

Riproponiamo qui i punti salienti dell’intervista.
“Nessuno – dice Karayilan – può sconfiggere il Pkk militarmente e questo è ampiamente dimostrato dal conflitto in atto ormai da 25 anni”. Karayilan sottolinea dunque i primi passi da compiere. “Dopo che si è assicurato che entrambe le parti coinvolte nel conflitto avranno cessato le azioni militari, il passo successivo è negoziare con Abdullah Ocalan. Se la Turchia non vorrà negoziare con Ocalan, l’alternativa è negoziare con la leadership del Pkk. Se anche questo non sarà accettato l’alternativa è negoziare attraverso il Dtp o un ‘comitato di uomini saggi’, composto da persone rispettate. Questo comitato potrà avviare un dialogo con lo stato”.

Karayilan elenca quindi le richieste del Pkk al governo.

1. Il governo di Erdoğan non dovrà consegnare il problema kurdo nelle mani dei militari. Lo stato dovrà rispettare il Pkk e questo permetterà di rimuovere le armi da questo conflitto.

2. I generali dell’esercito turco hanno positivamente cambiato la loro opinione sulla questione kurda, tuttavia ancora non sono i politici a guidare il processo.

3. Ankara dovrà prendere in considerazione la situazione del leader del Pkk Ocalan e dei 4000 prigionieri del Pkk.

4. Un nuovo contratto sociale deve essere stabilito.

5. Il governo dovrà dimostrare empatia verso il Pkk.

6. Dopo le elezioni del 29 marzo ci si aspettava un certo ammorbidimento nelle posizioni turche, ma è avvenuto il contrario. E’ cominciata l’operazione contro il Dtp. Si tratta di un massacro politico. I risultati del 29 marzo sono un messaggio di pace.

7. Noi – dice Karayilan – abbiamo teso la nostra mano per stringere quella della Turchia in segno di pace. La Turchia non dovrà lasciare vuote le nostre mani.

Karayilan continua:“La prima cosa è silenziare le armi. Nessuno dovrà attaccare. Dobbiamo cominciare il lavoro con il dialogo, non con le armi. Siamo arrivati a un punto importante, c’era stata un’opportunità per la pace nel 1993, ma è stata persa. Non perdiamo anche questa, non vogliamo altro sangue. Perché gli anni passeranno e finiremo allo stesso punto. La Turchia verserà ancora sangue e il Pkk non potrà essere finito manu militari”.

Quanto alla deposizione delle armi, come precondizione, Karayilan è chairo. ” Deporre le armi è una fase successiva. Prima le armi devono essere mute. Nessuno deve usarle. Nella prima fase le armi saranno mute… quindi comincerà il dialogo. Bisogna essere chiari su un punto: non siamo saliti in montagna perché siamo impazziti. Non siamo saliti in montagna nemmeno per fare un picnic o una scampagnata. Dire che il Pkk dovrebbe consegnare le armi è un’affermazione vuota. E’ sparare in aria. Dove dovrebbe lasciare le armi? Come? A chi? Su quale base? E’ privo di senso dire di consegnare le armi. Prima sediamoci e dialoghiamo. Naturalmente è impossibile andare avanti se si continua a chiamare il Pkk una organizzazione terroristica”.

Adesso chiediamo “un Kurdistan democratico e autonomo”. Quello che intendiamo per autonomia non significa federazione. Non si tratta di ritracciare confini. Quella che proponiamo è una soluzione che preserva l’unità dello stato. La legislazione delle amministrazioni locali deve cambiare, le amministrazioni locali devono essere rafforzate.

Honduras: giovedì sciopero generale

Attivisti del movimento sociale perseguitati
Stati Uniti ed Unione Europea congelano i fondi destinati al paese

I direttivi ampliati delle organizzazioni operaie più importanti in Honduras, hanno deciso all'unanimità la realizzazione di uno sciopero generale dei lavoratori per questo giovedì 23 e venerdì 24.
La notizia è stata diffusa da Juan Barahona, dirigente del 'Frente Nacional de Resistencia contra el Golpe de Estado' aggiungendo che la Central General de Trabajadores (CGT), la Confederación de Trabajadores de Honduras (CTH) e la Confederación Unitaria de Trabajadores de Honduras (CUTH), avrebbero deciso inoltre di intensificare in questi giorni il blocco delle strade e la chiusura di tutte le istituzioni pubbliche del Paese.

Stati Uniti ed Europa congelano i fondi
Come reazione alla persistente e fino ad ora irrisolta crisi politica in Honduras, la Commissione Europea ha annunciato oggi che congelerà 65,5 milioni di euro di aiuti stanziati per questo paese.
Un comunicato divulgato lunedì riferisce che date le circostanze e l'impossibilità di trovare un'uscita, la CE sospende tutti gli aiuti in bilancio destinati al governo illegale di Tegucigalpa.
Gli Stati Uniti hanno sospeso programmi di aiuti militari per 16,5 milioni di dollari e minacciano di cancellare altri 180 milioni. Nei primi giorni dopo il golpe, la Banca Mondiale e la Banca Interamericana di Sviluppo hanno trattenuto crediti per una cifra stimata in 200 milioni di dollari per quest'anno.
“La mia posizione è categorica”, ha detto Micheletti in una riunione pubblica. “Vogliamo dimostrare al mondo intero che anche se all'improvviso non abbiamo denaro, non abbiamo petrolio, non abbiamo dollari, manteniamo un'enorme volontà per poter sostenere questa situazione”.
“Abbiamo delle potenzialità da sfruttare se le negoziazioni falliranno”, ha detto Philip Crowley, portavoce del dipartimento di Stato.

Il Battaglione 3-16 controlla gli attivisti del movimento sociale
L'ex capitano di polizia Billy Joya Amendola, sinistro personaggio membro del Battaglione 3-16 che ha perseguitato, torturato e fatto sparire centinaia di compatrioti negli anni ottanta, torna alla ribalta per perseguire dirigenti del movimento sociale. La denuncia del presidente del Colegio de Profesores de Educación Media de Honduras (Copemh), Eulogio Chávez oggetto di pedinamenti da parte di paramilitari diretti dall'ex capitano di polizia, che conferma la grave situazione che vivono attivisti e attiviste del movimento sociale honduregno che si sono espressi contro il colpo di stato in Honduras.

Il Battaglione 3-16 ha circondato la comunità di Guadalupe Caney
Il XV battaglione e la Polizia che avevano circondato la comunità di Guadalupe Caney, da sabato hanno cominciato a stringere il cerchio, mentre sorvolava un elicottero della Polizia. Un portavoce della comunità ha detto che hanno già provato ad assaltare la comunità, ma i militari sono stati respinti dalle migliaia di famiglie che abitano Guadalupe Carney. Questa è una comunità contadina che dall'anno 2000 vive un processo di riforma agraria, sempre ostacolata da parte dei militari. Giovedì il periodico golpista “Heraldo” ha pubblicato un articolo secondo il quale in questa comunità esiste una cellula guerrigliera, “senz'altro un un modo per creare le condizioni per giustificare un massacro”, ha affermato il Frente de la Resistencia.“Conosciamo bene il discorso dei golpisti, cominciando dal Cardinale Andrés Rodríguez Maradiaga (arcivescovo di Tegucigalpa), che suggerisce che il Presidente Costituzionale Manuel Zelaya non debba ritornare in Paese per evitare un bagno di sangue”. Tutto questo è indicatore che stanno preparando un attacco di massa e sanguinoso.

martedì 21 luglio 2009

Che ce ne frega della Colombia?

di Dario Ghilarducci

Mentre il governo italiano viene ripetutamente ripreso dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea per le sue violazioni dei diritti umani in merito alle politiche contro i migranti e la maggior parte del popolo si domanda che cosa siano i diritti umani in una “democrazia avanzata” come la nostra e rimane instupidito ad osservare il carosello dei festini del premier e le processioni delle ronde, dall’altra parte dell’Atlantico in Colombia, una “democrazia sui generis”, i difensori dei diritti umani, quelli veri, sono ancora una volta al centro del mirino.

Ma dov’è la Colombia? Non è il paese di Pablo Escobar? Non è quel posto dove c’è un sacco di violenza e si sparano da decenni? Non sono tutti narcotrafficanti da quelle parti? Dopo tutto che cosa ce ne dovrebbe interessare? La Colombia è così lontana e poi è sempre la solita storia, violenza, narcotraffico e dopo tutto è una repubblica delle banane, dopo tutto sono dei barbari senza speranza e poi da quelle parti i corrotti, i criminali al potere e le dittature sono normali...

Certo però Escobar qua da noi riscuote ancora successo se non più di pochi anni fa un sacco di gente esibiva orgogliosa magliette che lo indicavano come il loro pusher personale e poi lo sapete come si chiamava la “hacienda” (il podere, si fa per dire...) di Pablo? Non ci crederete ma si chiamava Napoles, si vede che per lui non era Gomorra, ma la terra promessa. Poi, diciamoci la verità, la cocaina ci piace un sacco e ormai ci rende tutti un po’ più simili, da Lapo Elkan agli operai dei cantieri, una nuova livella sociale insomma, tutti democraticamente avanzati e...intossicati.

Che vuoi che sia poi se la cocaina incrementa i proventi delle organizzazioni criminali come la mafia, la camorra e la ’ndrangheta, d’altra parte non ci si può mica sempre preoccupare di tutto e poi se uno sta a vedere ’ste cose, non bisognerebbe neppure bere la Coca-Cola, consumare prodotti Nestlé o le banane Chiquita, dato che tutti questi signori da quelle parti hanno fatto un sacco di brutte cose.

Dopo tutto poi noi italiani dovremmo essere grati ai narcotrafficanti, perché come dice il responsabile, nostro compatriota, dell’Ufficio delle Nazioni Unite contra la Droga e il Crimine, Antonio Maria Costa, un sacco di banche sono state salvate dalla crisi proprio dai proventi illegali derivanti dal traffico di droga, che gode di ingenti somme di contanti da reinvestire e ripulire.
Ovviamente il nostro si guarda bene dal dire che le banche italiane abbiano tratto beneficio da questi fondi, ma guarda caso tanto le nostre banche, quanto quelle colombiane, godono quasi tutte di buona salute, nonostante una crisi globale che scuote il capitalismo alle sue fondamenta, ma da noi si sa, non hanno comprato “titoli tossici”...

E allora perché no? Non avrà ragione il presidente Berlusconi, che di mafiosi e narcotrafficanti se ne intende, tanto che uno lo ha tenuto per anni come stalliere e lo ha definito pure “eroe”, quando ci dice di non pensare alla crisi, che è tutta una questione psicologica e che presto si risolverà tutto? Ma si, un paio di righe e via, tiriamoci su e tutti a produrre, o meglio ancora a consumare, che altrimenti si inceppa il sistema.

Sapete che vi dico, non siamo poi troppo diversi da questi colombiani, magari siamo meno eclatanti, un po’ meno rumorosi e il sangue forse ci dà un po’ più fastidio che a loro, ma a pensarci bene alla fin fine abbiamo un sacco di cose in comune. La criminalità che detta legge, infiltra e contamina tutti i livelli del potere sia locale che nazionale non è certo un’esclusiva sudamericana. Quanto poi a corruzione e corrotti non siamo secondi a nessuno, per non parlare poi di dittature e non solo perché il fascismo lo abbiamo inventato noi, ma perché come sempre siamo all’avanguardia e ci stiamo cimentando proprio adesso nella strutturazione di nuove architetture istituzionali al passo con i tempi, che nell’era di internet, della comunicazione e dei mass media possano dare nuova linfa vitale e una forma di esercizio del potere che dall’antica Grecia in avanti, aveva proprio bisogno di qualche ritocco, né più né meno che la faccia del nostro premier prima di presentarsi alla stampa.

Dai però bisogna dire le cose come stanno, da noi non ammazzano la gente come in Colombia, non facciamo mica sparire la gente nelle fosse comuni dopo averla fatta a pezzi con la motosega, anche in questo siamo più puliti, vuoi mettere sciogliere i bambini nell’acido? Il problema è risolto alla radice e non restano neppure le tracce.

Ci sarà anche l’esercito che pattuglia le nostre città, però almeno da noi non si aggirano squadroni della morte paramilitari dando la caccia ai disperati che vivono in strada, noi che siamo persone civili organizziamo ronde di distinti cittadini che si offrono volontari per dare una mano a polizia e carabinieri e per il momento pensate un po’, quei poverini sono addirittura disarmati...

Una cosa è certa siamo più belli dei colombiani. Questo sì non ce lo può togliere nessuno, loro sono bruttini, in particolare gli uomini, le donne invece gran belle figliole e poi calde, accoglienti, anche già da giovanissime. Deve essere proprio il nostro fascino “latino” (e loro che sono?!?) che fa cascare tra le braccia di turisti italiani così tante minorenni a Cartagena che la nostra ambasciata per la vergogna ha finanziato pure un progetto contro la prostituzione minorile.

Comunque se è vero che la maggior parte degli italiani che visitano la Colombia non sono proprio stinchi di santo, anche certi colombiani che vengono dalle nostre parti non sono proprio personcine per bene. Non riesco a togliermi dalla testa, che durante il passato governo Berlusconi, proprio quando l’integerrimo Gianfranco Fini, convinto proibizionista e nemico di tutte le droghe, in particolare quelle leggere (vedi la legge Fini...) era Ministro degli esteri, l’ambasciatore colombiano a Roma – Luis Camilo Osorio – e il console generale a Milano – Jorgue Noguera Cotes – erano allora tra i personaggi più discussi ed oggi inquisiti entrambi ed in carcere (il secondo) per nessi con i paramilitari e narcotrafficanti...

Insomma se di barbarie vogliamo parlare, anche in questo caso non siamo secondi a nessuno al punto che ci si stupisce quando di fronte alle devastazioni di un terremoto annunciato come quello abruzzese, gli italiani si riscoprono solidali e “brava gente”. Il minimo direi, oppure siamo davvero migliori dei colombiani?
Comunque su di un punto sono proprio più bravi di noi, per quante lezioni possiamo prendere, per quanto ci possiamo sforzare, per quanta “bamba” possiamo consumare – e siamo già tra i primi al mondo – non riusciremo mai a ballare bene come loro. Eh si, questo lo sanno fare proprio bene, pare che ce l’abbiano nel sangue e c’è dell’altro. Molto di più.

C’è un senso profondo di dignità e perché no di ribellione contro l’ingiustizia che da quelle parti non si è mai spento e che da noi stenta ogni giorno di più a riaffiorare. C’è uno sforzo permanente per costruire quella democrazia che da noi credevano di aver raggiunto e che si sta sgretolando ogni giorno di più. C’è la lotta civile e instancabile di chi rischia tutto, la vita sua e dei suoi cari per uno stato di diritto, per una pace giusta, per un futuro degno per tutti.

Ci sono i difensori dei diritti umani, cosa da noi sconosciuta, perché abbiamo dato ormai per acquisiti tutta una serie di cose, che non ci rendiamo neanche più conto quando ce le sottraggono lentamente, in maniera sottile però costante, troppo persi ad assomigliare al palestrato o alla velina di turno, perché alla fine siamo ancora i più belli e l’importante è sorridere e far finta di nulla come ci insegnano i nostri vertici di governo. E da noi neppure ti ammazzano se reclami diritti, o per lo meno succede ancora di rado...

Ma che fanno ’sti benedetti difensori dei diritti umani e soprattutto a che servono? Riassumerei il loro lavoro con una frase: cercano di costruire una democrazia su basi di dignità a giustizia sociale. Si perché in Colombia, come dicevano prima la democrazia non è avanzata come la nostra dove addirittura si fanno proposte di legge per imporre l’oblio di stato su internet sulle vicende legali dei potenti, ma pensate un po’, da quelle parti e in quelle democrazie sui generis, si lavora ancora per la memoria, la dignità e la giustizia sociale.

Che schifo vero? Che te ne fai della memoria se ti puoi fare un paio di pezzi il sabato sera e magari ogni tanto ce la fai pure a mettere il culo su di un tavolo riservato in una discoteca “in” proprio come fanno i VIP dell’Isola o del Grande Fratello. E la giustizia sociale? Ma che roba è? Silvio ce lo ha dimostrato, se uno lavora sodo e si impegna ce la può fare da solo e magari sfonda in TV, oppure una botta di culo e vinci il superenalotto, il gratta e vinci o un paio di tornei di Texas Hold ’Em. La dignità? L’importante è l’orgoglio! Siamo italiani, viviamo nel “bel paese” e che vuoi che siano un po’ di monnezza, 4 lager per migranti e qualche altra piccola magagna?

Da noi evidentemente non c’è molto da costruire, al contrario in Colombia sì e c’è pure chi cerca di farlo, ma la cosa non è tanto semplice e chi ci prova è sottoposto costantemente a minacce, aggressioni alla propria persona, ai propri cari, alla propria privacy. Si perché da noi l’unica privacy che conta è quella dei potenti, dal premier in giù passando per tutte le icone della TV attraverso il grande carrozzone della politica istituzionale nel suo complesso e allora diventa una questione di stato e un complotto della sinistra che controlla i media nazionali ed esteri.

Invece nelle repubbliche delle banane come la Colombia, i complotti si fanno ancora contro la sinistra, quella vera che da quelle parti ancora esiste ed è sinonimo di democrazia, partecipazione, diritti, giustizia sociale. Mentre da noi si perde tempo a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle amichette del “papi” e sui “pompini” telefonici delle ministre/veline, in Colombia i servizi segreti attaccano le più rappresentative organizzazioni che difendono i diritti umani, oltre a giornalisti e oppositori in genere.

Cerchiamo di capirci, NON STIAMO PARLANDO DI GUERRIGLIERI, quelli direbbe qualcuno, sono stati più furbi e si sono organizzati per tempo per pararsi il culo, ma di civili, di organizzazioni legali, democratiche e internazionalmente riconosciute come il Colectivo de Abogados José Alvear Restrepo con sede a Bogotá. I suoi membri (e non solo loro) sono stati oggetto di una massiccia operazione di spionaggio offensivo e strategico da parte del DAS (i servizi colombiani), che non si è limitato a forme totali di controllo sui soggetti interessati, ma si è spinto ben oltre con azioni di boicottaggio diretto e minacce sia contro gli avvocati che contro i loro familiari, inclusi i figli minorenni.

Ma ancora una volta, a noi italiani che ce ne frega? Dopo tutto le violazioni in Colombia sono anche il prezzo da pagare per continuare ad avere fiumi di cocaina a prezzi sempre più bassi che inondano i nostri mercati e non è certo colpa di tutto il paese se uno dei massimi leader paramilitari era un italiano, Salvatore Mancuso adesso in carcere negli Stati Uniti. E alla fin fine meglio loro che noi, o mi sbaglio?

Ma siamo proprio sicuri che non stiamo già pagando il prezzo della scelta di non vedere, di girarsi altrove, di non preoccuparci troppo, semplicemente di rincoglionire così come ci viene chiesto dall’alto senza porre troppi problemi. Per quanto ancora potrà reggersi un paese come il nostro, che ogni giorno di più si fonda sulla demenza collettiva, sulle mafie che se ne alimentano e sul narcotraffico che qua come in Colombia fa da carburante? Se in Italia adesso pare non esserci molto da costruire, questa non potrà che essere una condizione passeggera, perché quando l’invasione barbarica sarà terminata, ci sarà parecchio da lavorare.

Una volta un grande avvocato cileno, uno dei primi difensori dei diritti umani della storia mi disse che lui era un esperto di diritto amministrativo e che fu il colpo di stato di Pinochet ad obbligarlo ad inventarsi difensore dei diritti umani e che tutto ciò aveva segnato e completamente cambiato la sua vita irrimediabilmente. Non so perché, ma questa affermazione tanto scontata allora mi colpì profondamente ed il significato riesco a comprenderlo solo oggi. L’importanza di creare un precedente, di costruire memoria viva e di gettare le basi di qualcosa che verrà raccolto solo in futuro.

Il lavoro di Roberto Garreton (questo il nome dell’avvocato) in Cile durante la dittatura di Pinochet ha inciso solo marginalmente sulla barbarie della dittatura, ma è servito a mantener viva la democrazia come resistenza civile alla violenza imposta del potere, è servito a costruire memoria, a creare un precedente e persino quella che in gergo tecnico si definisce “dottrina” nel campo del diritto internazionale dei diritti umani.

Oggi nell’epoca della globalizzazione, dove non esistono (o quasi) confini alla comunicazione, siamo chiamati a sentire come nostro ogni sforzo realmente democratico e ogni resistenza alla barbarie, ma soprattutto siamo chiamati ad apprendere fin da subito quegli strumenti che da qui a breve saranno necessari anche a noi, per imparare se non altro a comunicare con altri linguaggi che per pigrizia, leggerezza o cecità non abbiamo saputo approfondire.

I difensori dei diritti umani in Colombia sono patrimonio collettivo dell’umanità e lo sono in particolare degli italiani che se non sono riusciti a comprendere dalla loro resistenza che la democrazia è un processo in costruzione e non un dato acquisito, saranno costretti in futuro ad andare ad imparare che cosa significa difendere i diritti umani.

L'oriente come il Far West: Far East

Segnaliamo questo eccezionale documento, mandato in onda su Rai 3 pochi giorni fa, per approfondire quello che sta succedendo nel Far (W)East russo dello sceriffo Putin (pupillo del nostro papi Berlusconi) e dei suoi scagnozzi armati polizia e neonazisti. Una realtà dove repressione si traduce molto spesso in assassinio, a danno di compagne e compagni che con molto coraggio si battono per verità, giustizia e libertà in un paese che ha fatto del potere corrotto, dell’intolleranza e del razzismo le proprie bandiere, spacciandosi per paese democratico, riconosciuto e sostenuto dalle istanze internazionali in primis dal nostro governo. … guardatelo!...


Far East di Paolo Serbandini e Giovanna Massimetti.

Gli autori di "211: Anna", il documentario della precedente serie su Anna Politkoskaya, tornano nell'impero di Putin per raccontare la realtà del Caucaso sconosciuto, teatro di violenze e violazioni dei diritti umani. Attraverso la storia dell'avvocato Marcelov, impegnato a denunciare la nascente onda xenofoba e razzista, ci immergiamo nell'incubo di cupe cerimonie in cui vengono impiccati gli immigrati e organizzati veri e propri progrom. L'avvocato Marcelov sarà assassinato insieme alla sua fidanzata, Tania.

Documento di eccezionale crudezza che ci svela una realtà praticamente sconosciuta in Italia.

Far East : Prima parte
Far East : Seconda parte
Far East : Terza parte
Far East : Quarta parte
Far East : Quinta parte

Cosa è successo in Amazzonia

Intervista a Francisco Soberòn, direttore dell’Asociación Pro Derechos Humanos (APRODEH) su quanto avvenuto recentemente in Amazzonia



di Annalisa Melandri

E’ trascorso ormai più di un mese dalla violenta repressione nell’Amazzonia peruviana con la quale il governo di Alan García ha posto fine alla protesta organizzata del movimento indigeno e di ampi settori della società che chiedevano la revoca di alcuni decreti legislativi che minavano profondamente la sovranità indigena su quel territorio ma soprattutto la protezione di uno degli ecosistemi più importanti del pianeta. Al termine di una settimana di scontri violenti che hanno lasciato un saldo di circa 50 morti tra civili e membri di polizia, un numero considerevole di feriti e alcuni casi di persone scomparse, il Congresso ha ritirato due dei decreti legislativi oggetto di contestazione. Si è parlato di vittoria del movimento indigeno, tuttavia resta da far chiarezza sulla sospensione dello stato di diritto che si è verificata in quei giorni e che ha portato a gravi violazioni dei diritti umani da parte del Goveno. Solo da questo si può partire per un dialogo costruttivo tra le parti che al momento è sospeso.

Come ci racconta Francisco Soberòn, direttore dell’Asociación Pro Derechos Humanos (APRODEH) del Perú, nominato insieme ad altri 50 difensori dei Diritti Umani “che stanno cambiando il mondo” da Terry Kennedy Cuomo nel suo libro dal titolo “Dire la verità al potere” edito da Random House nel 2000.

Annalisa Melandri - Durante le giornate della dura repressione a Bagua, in Amazzonia, ci sono state testimonianze di indigeni gettati dagli elicotteri nei fiumi Marañon e Utcubamba. Avete potuto verificare queste notizie?
Francisco Soberón
- Sì. Persone che si trovavano in quella zona nel giorno in cui sono avvenuti i fatti hanno testimoniato di aver visto come i cadaveri venivano caricati sugli elicotteri e gettati nei fiumi. Altre persone hanno riferito che alcuni indigeni sono stati uccisi sulle sponde del fiume e poi gettati in acqua.

A.M. - Ci sono casi di persone scomparse a Bagua? Quante denunce avete ricevuto?
F.S.
– Si sono verificate molte situazioni irregolari, per esempio rispetto al fatto che nella zona della “Curva del Diablo” è stato impedito per 5 giorni l’accesso a persone, giornalisti, familiari, organizzazioni di difesa dei diritti umani. Questo stato di cose ha creato nella popolazione il sospetto che ci possano essere stati casi di sparizioni di persone. Quando la prima volta ci siamo potuti avvicinare come organismo di difesa dei diritti umani, il 6 giugno, abbiamo ricevuto numerose denunce di casi di persone delle quali non si conosceva la loro ubicazione. Abbiamo quindi redatto una lista di 68 persone scomparse. Durante la missione della Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH), è stata segnalata la necessità di continuare le ricerche e della lista sono rimaste 11 persone da rintracciare. Ad oggi, sono 9 le persone delle quali stiamo cercando di avere notizie. Durante la visita della FIDH nella comunità Wawas, i dirigenti delle comunità indigene hanno riferito che c’erano casi di persone scomparse nella zona dei fiumi Santiago e Cenepa. Tuttavia non ci sono ad oggi casi di denunce specifiche con nomi e cognomi.

A.M. – Quante persone sono state arrestate e quali sono le loro condizioni di detenzione?
F.S.
- Attualmente ci sono 18 persone in carcere. Si trovano nel carcere di Chachapoyas, un penale per detenuti gia’ processati e con condanne definitive, nonostante non sia ancora questa la loro condizione.

A.M. - Qual’e’ la situazione legale del leader indigeno Alberto Pizango?
F.S.
- Ha un processo in corso e sono stati emessi mandati di cattura da differenti giudici sia di Utcubamba a Bagua Grande sia di Lima.

A.M. - Sappiamo che la Polizia Nazionale sta conducendo le indagini per la morte di alcuni civili. Come è possibile, se proprio membri della Polizia sono accusati di aver ucciso dei civili a Bagua?
F.S. - Giustamente questo è il problema principale riscontrato nell’ indagine preliminare che abbiamo riproposto rispetto alla denuncia di 7 persone con le accuse di omicidio e lesioni gravi. Abbiamo inoltre comunicato al Pubblico Ministero su queste irregolarità nelle indagini sulla morte e lesioni dei civili e abbiamo chiesto che le indagini siano realizzate da un ufficio giudiziario.

A.M. - Qual’è stato l’atteggiamento del governo rispetto alle indagini delle missioni internazionali delle associazioni di difesa dei diritti umani a Bagua?
F.S. - Non possiamo dire che il governo abbia posto ostacoli direttamente al lavoro delle missioni internazionali. Come APRODEH abbiamo promosso la visita di una missione della Federazione Internazionale dei Diritti Umani, che si è realizzata dal 16 al 19 giugno con l’obiettivo di indagare sui fatti avvenuti tra il 5 e il 6 di giugno nell’ambito della protesta in Amazzonia e di identificare le violazioni dei diritti umani che ci sono state e le responsabilità delle persone coinvolte. La missione FIDH, integrata dal messicano Rodolfo Stavenhaguen, ex relatore delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni e la religiosa ecuadoriana Elsie Monge, direttrice esecutiva della Commissione Ecumenica dei Diritti Umani (CEDHU) è arrivata la mattina del mercoledì 17 giugno a Bagua per riunirsi con i dirigenti indigeni, con i membri del Consiglio Comunale di Bagua e con i rappresentanti della Chiesa. Durante la sua permanenza a Lima, la Missione ha effettuato numerose riunioni con diverse autorità, tra le quali il Presidente del Consiglio dei Ministri, Yehude Simon, i ministri di Giustizia, Rosario Fernández, il ministro della Difesa, Antero Flores Aráoz, i rappresentanti del Ministero dell’Ambiente, della Corte Suprema, della Defensoría del Pueblo e del Congresso della Repubblica. Ciò nonostante, si sono verificati episodi gravi, come il trasferimento irregolare dei 18 detenuti dal carcere di Bagua Grande a quello di Bagua Chico un giorno prima dell’arrivo della missione della FIDH. E’ un fatto che richiama l’attenzione perchè, nello stesso momento esisteva il coprifuoco dalle 9 di sera alle 6 di mattina e inoltre in quei giorni la strada verso Chachapoyas era chiusa per lavori dalle 6 di mattina alle 6 del pomeriggio. Questo ha fatto sì che i membri della commisiione non abbiano potuto incontrare i detenuti per verificare che fossero stati rispettati i loro diritti o che non fossero stati torturati. Si sarebbe scoperto che 4 persone che sono state trasferite dal Commissariato di Bagua Chicha al carcere di Bagua Grande erano state picchiate da membri della Polizia.

A.M. – Qual’è attualmente la situazione in Amazzonia? E’ stato revocato lo stato di emergenza?
F.S. - E’ stato revocato il coprifuoco ma non lo stato d’emergenza.

A.M. - Come prosegue il dialogo tra i rappresentanti delle comunità indigene e il Governo?
F.S. - Due dei decreti impugnati sono stati revocati dal Congresso della Repubblica il 19 giugno. Tuttavia, nonostante il fatto che questa decisione abbia ridimensionato la tensione tra le parti, il dialogo è interrotto perchè un numero considerevole di dirigenti indigeni regionali e di Lima sono indagati e su altrettanti pendono mandati di cattura. Le organizzazioni indigene avevano richiesto tra le altre cose la fine della persecuzione giudiziaria dei suoi dirigenti ma questi continuano asd essere denunciati, processati e con mandati di cattura sul loro capo. Crediamo che le possibilità per un dialogo nazionale rispetto al grande tema dello sviluppo dell’Amazzonia peruviana soltanto si possono raggiungere facendo chierezza su quanto è accaduto tra il 5 e il 6 giugno e con la piena partecipazione dei popoli indigeni.

A.M. - Per finire, può descriverci brevemente qual’è la situazione del rispetto dei diritti umani attualmente in Perú?
F.S. – Dopo quanto accaduto a Bagua e fatti legati ai processi per atti di corruzione di personaggi legati al partito di governo, possiamo segnalare che il rispetto della vita umana e dei diritti dei detenuti, così come le garanzie di un giusto processo, hanno perso importanza o sono venuti meno. Non esiste la reale intenzione del governo di indagare sui casi di violazioni dei diritti umani, tranne per il processo mediatico a Fujimori, ma casi nei quali sono coinvolte persone vicine al regime attuale, come quello di El Frontòn o Rodrigo Franco continuano lentamente a rischio di impunità, con risoluzioni di prescrizione come nel caso di El Frontòn o allungando i tempi per avere scarcerazioni per eccesso di detenzione preventiva. Oggi inoltre, ci sono violazioni dei diritti della libertà d’espressione, riunione, associazione e violazioni del dovuto processo di molti cittadini che fanno parte di organizzazioni, la maggior parte dirigenti, nell’esercizio del loro diritto della protesta sociale. Si verificano inoltre situazioni di impunità rispetto a casi di persone decedute nel corso delle proteste sociali, uccise per mano di membri della Polizia Nazionale. Il numero di queste vittime è aumentato considerevolmente nel corso dell’attuale governo così come il numero dei conflitti sociali.

In fase di redazione di questa intervista Francisco Soberón ci avvisa di aver ricevuto la denuncia da parte di un giovane nativo di 17 anni che sta cercando suo padre, fu fotografato dal quotidiano locale “Ahora” mentre la Polizia lo faceva scendere da un furgoncino per portarlo al commissariato di Bagua Grande. Il suo nome tuttavia non risulta fra le persone arrestate né sotto processo e non ha ancora fatto ritorno alla sua comunità. Il giovane ha denunciato che altri membri della comunità non sono ancora rientrati nelle loro case.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!