venerdì 20 novembre 2009

L'amore per il mare dei surfisti di Gaza

Nonostante le scarse possibilità e le restrizioni imposte dagli occupanti…


"Spero che stamattina il mare sia bello per poter praticare il mio sport preferito; questi sono i giorni giusti per cavalcare le onde e trascorrere i momenti più belli con gli amici con cui condivido questa passione, ma ho molta paura delle motovedette israeliane che studiano sempre il modo per darci noia: sparano contro le barche e anche contro di noi surfisti".

Con queste parole, Mahmud ar-Rayashi, di 19 anni, comincia a parlarci dello sport che ama, il surf, uno degli sport difficili da praticare nella Striscia di Gaza, soprattutto a causa delle aggressioni israeliane.

La prima cosa che Mahmud fa al mattino è chiamare i suoi amici per chiedere informazioni sulle condizioni del mare (vento e onde), sperando che possa essere ideale per praticare il loro sport preferito.

Oggi ci sono buone notizie per Mahmud: il tempo è adatto per il surf, così raccoglie le sue cose e parte in bici verso il mare, dove ad attenderlo ci sono i suoi amici.

Innamorati del mare

Grande gioia, volti sorridenti, tra poco questi giovani praticheranno il loro sport preferito, il surf, appunto.

Mahmud e i suoi amici sono pronti, mentre noi, insieme a Hindi Ashur (37 anni), presidente della Federazione Nuoto e campione della Palestina, ci dirigiamo verso un'altura per poter vedere Mahmud e i suoi amici mentre praticano il surf. Tuttavia, appena entrano in mare, appaiono le motovedette israeliane, che non lasciano mai la spiaggia di Gaza...

Ashour ci ha avvisati: "Le motovedette si avvicineranno molto alla spiaggia, poi spareranno vicino a Mahmud e i suoi compagni per costringerli ad uscire dall’acqua, impedendogli di praticare il loro sport. Poi torneranno in mare aperto, ma si rifaranno vive appena vedranno del movimento in acqua".

In effetti è così. Alcuni colpi d’avvertimento sparati dalle motovedette sono stati sufficienti a impedire a Mahmud e ai suoi compagni di cavalcare le onde. Ecco che sui loro volti si legge tutta la frustrazione e la rabbia: avevano aspettato il momento giusto per praticare il loro sport, ma alla fine gli occupanti israeliani hanno vietato loro anche questo svago.

Difficoltà e sfide continue

Sulle difficoltà incontrate da chi pratica il surf, Ashour ci ha spiegato: “Esse sono di due tipi: la prima è creata dalle forze di occupazione e dalle loro motovedette. La seconda riguarda l’aspetto materiale, quindi gli strumenti necessari per questo sport: le forze di occupazione ne impediscono l'importazione nella Striscia di Gaza”.

“Nel 2005, il surfista statunitense Matthew Olsen visitò Gaza, e rimase colpito dai giovani (poco più di una ventina) che qui, nonostante la penuria di risorse, praticavano il surf. Così, dopo aver scritto una relazione sull’argomento e aver lasciato la Striscia di Gaza, raccolse dei soldi per comprare, a beneficio di questi ragazzi di Gaza, le attrezzature che gli occupanti israeliani non fanno entrare.

Olsen tornò di nuovo a Gaza portando con sé venticinque tavole da surf, ma riuscì a farne entrare solo tre di 3 a causa dei divieti posti dalle forze di occupazione israeliane poste al valico militare di Eretz. Questo comportamento irritò molto Olsen, che espresse in maniera ancor più vivace la solidarietà verso i surfisti di Gaza, ragazzi che fanno sport ed amano la vita, contrariamente all'immagine che i media occidentali trasmettono dei palestinesi.

Yusuf al-Ghanim, amico di Mahmud, è uno dei giovani che pratica questo sport. Spera che qualcuno possa sponsorizzarli ed aiutarli a fare progressi, e partecipare poi a gare all'estero per imparare nuove tecniche. Egli ci fa notare che tutte le attrezzature che hanno sono state acquistate con i propri risparmi, nonostante la loro situazione economica sia molto modesta.

Yusuf è soddisfatto perché i media della Striscia di Gaza stanno dando una certa visibilità a questo sport, chiedendo ai ragazzi che lo praticano di continuare a denunciare i crimini commessi dagli occupanti israeliani contro di loro (come si è visto, disturbo mentre sono in acqua, oltre ai divieti all’importazione di materiali dall’estero).

Cenni storici sul surf

Questo sport è nato per la prima volta nell’arcipelago delle Hawaii, poi occupato dagli Usa. Il viaggiatore britannico James Cook, che lo scoprì nel 1778, notò che esso era una tradizione molto popolare tra gli abitanti dell'isola, che lo praticavano da secoli.

L’esploratore britannico vide anche che gli abitanti dell'isola, di entrambi i sessi, partecipavano a gare su assi di legno di lunghezza di 4-5 metri, e i vincitori che ricevevano onori e premi.

Agli inizi del XX secolo, la pratica di cavalcare le onde su una tavola passò in Occidente, dove si evolse nella sua forma attuale diventando uno sport professionale.

tratto da Infopal

giovedì 19 novembre 2009

"Copenhagen: Seattle è cresciuta"



di Naomi Klein

L'altro giorno ho ricevuto in anteprima una copia de The Battle of the Story of the Battle of Seattle di David e Rebecca Solnit. Esce a dieci anni di disitanza dal blocco del WTO a Seattle ad opera di una storica coalizione di attivisti, scintilla dalla quale divampò la protesta di un movimento mondiale contro le multinazionali.

Il libro è l'affascinante resoconto di quanto accadde realmente a Seattle, ciononostante quando ho parlato con David Solnit, il guru dell'azione diretta che architettò il blocco, l'ho trovato meno interessato a lasciarsi andare alle reminiscenze del 1999 che non a discutere dell'imminente summit delle Nazioni Unite a Copenhagen e delle azioni dirette pro giustizia climatica che sta contribuendo ad organizzare negli Stati Uniti per il 30 di Novembre. “Questo è esattamente un momento in linea con Seattle,” mi ha detto Solnit.”La gente è pronta a mettersi in gioco.”

Ci sono sicuramente punti di contatto tra Seattle e la mobilitazione di Copenhagen: l'enorme bacino di gruppi che saranno presenti; le diverse pratiche che verranno messe in campo; l'intenzione dei governi dei paesi in via di sviluppo a portare le istanze degli attivisti all'interno del summit. Ma Copenhagen non è semplicemente il revival di Seattle. Al contrario, si ha la sensazione che si sia prograssivamente costituito un movimento che trae la propria forza da una nuova era ma che ha anche imparato dai propri errori.

Una delle grandi criticità del movimento che i media insistono a chiamare “antiglobalizzazione” è sempre consistita nel fatto che, a fronte di una lunga lista di reclami, le alternative concrete proposte siano sempre state poche. Al contrario, il movimento che sta convergendo a Copenhagen si concentrerà su una sola tematica – il cambiamento climatico – attorno al quale tessere un'interpretazione coerente delle sue cause e delle sue possibili soluzioni che incorpora virtualmente ogni tematica sul pianeta. In questa interpretazione, il nostro clima sta cambiando non solo in ragione di particolari pratiche inquinanti ma a causa della logica che sottiene il capitalismo stesso e che pone sopra ogni altra cosa il profitto a breve termine e la crescita costante. I nostri governi vorrebbero farci credere che la stessa logica potrebbe ora essere cavalcata per risolvere la crisi climatica – con la creazione di un prodotto commerciabile chiamato “carbone” e attraverso la trasformazione di foreste e zone rurali in “lavatoi” che teoricamente dovrebbero controbilanciare le nostre emissioni.

A Copenhagen gli attivisti per la giustizia climatica sosterranno che, molto lontano dal risolvere la crisi climatica, la commercializzazione del carbone rappresenta una privatizzazione senza precedenti dell'atmosfera e che le zone di controbilanciamento in quanto risorse diventeranno zone di conquista di proporzioni coloniali. Non solo queste soluzioni basate su logiche di mercato falliranno nel tentativo di risolvere la crisi del clima, ma questo fallimento acuirà drammaticamente la povertà e le disparità, poiché gli indigenti ed i più vulnerabili saranno le prime vittime del cambiamento climatico – le prima cavie sottoposte al programma di commercializzazione delle emissioni.

Ma gli attivisti a Copenhagen non si limiteranno a sostenere questo. Avenzeranno aggressivamente soluzioni che riducono simultaneamente le emissioni e ridimensionano le disuguaglianze. Diversamente dai precedenti summit, nei quali le soluzioni sembravano secondarie, a Copenhagen le alternative acquisteranno un ruolo centrale. Per esempio, la Climate Justice Action – un'area del movimento che pratica l'azione diretta – ha chiesto agli attivisti di prendere d'assalto il centro conferenze il 16 di Dicembre. Molti lo faranno partecipando al Bike Block, pedalando insieme come “una nuova ed irresistibile macchina di resistenza” composta da centinaia di vecchie biciclette. Lo scopo dell'azione non è quello di bloccare il summit in puro stile Seattle, ma di allargarlo, trasformandolo in “uno spazio per parlare del nostro programma, un programma dal basso, un programma per la giustizia climatica, di reali soluzioni contrapposte a quelle false... Questo sarà il nostro giorno.”

Alcune delle proposte che verranno avanzate dal campo degli attivisti sono le stesse che il movimento per la giustizia globale sostiene da anni: agricoltura locale e sostenibile; sviluppo di piani per l'energia più piccoli e decentrallizati; rispetto dei diritti delle popolazioni indigene sulle proprie terre; blocco delle estrazioni dei combustibili fossili dal sottosuolo; allentamento del protezionismo sulle tecnologie ecologiche; ed il conto per queste trasformazioni dovrà essere pagato con il ricavato della tassazione delle transizioni finanziarie e con la cancellazione del debito. Alcune di queste proposte sono nuove, come l'incalzante richiesta che i paesi più sviluppati paghino un indennizzo per il cambiamento climatico ai paesi in via di sviluppo. Queste potrebbero sembrare richieste pretenziose, ma abbiamo da poco visto il tipo di risorse che i nostri governi possono mobilitare quando si tratta di salvare le elites. Come recitava uno slogan prima di Copenhagen: “Se il clima fosse una banca, sarebbe stato slvato” - non abbandonato alla brutalità del mercato.

Ad aggiungersi ad una coerente interpretazione dei rapporti di causa/effetto ed al tentativo di concentrarsi sulle soluzioni alternative, troviamo altri nuovi spunti: un approccio più ragionato all'azione diretta, in grado di riconoscere l'urgenza di andare oltre le chiacchiere ma allo stesso tempo determinato a non scivolare nel logoro copione sbirri VS manifestanti. “La nostra azione sarà di disobbedienza civile” dichiarano gli organizzatori delle azioni del 16 Dicembre. “Oltrepasseremo ogni barriera fisica che troveremo sul nostro percorso – ma non risponderemo con violenza se la polizia tenterà un'esclation” (Detto questo, non c'è verso che un summit di due settimane non includa qualche scontro tra sbirri e ragazzi in nero; dopo tutto, siamo in Europa.)

Dieci anni fa, dopo seattle scrissi un articolo per il New York Times in contrasto con le linee editoriali del giornale, in cui sostenevo che un nuovo movimento che rivendicava una forma di globalizzazione radicalmente diversa “aveva appena celebrato il suo coming-out”. Qual'e sarà invece il senso di Copenhagen? Ho girato questa domanda a John Jordan, la cui predizione di quanto sarebbe finalmente successo a Seattle ho riportato nel libro No Logo. Ha risposto: “Seattle è stato il party di dichiarazione del movimento dei movimenti, forse allora Copenhagen sarà la celebrazione dell'avvento della nostra era.”

Ad ogni modo, mette in guardia dal fatto che crescere non significa rinunciare ai rischi, rinnegando la disobbedienza civile in favore di quieti meeting. “Spero di essere cresciuto per poter diventare ancor più disobbediente” ha dichiarato Jordan, “perchè la vita in questo nostro mondo potrebbe proprio interrompersi a causa di troppi atti di obbedienza.”

(traduzione gastrika)

Polizia fuori controllo nelle baraccopoli di Durban

Per il movimento sudafricano Abahlali le violenze della polizia fanno parte del più generale attacco ai danni del movimento degli «shack dwellers», le persone che vivono nelle baracche


Nella notte fra venerdì e sabato scorsi l’insediamento informale di Pemary Ridge, affiliato al movimento di shack dwellers Abahlali baseMjondolo [«quelli che vivono nelle baracche» in lingua zulu], è stato al centro di una brutale operazione di polizia. Intorno alle otto di venerdì sera, un’auto privata con a bordo alcuni agenti di polizia è giunta all’insediamento. Gli agenti hanno cominciato a perquisire vari shack, alla ricerca di rivenditori abusivi di alcolici. Le perquisizioni, tuttavia, si sono ben presto trasformate in feroce violenza nei confronti dei residenti di Pemary Ridge, che è andata avanti per più di tre ore. Con l’aiuto di un’altra decina di colleghi giunti a dare manforte, la polizia ha fatto irruzione in varie baracche, trascinando gli abitanti in strada e picchiandoli con manganelli e bastoni. Un uomo, che tornava a casa dopo il lavoro ignaro di quello che stava accadendo, è stato aggredito senza alcun motivo. «Questo servirà a darvi una lezione!» hanno gridato gli agenti, aggiungendo che vedere un uomo che torna a casa ferito «sarà una lezione per tutta la comunità».
Decine di persone, donne comprese, sono state aggredite brutalmente anche all’interno dei loro «shack» [l’insediamento informale]. Molti residenti sono fuggiti nella boscaglia vicina per nascondersi, mentre varie donne hanno creato delle barricate con pneumatici e altri oggetti di fortuna. Gli abitanti di Pemary Ridge hanno raccontato che la polizia ha anche aperto il fuoco, sparando in modo casuale decine di colpi in tutto l’insediamento. L’operazione si è conclusa con vari feriti, di cui uno in gravi condizioni, e tredici persone arrestate. Una volta di fronte al magistrato, la mattina di lunedì, il fermo non è stato convalidato e tutti gli arrestati sono stati rilasciati.

La sezione del movimento Abahlali baseMjondolo a Pemary Ridge ha diffuso un comunicato nel quale spiega che questa è la terza brutale operazione di polizia che avviene nell’insediamento informale Pemary Ridge dalla fine di settembre, dopo gli attacchi a Kennedy Road. Come Carta ha già raccontato, la notte del 26 settembre una folla di circa quaranta persone aveva assaltato il vicino insediamento di Kennedy Road, gridando slogan contro i leader di Abahlali e distruggendo le loro case. Da quel giorno, vari membri del movimento, fra cui i suoi leader principali, vivono in clandestinità con le loro famiglie.
Nonostante la ragione ufficiale dell’operazione di venerdì a Pemary Ridge sia apparentemente la ricerca di alcool e droga, il movimento afferma che «è chiaro che le azioni della polizia a Pemary fanno parte del più generale attacco ai danni di Abahlali baseMjondolo».
La polizia che ha condotto l’azione è quella del distretto di Sydenham, conosciuta dagli shack dwellers per la sua brutalità e la sua inefficienza. La notte degli attacchi a Kennedy Road, la polizia è giunta all’insediamento dopo diverse ore dalla prima chiamata e si è limitata a stazionare all’ingresso della baraccopoli, senza intervenire per fermare gli attacchi ai danni dei residenti. Per questa ragione, Abahlali ha accusato la polizia di connivenza con gli aggressori e con i mandanti degli attacchi.
L’ultimo episodio di violenza a Pemary Ridge avviene mentre in tutto il Paese si assiste ad una escalation di brutalità da parte della polizia, legittimata dalle autorità politiche. All’inizio di ottobre il presidente Zuma aveva dichiarato che, per affrontare con durezza il problema della criminalità, la polizia deve «sparare per uccidere». Nelle ultime settimane la «shoot-to-kill policy» ha causato varie vittime [fra cui un bimbo di tre anni a Cape Town, freddato da un agente perché «teneva in mano qualcosa di sospetto»], costringendo Zuma a precisare precipitosamente che «la polizia non ha comunque licenza di uccidere».
Operazioni di polizia come quella di venerdì sera non sono purtroppo una novità nelle baraccopoli sudafricane, come il movimento Abahlali non si stanca di ripetere. ll grande movimento sociale Abahlali è dunque da settimane al centro di una violenta repressione [la più grave in settembre, quando sono state uccise tre persone e decine sono state ferite nell’insediamento di Kennedy Road] da parte di milizie armate e polizia e di certo, l’autogoverno del movimento non piace all’African national congress [il partito al governo] soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha dato ragione al movimento circa l’obbligo di procedere a eventuali sgomberi soltanto dietro un provvedimento di un tribunale.

La giustificazione degli attacchi della polizia è sempre quella di riprestare la «legalità»: impedire connessioni irregolari all’elettricità, sgomberare degli shack, impedire la rivendita di alcolici, ma troppo spesso si trasformano in brutali operazioni di repressione a danno dei cittadini più poveri del Paese. I riflettori puntati al Sudafrica che si prepara ai mondiali del 2010, però, faticano a fare luce in questi angoli oscuri della politica sudafricana.

di Francesco Gastaldon

Per aggiornamenti si può consultare il sito del movimento
Abahlali

Notevole dispiegamento di truppe in Chiapas nel 26° anniversario dell’EZLN



da La Jornada – Martedì 18 novembre 2009 articolo di Hermann Bellinghausen

Mentre una dichiarazione pubblica di sacerdoti e religiose ha rivelato oggi il livello di tensione esistente tra la diocesi di San Cristóbal de las Casas ed il governo statale, l’Esercito continua a svolgere un’intensa attività con perquisizioni e pattugliamenti in comunità del centro e la selva di confine, e questo lunedì è stato registrato un eccezionale spostamento di truppe verso gli Altos, secondo le testimonianze raccolte a San Juan Chamula.

A 26 anni dalla fondazione dell’Esercito Zapatista di Liberazione (EZLN) e sottolineando il silenzio zapatista da più di otto mesi, oggi è risaltata l’assenza di qualsiasi manifestazione commemorativa nei caracoles; non c’è stato nemmeno un pronunciamento del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno-Comando Generale dell’EZLN, il quale non ha firmato né emesso alcun comunicato dall’8 marzo scorso. Come avverte da alcune settimane la pagina web di Enlace Zapatista, “qualsiasi testo successivo a questa data che porti la firma dell’EZLN, è apocrifo”.

Intanto, sacerdoti, religiose e missionarie della zona sud della diocesi di San Cristóbal hanno protestato “energicamente” contro “la persecuzione scatenata contro la Chiesa cattolica” dal governo statale nei confronti del vescovo Felipe Arizmendi e, “in particolare”, del sacerdote Jesús Landín (padre Chuy), parroco di San Bartolomé, a Venustiano Carranza, ed i suoi collaboratori. “Non siamo criminali né stiamo promuovendo la violenza in nessuna forma”, sostengono.

I funzionari pastorali denunciano che “l’ossessione persecutoria” contro Landín è arrivata ad un punto tale che il governatore Juan Sabines Guerrero ha tentato di metterci del suo per far espellere il vescovo dalla diocesi e da Chiapas”. Tuttavia – aggiungono – “nessuno ha il diritto di espellere un cittadino da nessun posto nel territorio nazionale; se fa questo, si sta procedendo contro la Costituzione”. Il governo “ha scatenato una persecuzione permanente contro Landín, accusandolo di aizzare la gente e promuovere la violenza e l’uso delle armi”. Affermano che sono “calunnie” e “bugie”.

Manifestano la loro solidarietà con i membri della parrocchia di San Bartolomé e ribadiscono il loro impegno sociale, dichiarandosi “a fianco del popolo”, che “vogliono sostenere nei suoi diritti alla libertà ed al rispetto della nostra Madre Terra”. Sulla base all’esperienza delle comunità nella loro zona, dichiarano: “La causa della persecuzione contro la Chiesa ed i popoli del Chiapas sono le concessioni minerarie a compagnie straniere per estrarre i tesori del sottosuolo. Si sa che il governo ha dato loro il permesso di esplorare e sfruttare il sottosuolo chiapaneco per più di un milione di ettari”.

I religiosi si ritengono obbligati a protestare “contro la persecuzione e l’indebita ingerenza in questioni proprie della nostra chiesa”. Il governatore – affermano – “accusano la chiesa del fatto che gli abitanti di Acteal si siano rifiutati di riceverlo. Questi considerano una presa in giro la presenza di funzionari di un governo che fu complice del massacro e che liberando gli assassini continua ad essere parte di tremendo delitto. “La diocesi non avrebbe accompagnato il governatore, ma non è stata lei a prendere la decisione di non riceverlo. Queste decisioni spettano unicamente ed esclusivamente alle comunità interessate”. Infine, respingono l’infiltrazione di spie della polizia “in atti di culto e formazione cristiana, che cercano inutilmente di dimostrare reati che non abbiamo mai commesso e che, Dio lo voglia, non commetteremo mai”.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

mercoledì 18 novembre 2009

I militari entrano nei villaggi del Chiapas quando le donne sono sole


da La Jornada – Martedì 17 novembre 2009 articolo di Hermann Bellinghausen

I militari entrano nei villaggi del Chiapas quando le donne sono sole

Malgrado il governo statale abbia firmato con decine di organizzazioni altrettanti “accordi di governabilità” (che includono la consegna di risorse economiche e l’impegno di non realizzare azioni di protesta né presentare istanze agrarie), continuano le perquisizioni, i pattugliamenti, le minacce armate e l’ammassamento di truppe federali nei villaggi di Las Margaritas, Comitán, Socoltenango, Venustiano Carranza, Frontera Comalapa, La Trinitaria, Amatenango del Valle e Nicolás Ruiz. È significativo quanto accade alla Organización Proletaria Emiliano Zapata (OPEZ), cosiddetta “storica”, sempre molto docile nei riguardi del governo statale. Il fine settimana scorso l’organizzazione ha chiesto il ritiro dell’Esercito dalle sue comunità. Solo nel mese di novembre le truppe hanno realizzato perquisizioni delle case e si sono addirittura installati in alcuni villaggi. L’occupazione militare viene giustificata, come in altre aree della frontiera e del centro dello stato, con l’ambigua combinazione di “lotta alla criminalità organizzata” e caccia ai “sovversivi”. Rubén Méndez Méndez, dirigente della OPEZ, ha denunciato perquisizioni, posti di blocco e ammassamenti di soldati a La Trinitaria, Frontera Comalapa e Comitán. I militari della Settima Regione Militare, con sede nella base di Copalar, entrano nelle comunità “quando le donne sono sole con i bambini”, sostenendo di cercare armi, droga o narcotrafficanti. Lo stesso è accaduto a Nuevo Villaflores, dove i soldati hanno perquisito diverse case “davanti a donne e bambini spaventati”. Ed ancora, durante un corso per donne nello stabilimento balneare Uninajab, decine di militari hanno fatto irruzione “saltando fuori dai cespugli” e provocando “molto spavento”, come testimonia Reina Santiago Guadalupe, della stessa organizzazione. Méndez si è detto sorpreso di fronte a questa persecuzione, poiché la OPEZ realizza solo “azioni pacifiche” e non è mai successo che i suoi soci, indigeni e contadini, siano stati coinvolti nella sovversione o nella delinquenza. Ha annunciato che l’organizzazione prossimamente deciderà azioni contro la presenza dei soldati “che si trovano nelle comunità da un paio di settimane”. Intanto, centinaia di cattolici questa domenica a Comitán hanno chiesto la sospensione delle “calunnie contro sacerdoti ed agenti di pastorali della diocesi di San Cristóbal”, e si sono pronunciati in favore dei sacerdoti Jesús Landín (Venustiano Carranza) e Juan Manuel Hurtado (della diocesi di Ocosingo ed Altamirano), così come dei vescovi Felipe Arizmendi Esquivel ed Enrique Díaz Díaz. Hanno protestato contro l’attività militare anche nelle comunità di Frontera Comalapa, La Trinitaria ed in altri municipi, chiedendo di interrompere lo sfruttamento minerario nelle regioni sul confine e sulla Sierra. In questo contesto restano in carcere tre dirigenti dell’Organizzazione Campesina Emiliano Zapata (OCEZ-regione Carranza) ed altri oceístas si sono rifugiati negli uffici delle Nazioni Unite a San Cristóbal per chiedere la sospensione della persecuzione nelle loro comunità e per evitare di essere catturati. Luis Manuel Hernández ha comunicato che María Elena Meneses, inviata del governo statale e dirigente de El Barzón, ha fatto visita a suo padre, José Manuel Hernández Martínez, Chema, rinchiuso nel carcere di Nayarit, accompagnata dal dirigente perredista Alejandro Gamboa, e gli ha consigliato di “convincere” la OCEZ a negoziare, “altrimenti la situazione si aggraverà con le ‘azioni programmate per il 20 novembre’, poiché il governo ha ricevuto informazioni secondo le quali ci sarà una mobilitazione (di presunti gruppi guerriglieri) che si chiama ‘20 y 10′ “.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!