lunedì 30 dicembre 2013

Messico - 20° anniversario (30 dalla sua nascita) senza arrendersi.

Dichiarazione di guerra
di Gloria Muñoz Ramírez

Tutto è cominciato con una dichiarazione di guerra. L’ultima opzione, dissero, ma una guerra. Molti allora dissero che tutto fu simbolico, che le armi non importavano, che non si trattava di un esercito regolare, bensì di un gruppo di pezzenti con fucili di legno. Ma ci fu e c’è una guerra. 

Si presero allora sette città, si aprirono le porte delle prigioni stracolme di indigeni innocenti, si distrussero i palazzi municipali, simboli del potere e dell’ignominia; si recuperarono terre, proprietà e bestiame in possesso di proprietari terrieri e cacicchi; si disarmarono poliziotti e guardias blancas; si fece un prigioniero di guerra. E la morte che già c’era, diventò visibile.

20 anni non sono niente? Dipende. Ormai due decenni da che l’EZLN ha iniziato una strada che non fu mai pensata solo per loro. Formato in maggioranza da tzotzil, tzeltal, tojolabal, chol, zoque e mam, non nacque con rivendicazioni puramente indigene. Fin dal principio (novembre 1983 e perfino prima) si proposero la lotta nazionale. Nel 1983 l’EZLN si chiedeva, come faremo per ottenere buona salute, buona educazione, buona casa, per tutto il Messico? È un impegno troppo grande. 

E così lo vedevamo. In quei primi 10 anni acquisimmo molte conoscenze, esperienze, idee, modi di organizzarci. E pensavamo: come ci accoglierà il popolo del Messico (perché non lo chiamavamo società civile)? E pensavamo che ci avrebbero accolto con gioia perché lottiamo e moriamo per loro, perché vogliamo che ci siano libertà, democrazia e giustizia per tutti. Ma nello stesso tempo pensavamo, Come sarà? Se ci accetteranno? 

Ricordò alcuni anni fa l’attuale subcomandante Moisés, visionario e rivoluzionario capo tzeltal. Il momento arrivò il 1º gennaio 1994. La guerra sorprese il mondo. E l’irruzione di una società civile con la quale si incontrano da 20 anni…. Se c’è qualcosa da riconoscere al movimento, è la sua ostinazione a realizzare iniziative che benché non tutte di successo, la cosa importante è percorrerle, non arrendersi. Oggi gli zapatisti sono gli stessi e altri. 

Gli stessi perché le loro domande sono attuali quanto prima. Diversi perché gli anni non passano invano, non si compiono impunemente gli anni. Anche il Messico è altro ed è lo stesso. Il salinismo che li vide nel 1994 è quello che domina ora con un altro nome. Il saccheggio non finisce. Nessuno nega allo zapatismo di aver inferto il colpo più duro ad un sistema che inghiotte tutto. Il suo Ya Basta! fu demolitore. Continuano ad essere una lotta molto vigorosa in un mondo impantanato da negoziazioni affaristiche che svendono tutto.

L’organizzazione autonoma dei suoi popoli, unica al mondo in questa modalità, è uno dei loro più notevoli successi. Non l’unico. Limitare lì il lascito zapatista è non vedere la risonanza nazionale e mondiale di un movimento che arriva al suo 20° anniversario (30 dalla sua nascita) senza arrendersi. 
Qualcuno può dire la stessa cosa senza un po’ di vergogna?

www.desinformemonos.org
losylasdeabajo@yahoo.com.mx
http://www.jornada.unam.mx/2013/12/28/opinion/006o1pol


(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

lunedì 23 dicembre 2013

Messico - Subcomandante Marcos: Rewind 2

“Uno sa di essere morto quando le cose che lo circondano hanno smesso di morire.”
Elías Contreras
Professione: Commissione di Investigazione dell’EZLN
Stato Civile: Defunto.
Età: 521 anni e più.
È l’alba, e se me lo domandassero, ma non l’hanno fatto, direi che il problema con i morti sono i vivi.
Perché poi generalmente si scatena la disputa assurda, oziosa e indignante sulla loro assenza.
Quel “io li ho conosciuti-visti-mi hanno detto” è soltanto l’alibi per nascondere il “io sono l’amministratore di quella vita perché amministro la sua morte”.
Qualcosa come il “copyright” della morte, convertita dunque in mercanzia che si possiede, si scambia, circola e viene consumata. Per questo esistono perfino istituzioni: libri storiografici, biografie, musei, effemeridi, tesi, giornali, riviste e dibattiti.
E si cade nella trappola dell’edizione della storia stessa per limare gli errori.
Si usano allora i morti per innalzarsi un monumento su di loro.
Ma, secondo la mia modesta opinione, il problema con i morti è sopravvivergli.
O si muore con loro, un po’ o molto ogni volta.
O ci si aggiudica il titolo di loro portavoce. In fin dei conti non possono parlare, e non è la loro storia, quella loro, che si racconta, ma si giustifica la propria.
O si possono anche usare per pontificare con il noioso “io alla tua/vostra età”. Quando l’unico modo onesto di completare questo ricatto a buon mercato e per nulla originale (quasi sempre rivolto a giovani e bambini), sarebbe concludere con un “aveva commesso più errori di te/voi”.
Dietro il sequestro di questi morti, c’è il culto della storiografia, così di sopra, così incoerente, così inutile. Ovvero, la storia che vale e che conta è quella che sta in un libro, una tesi, un museo, un monumento e negli equivalenti attuali e futuri che non sono altro che un modo puerile di addomesticare la storia del basso.
Perché ci sono quelli che vivono a costo della morte di altri, e sulla loro assenza costruiscono tesi, saggi, scritti, libri, film, ballate, canzoni ed altre forme più o meno eleganti di giustificare la propria inazione… o la sterile azione.
Quel “non è morto” non può che essere solo uno slogan, se nessuno prosegue il cammino. Perché secondo il nostro modesto e non accademico punto di vista, ciò che importa è il cammino non chi lo percorre.
E, approfittando del fatto che sto riavvolgendo questo nastro di giorni, mesi, anni, decenni, domando, per esempio:
Del SubPedro, del señor Ik, della Comandanta Ramona, valgono i loro alberi genealogici? Il loro DNA? I loro certificati di nascita con nome e cognome?
O ciò che vale è il cammino che hanno percorso insieme ai senza nome e senza volto – cioè, senza lignaggio familiare e/o scudo araldico -?
Del SubPedro vale il suo vero nome, il suo volto, il suo stile, raccolti in una tesi, una biografia – cioè, in una bugia documentata secondo convenienza -?
O vale la memoria che di lui esiste nelle comunità che aveva organizzato? Sicuramente i fanatici della religione l’avrebbero accusato, giudicato e condannato per essere ateo, ed i fanatici della razza anche, ma per essere meticcio e non avere la pelle del colore della terra, con quel razzismo al contrario che si pretende “indigeno”.
Ma la decisione di lottare del SubPedro, del Comandante Hugo, della Comandanta Ramona, degli insurgentes Alvaro, Fredy, Rafael, vale perché qualcuno gli mette un nome, un calendario, una geografia? O perché quella decisione è collettiva e c’è chi prosegue?
Quando qualcuno vive e muore lottando, nella sua assenza ci dice “ricordami”, “onorami”, “biasimami”? O ci impone di “proseguire”, “non arrendersi”, “non tentennare”, “non vendersi”?
Voglio dire, io sento (e parlando con altri compas so che non è solo un mio sentimento) che il conto che devo presentare ai nostri morti è che cosa si è fatto, che cosa manca e che cosa si sta facendo per completare ciò che ha motivato questa lotta.
Probabilmente mi sbaglio, e qualcuno mi dirà che il senso di ogni lotta è perdurare nella storiografia, nella storia scritta o parlata, perché è l’esempio dei morti, la loro biografia addomesticata ciò che motiva i popoli a lottare, e non le condizioni di ingiustizia, di schiavitù (il termine reale per definire la mancanza di libertà), di autoritarismo.
Ho parlato con alcuni compagne, compagni, zapatisti dell’EZLN. Certo, non con tutt@, ma con quelli che posso ancora vedere, con i quali posso stare.
C’è stato tabacco, caffè, parole, silenzi, ricordi.
Non è stata l’ansia di durare indefinitamente, bensì il senso del dovere quello che ci ha portati qui, nel bene o nel male. Il bisogno di fare qualcosa di fronte all’ingiustizia millenaria, quell’indignazione che sentiamo come la caratteristica più contundente di “umanità”. Non vogliamo nessun posto in musei, tesi, biografie, libri.
Quindi, nell’ultimo respiro, noi zapatiste, zapatisti, ci domandiamo “mi ricorderanno?”. O ci domandiamo “se cederò di un passo sul cammino?, c’è chi lo proseguirà?”.
Noi, quando andiamo sulla tomba di Pedro, gli diciamo quello che abbiamo fatto affinché tutti lo ricordino, o gli raccontiamo quello che si è fatto nella lotta, quello che ancora c’è da fare (sempre manca ciò che manca), quanto siamo ancora piccoli?
Gli rendiamo buon conto se prendiamo il “Potere” e se gli innalziamo una statua?
O se possiamo dirgli “Senti Pedrín, siamo ancora qui, non ci siamo venduti, non tentenniamo, non ci arrendiamo”?
E, a proposito di discussioni…

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!