martedì 16 febbraio 2016

Messico - Gustavo Esteva sulla visita del Papa

papa-messico
Nonostante tutto
di Gustavo Esteva

Su di noi regna il male. Tutti i mali usciti dal vaso di Pandora ci sono caduti addosso. Francesco non potrà sgombrare il suo mistero.

Ma qualcosa farà, forse, in relazione ai malviventi, sui quali non c’è mistero alcuno.

Nella tradizione cattolica, un mistero non è un puzzle irrisolto, una sfida all’intelligenza o allo spirito investigatore. È qualcosa che il nostro pensiero è incapace di penetrare, qualcosa fuori della portata della nostra comprensione. In questa tradizione, il male è un mistero, il mysterium iniquitatis

Come comprendere la scarnificazione di Julio César od il soffocamento di Juanelo, il figlio di Javier Sicilia? Come comprendere Ayotzinapa, San Fernando o Tierra Blanca? O che il 99% degli interminabili delitti rimanga impunito? Che continuino i femminicidi, i massacri, le sparizioni, le fosse clandestine? Che non sia più possibile distinguere tra il mondo del crimine e quello delle istituzioni? Che funzionari e criminali, alcuni gli stessi, dicano quello che dicono e facciano quello che fanno? Come capire il limite estremo di degrado morale al quale sono arrivati giovani criminali, alti funzionari pubblici e dirigenti di imprese?

Le spiegazioni psicologiche, socioeconomiche, politiche… sono sempre imbarazzanti; sono insufficienti. Nessuna scienza sgombra il mistero. Fin dall'apostolo Paolo, si crede che tra noi sia apparso qualcosa di incredibilmente orribile e senza precedenti, il male. 

Potremo capirlo solo in un tempo a venire, quello dell’apocalisse, quello della fine dei tempi. Ma questo male, questo mistero, può essere investigato storicamente. Osservare, per esempio, che non è come quello di altre epoche. Sono diventate reali e comuni la perversione, la disumanità, che prima erano solo possibili o eccezionali. Si è perso il senso del bene. Bene e male sono stati sostituiti da valori e disvalori che ci opprimono e distruggono.

Il corrotto, ha scritto papa Francesco, deve distinguersi dal mero peccatore, perché eleva la sua azione a sistema e la trasforma in forma mentale e in stile di vita; perde la dignità e la fa perdere agli altri. Portando pane sporco in casa sua, ha sottolineato, il corrotto ha perso la dignità.

Francesco non sarà ricevuto da meri peccatori, come gli succede da tutte le parti. Si troverà continuamente tra corrotti, tanto del governo come della sua propria Chiesa. Starà tra malavitosi. Li conosciamo bene e sicuramente anche lui. Nel vederli dove stanno, impuni, in molte persone muore lentamente la fiamma della speranza, come dice il Frayba. Ma non muore la fiamma della resistenza. Per rafforzarla, è necessario riconoscere il suo valore e la sua dignità e ravvivare amorevolmente la fiamma della sua speranza. Riuscirà Francesco a vedere tutto questo ed agire di conseguenza?

Pandora, che-tutto-dà, chiuse il suo vaso prima che sfuggisse la speranza. Ma, poiché era vicina ai mali che uscirono, alcuni la contengono: sperando, la gente può mettersi nell'aspettativa di quando agire; o accetta un stato di cose insopportabile aspettando una liberazione futura, in un’altra vita, forse.

Ma la tradizione dominante confida nella speranza. Poiché sono tempi di disperazione, cerchiamo disperatamente la speranza. Da dove viene? si domanda il Majabhárata, il libro sacro dell’India. Siccome è l’ancora di ogni persona, perderla produce un’immensa pena quasi uguale alla morte. Ma è difficile capirla e niente è più difficile da conquistare.

L’abbiamo persa. L’uomo moderno l’ha trasformata in aspettativa ed il suo ethos prometeico l’ha eclissata. La sopravvivenza della razza umana oggi dipende dal fatto che la si scopra come forza sociale, ci disse tempo fa Iván Illich. Ed Agamben suggerisce che ora la cosa importante è scoprire il meccanismo che ha prodotto la declinazione della speranza e contraddirlo.

È quello che hanno fatto gli zapatisti. Nel marzo del 1994, in risposta ad un bambino che aveva scritto loro dalla California, gli zapatisti ammisero di essere professionisti, ma non della violenza, come diceva il governo, bensì della speranza. Nel 1996 proposero di creare l’Internazionale della Speranza. Liberando la speranza dalla sua prigione intellettuale e politica, hanno creato la possibilità della sua rinascita.

La speranza è l’essenza dei movimenti popolari. Non basta il dissenso, lo scontento. Neanche è sufficiente il risveglio critico. La gente si mette in moto quando sente che la sua azione può portare al cambiamento, quando ha speranza. Questo è essere saggi. In lingua tzeltal, la saggezza è avere forza nel cuore per sperare. È quello che oggi si comincia a diffondere, sapendo che la speranza non è la convinzione che le cose accadranno in una determinata maniera. È la convinzione che qualcosa ha senso, indipendentemente da quello che sembri.

Tra noi rinasce la speranza, la speranza contro ogni speranza. Stiamo riuscendo, passo dopo passo, a dare di nuovo senso alle nostre vite, a noi stessi, non al mercato né allo Stato, non alle istituzioni né alle ideologie, per affrontare il male che è caduto su di noi, per fermare i malavitosi, per recuperare il bene. Se può e vuole, Francesco contribuirà a rafforzarci in questo compito.

traduzione Maribel - BG
Testo originale: http://www.jornada.unam.mx/2016/02/15/opinion/020a2pol

lunedì 8 febbraio 2016

Messico - San Andrés: 20 anni dopo


di Luis Hernández Navarro

Quasi venti anni fa, il 16 febbraio 1996, a San Andrés Sakam’chén de los Pobres si firmavano gli Accordi di San Andrés su Diritti e Cultura Indigena. Senza foto di rito, gli zapatisti ed il governo federale siglarono i loro primi impegni sostanziali sulle cause che avevano dato origine alla sollevazione armata degli indigeni chiapanechi.

Sebbene il governo federale ed i legislatori della Commissione di Concordia e Pacificazione (Cocopa) desiderassero una cerimonia con trombe e tamburi, i comandanti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) si rifiutarono di suonare le campane. Con un discorso improvvisato, il comandante David spiegò le ragioni del loro rifiuto:"Vogliamo che sia un atto semplice. Noi siamo semplici, viviamo in semplicità e così vogliamo continuare a vivere".

Non vollero nemmeno farsi fotografare. Lo stesso comandante David disse: “Abbiamo raggiunto solo un piccolo accordo. Non ci lasciamo ingannare che si sia firmata la pace. Se non accettiamo di firmare apertamente e pubblicamente è perché abbiamo le nostre ragioni.”

E, dopo aver denunciato le aggressioni del governo di cui erano stati oggetto e ricordare che "hanno sempre pagato con il tradimento la nostra lotta", disse: "Per questo abbiamo firmato in privato. È un segnale che diamo al governo che ci ha feriti. E la ferita che ci ha inferto, ci ha feriti."

Gli accordi di San Andrés si firmarono in un momento di grande agitazione politica nel paese. Catalizzato dalla sollevazione dell’EZLN, emerse un belligerante movimento indigeno nazionale. La svalutazione del peso a dicembre del 1994 provocò un’enorme ondata di dissenso e la nascita di vigorosi movimenti di debitori con le banche. I conflitti post-elettorali in Tabasco e Chiapas si trasformarono in protesta nazionale a favore della democrazia. Il conflitto tra Carlos Salinas, presidente uscente, ed Ernesto Zedillo, l’aspirante, acquisì proporzioni enormi.

La sfiducia dei ribelli quel 16 febbraio fu premonitrice. Una volta neutralizzata l’ondata di scontento sociale, il governo federale ritrattò la parola. Lo Stato messicano nel suo insieme (cioè, i tre poteri) tradì gli zapatisti ed i popoli indigeni rifiutandosi di rispettare quanto pattuito. Il pagamento del debito storico dello Stato verso i popoli originari fu eluso. Invece di aprire le porte per stabilire un nuovo patto sociale includente e rispettoso del diritto alla differenza, lo Stato decise di mantenere il vecchio status quo. Invece di riconoscere i popoli indigeni come soggetti di diritto sociali e storici ed il loro diritto all'autonomia, si optò per proseguire con la politica di oblio ed abbandono.

La questione non finì lì. Con la decisione di non riconoscere i diritti indigeni, si chiusero le porte al cambiamento di regime. San Andrés aveva offerto l’opportunità di trasformare radicalmente le relazioni tra la società, i partiti politici e lo Stato. Invece di farlo, dal governo e dai partiti politici si spinse per una nuova riforma politica al margine del tavolo del Chiapas. 
Con il pretesto che vivevamo una normalizzazione democratica, si rafforzò il monopolio dei partiti a favore della rappresentanza politica, lasciando fuori dalla rappresentanza istituzionale molte forze politiche e sociali non identificate con questi partiti e si conservò, praticamente intatto, il potere dei leader delle organizzazioni corporative di massa.

Lungi dall'ammainare le loro bandiere di fronte al tradimento, lo zapatismo ed il movimento indigeno mantennero la loro lotta ed il loro programma. In ampie regioni del Chiapas ed in altri stati passarono a costruire l’autonomia di fatto e ad esercitare l’autodifesa indigena. 

Spuntarono come funghi governi locali autonomi, polizie comunitarie, progetti produttivi autogestiti, esperienze di educazione alternativa, recupero della lingua.

Contemporaneamente, si rafforzò in tutti i loro territori la resistenza contro il saccheggio e la devastazione ambientale. Da due decenni i popoli indigeni sono stati i protagonisti principali nel rifiuto all'uso di semi transgenici e la difesa del mais, nell'opposizione al settore minerario a cielo aperto ed alla deforestazione, nell'attenzione per le risorse idriche ed il rifiuto della loro privatizzazione, così come nella rivendicazione della cosa comune. In condizioni molto avverse hanno promosso lotte esemplari.

Nei territori indigeni le riforme neoliberali ed il saccheggio delle risorse naturali hanno cozzato contro l’azione organizzata delle comunità originarie. Come risultato della lotta delle comunità indigene, in diverse regioni del paese molti progetti predatori sono stati sospesi o rimandati a tempi migliori.

La decisione statale di far fallire il tavolo di San Andrés e non applicare gli accordi su diritti e cultura indigeni ha ampliato l’estensione e la profondità dei conflitti politici e sociali al margine della sfera della rappresentanza istituzionale in tutto il paese. I protagonisti sono fuori o ai margini delle istituzioni.

Nel frattempo, l’accordo politico raggiunto tra il governo ed i partiti politici nel 1996 faceva acqua. La società messicana non sta nel regime politico realmente esistente. 

L’approvazione di candidature indipendenti (rivendicata al tavolo di San Andrés su democrazia dallo zapatismo ed i suoi convocati) e la crisi della partitocrazia come la conosciamo, hanno favorito la nascita di forze centripete dentro i meccanismi di rappresentanza politica.


In queste circostanze, non ci stupisce che, a venti anni dalla firma degli accordi di San Andrés, sorgano in seno ai movimenti indigeni e tra gli esclusi, nuovi modi di fare politica fino ad ora inediti. Modi e modalità nei quali non si scatteranno foto. 

http://www.jornada.unam.mx/2016/01/26/opinion/017a2pol

traduzione Maribel

giovedì 4 febbraio 2016

Tunisia - Tra le proteste dei disoccupati e quelle contro la Legge 52


A Kasserine continua la protesta. Dopo gli scontri in piazza con la polizia, alcuni disoccupati hanno iniziato lo sciopero della fame, dentro il Governatorato, con lo slogans "Faites-nous travailler ou bien tuez-nous (Fateci lavorare o ammazzateci".
"Non è il Governatorato al centro delle proteste. E’ lo Stato che noi chiamiamo in causa perché agisca per lo sviluppo delle nostre regioni marginalizzate", hanno dichiarato ai giornalisti.
Anche in altre regioni i giovani,i disoccupati continuano con sit-in e proteste. 
I motivi alla base dello scoppio delle proteste affondano nelle condizioni socio-economiche della Tunisia. Il governo di Ennahda prima, la coalizione attualmente al governo con Nidaa Tounes, diventata secondo partito dal punto di vista numerico dopo l’abbandono di un gruppo di deputati, non hanno mai, ovviamente, affrontato alla radice la necessità di costruire un diverso modello di sviluppo. 
Il mal utilizzo dei fondi pubblici, uniti con la devastante azione del terrorismo che ha portato alla calo totale del turismo creano un cocktail micidiale, che si accompagna dalla corruzione strutturale.
La Tunisia lo scorso 27 gennaio, ha visto aumentare la recrudescenza di pratiche fraudolenti, come confermato dal rapporto 2015 presentato dalla ONG Transparency International. Nel rapporto si afferma anche che "la corruzione politica in particolare, resta un’enorme sfida. La crescita dello Stato Islamico e la lotta contro il terrorismo che è seguita, sono stati utilizzati da molti governi come una scusa per reprimere le libertà civili e la società civile. Lontano dall'essere utile, un simile approccio significa che le reti corrotte ben impiantate incontestabilmente se ne servono ancora di più per alimentare il terrorismo".

sabato 23 gennaio 2016

Tunisia - Oltre il fumo dei copertoni in fiamme


Ultima ora: venerdì 22 gennaio è stato proclamato il coprifuoco dalle 20.00 di sera alle 5.00 della mattina in tutto il paese.
Dallo scorso fine settimana la Tunisia è teatro di forti proteste, che hanno come centro la regione di Kasserine, una delle più povere dell’intero paese e zona vicina ai monti Chambi base dei gruppi integralisti, ma che in breve si sono estese nel resto del paese.
Sabato scorso un giovane Ridha Yahyaoui è morto fulminato dopo essere salito su un palo durante un sit-in di protesta. Stava contestando la sua, come di altri ragazzi, esclusione dalle lista per l’occupazione, avvenuta arbitrariamente, come spesso succede.
Dopo la sua morte le proteste non si sono fermate. A Kassirine si è cominciato a scendere in piazza contro la "rete di corruzione e nepotismo istituzionalizzato dal potere", come racconta il portale Nawat.
Scontri con la polizia, intervenuta su ordine del governo, che ha anche imposto il coprifuoco. Ma la rabbia, l’esasperazione non si è fermata, lo slogan "Travail ! Liberté et dignité !", gridato nel sud della Tunisia ha iniziato a riecheggiare anche in altre città dal sud al nord.
In particolare il 19 gennaio ci sono state manifestazioni nella capitale e in altre zone. Una giornata in cui non sono scesi in piazza solo i "diplomeur chomeur" (disoccupati diplomati) organizzati nella rete UDC ma anche il sindacato UGT, reti ed organizzazioni della società civile, come racconta nel suo articolo la blogger Lina Ben Mhenni.
A quasi una settimana dall'inizio della protesta un ragazzo si è dato fuoco a Sfax, un poliziotto è morto nella regione di Kasserine, molti giovani sono finiti in ospedale ed il governo usa la strategia del "bastone e la carota": mentre continua con il coprifuoco ha dichiarato di voler offrire più di 5000 posti di lavoro ai disoccupati solo per la regione di Kasserine (mossa che di certo non risolve il problema strutturale ma anzi ha rafforzato peraltro la protesta in altre regioni).
Al di là di quel che succederà nei prossimi giorni qualcosa è già successo.
E’ il portato dell’esperienza vissuta in questi 5 anni dalla cacciata nel gennaio 2011 di Ben Ali. Già perchè proprio pochi giorni prima di Kasserine c’è stato il 14 gennaio, anniversario della rivoluzione. 
Due immagini racchiudono l’evento.
Da un lato l’anniversario ufficiale con il vecchio presidente, contornato da esponenti di Nidaa Tunes e di Ennadah che fa il suo discorso ufficiale. Dall'altro in piazza una manifestazione con UGTT ed altri, tra cui i parenti dei "martiri" della rivoluzione che non smettono di denunciare l’impunità delle forze dell’ordine, la criminalizzazione di chi è stato ed è protagonista delle proteste.
Quel che è successo in Tunisia è che in questi 5 anni, tra difficoltà, contraddizioni, speranze spezzate e alti e bassi, in ogni caso si è resistito.
Ci si è confrontati con la difficoltà di comprendere che non basta mandare via un dittatore per cambiare.Le aspirazioni profonde non solo di giustizia economica, ma di libertà vera, di diritti per tutti sono state al centro di una miriade di piccole e grandi iniziative.
Dalle proteste delle donne, alla contestazione delle politiche del governo di Ennadah, alle mobilitazioni per gli omicidi come quello di Chokri Belaid, alle costanti campagne per le libertà individuali, alla denuncia delle devastazioni ambientali fino alle iniziative contro il terrore integralista ed anche l’autoritarismo del governo con la legislazione d’emergenza, applicata dopo gli ultimi attentati.
Quello che si è mosso, in maniera certo a volte poco visibile, ma costante, a volte contraddittorio, come nel momento dei processi elettorali, ha mantenuta aperta una vitalità, una possibilità di azione e discussione pubblica.
E’ questo che ha fatto sì che le proteste di Kassirine finora non restassero solo come episodi di rabbia di giovani ed emarginati che a volte esplode, non solo in Tunisia, in "riot" che non disegnano un futuro, ma che anche altri ed altre, quella che viene chiamata per comodità "società civile" sia scesa in piazza.
E’ questa capacità, lo ripetiamo a volte caotica, contraddittoria, ma che cerca un comune spazio d’espressione di molti e diversi che rende ancora la Tunisia un paese vivo.
La ricerca dietro ogni singola vicenda che sale alle cronache di costruire un caleidoscopio possibile per intravedere una alternativa sociale complessiva, dalle proteste di questi giorni alle mobilitazioni contro le politiche securitarie, alle iniziative della scena culturale, al dibattito in rete, alle piccole ma puntuali campagne sui diritti civili, sulla libertà d’espressione, sui migranti morti nel mediterraneo.
Oltre il fumo dei copertoni, lo slogan "Travail ! Liberté et dignité !", l’interrogarsi e non accontentarsi, fa capire come il paese dei gelsomini, ancor più per la situazione geopolitica dell’intera area, sia un piccolo laboratorio che va sostenuto nella sua complessità d’espressione, sola strada possibile per intraprendere il cammino del cambiamento sociale.

lunedì 18 gennaio 2016

Messico - Le vene aperte del Messico e la borsa canadese



Nel 1971 Eduardo Galeano 
pubblico "Le vene aperte dell’America Latina" un indimenticabile libro, censurato dalle dittature degli anni settanta, che racconta come nei cinque secoli, dalla conquista al colonialismo, il saccheggio delle risorse abbia prosciugato le ricchezze di una terra ricca e rigogliosa, lasciandola in condizioni di estrema povertà. Oggi l’estrattivismo, legato ai perversi meccanismi finanziari ed intrecciato con 
forme "legali ed illegali" di potere, è la moderna forma in cui il saccheggio continua.
Raccontare il Messico contemporaneo è uno specchio di quel che accade non solo in questo pezzo di mondo.

DI COSA STIAMO PARLANDO?
Si calcola che il 70% del territorio messicano abbia potenziale minerario, disseminato nelle Sierre. In particolare il paese è secondo al mondo per produzione di argento, ai primi posti per il rame, quinto per il piombo, sesto per lo zinco, ottavo per oro e via dicendo fino ad arrivare alle "terras raras", ora tanto richieste per l’industria aerospaziale.

Siamo di fronte non più alle vecchie miniere, scavate nella rocce dai minatori raccontati dalle foto di Salgado, basate sullo sfruttamento della mano d’opera, destinate a chiudere quando il filone si esaurisce.
Le moderne e tecnologiche miniere a cielo aperto comportano un danno ambientale ampio ed esteso. Si tratta di attività industriali che consistono nel rimuovere grandi quantità di suolo e sottosuolo e processarle per estrarne il minerale. Da tonnellate di terra "lavorata" si estraggono poche "once" (oncia troy che si usa nel commercio dei metalli preziosi è circa 31 grammi). Per questo c’è bisogno di vaste quantità di terreno: ettari di ampiezza, metri di profondità. Crateri creati con esplosivi, macchine trituratrici al lavoro e poi si il cianuro, sostanza altamente inquinante, che permette di recuperare i metalli dal materiale rimosso. Nella lavorazione si usano ampie quantità d’acqua. L’inquinamento è garantito, con danni che arrivano a decine di chilometri dalla miniera, Nelle vicinanze e non solo non cresce niente. Senza dimenticare le tonnellate di terra "lavorata", che si trasformano in rifiuti inquinanti in molti casi abbandonati.


CHI COMANDA IL GIOCO: LA BORSA DI TORONTO E VANCOUVER
"Il 75% delle società minerarie mondiali (diamanti, oro, rame, cobalto, uranio…) sceglie il Canada come sede legale, e il 60% di quelle quotate in borsa è iscritta al Toronto Stock Exchange (Tsx). Oltre metà dei progetti minerari quotati in borsa al Tsx si trovano fuori dal Canada, e molte società registrate a Toronto non hanno alcuna concessione all'intero del paese. Il Canada si presenta come attento alle questioni ambientali a casa propria salvo poi offrire comodo approdo alle company che non esitano a perpetrare abusi, quando non crimini.
"L’industria mineraria, regina del Canada" da Le Monde Diplomatique

Il caso del Messico è emblematico.

Fin dall’inizio degli anni novanta si sono avviate profonde modificazioni legislative, volte a permettere una diversa gestione del territorio messicano: la modifica dell’articolo 27, frutto della Rivoluzione dell’inizio del novecento, che collegava la proprietà delle terra agli Ejidos comunali e degli articoli che riguardavano gli investimenti stranieri nel paese. A questo lungo percorso di cambiamenti legislativi si aggiunge nel 1994 il Nafta (North American Free Trade Agreement - Accordo nordamericano per il libero scambio).
Dal 1990 al 2000 si costruiscono le condizioni politiche ed economiche perché le corporation, scatole cinesi a marchio canadese, create con capitali americani (spostatesi dagli Usa dove le estrazioni con miniere a cielo aperto proprio in quegli anni vengono sottoposte a restrizioni), canadesi (un ruolo importante giocano nell'accumulo di capitali i fondi pensioni) ed anche messicani (non mancano all'appello i magnati come Slim) e non solo, possano spiccare il volo ed iniziare a acquisire i diritti di concessione per il territorio del Messico.
Dall’inizio del secolo ad oggi le concessioni, normalmente di circa 90 anni, crescono.
Ad oggi è concessionato il 19% del Messico, con stati come Colima e Sonora che arrivano a picchi di circa il 40%. Il governo di Pena Nieto non si tira indietro: negli ultimi tre anni sono state date più concessioni che nei sei anni del precedente governo Calderon.

Ma come vengono quotate in borsa e crescono le corporation dell’estrattivismo?

Il tuo "valore" non è dato da quanto estrai, ora, nella realtà. Ma la quotazione delle tue azioni è data dalle proiezioni di quello che potrai estrarre, al prezzo attuale dei metalli, dal territorio su cui hai le concessioni.
Siti specializzati come BNamericas, ovviamente a pagamento, prospettano miniera per miniera, concessione per concessione i futuribili guadagni indicando agli operatori dove investire.
E’ questo gioco perverso tra in situ ed ex situ, tra estrazione reale e speculazione, che è alla base della finanziarizzazione dell’estrattivismo. Chi ha più concessioni, al di là dell’operatività degli impianti, vince nel tavolo del "denaro che produce denaro" del capitalismo finanziario. E il Messico, ma l’America Latina tutta diventano il tavolo da gioco di chi opera nella borsa canadese. Stiamo parlando di giri enormi di capitali che ovviamente si intrecciano anche con gli interessi sia di investimento sia di riciclaggio di denaro del crimine organizzato. Due facce della stessa medaglia.

Campagna contro la Goldcorp
JPEG - 584.9 KbCOME IMPORRE L’ESTRATTIVISMO
Chiaramente prima di avere una concessione in Messico si deve presentare come prima mossa la richiesta e uno studio di impatto ambientale. Ma questa prima tappa, con il livello di "corruzione" e di infiltrazione della delinquenza organizzata, ovvero della forma strutturale della governance in Messico, non pare presentare grandi problemi.
Formalmente si passa poi alla seconda mossa: avere il parere positivo della comunità locale. E qui si procede con una duplice forma: o con le buone o con le cattive.
Con le buone: comunità, gia segnate dall'emigrazione e dall'allontanamento dal lavoro agricolo (dovuto alle politiche di agrobusiness globale che hanno portato il paese ad importare il 45% degli alimenti dagli Stati Uniti), cedono in cambio di pochi pesos il loro diritto sul territorio. E’ cosi che migliaia di ettari vengono affittati non comprati. Tra l’altro i contratti d’affito non hanno la stessa referenzialità legale delle compravendite, per cui questa realtà resta quanto mai opaca.


Quando la carota non funziona si usa il bastone.
La cronaca è ricca di episodi drammatici di repressione, di violenze perpetrate dalle "forze dell’ordine" e/o dalla criminalità organizzata, contro chi protesta o perché non vuole le miniere o perché dopo aver accettato si rende conto dell’imbroglio. 

La realtà è che per ora le concessioni stanno crescendo, accompagnate dove le miniere sono attive da un’incalcolabile devastazione ambientale.
Non è solo un problema messicano. Le lotte in Perù proprio negli ultimi mesi hanno portato anche nel paese andino a porre il tema nell’agenda politica a partire da casi emblematici come la miniera Tia Maria, peraltro gestita dalla Southern Copper del Grupo Mexico.

In Messico sono soprattutto le zone dei popoli indigeni a fare le spese di questa scelta devastante, che si accompagna in molti casi alle grandi opere, utili più a far circolare capitali leciti ed illeciti insieme all'industria del turismo.

LA DEVASTANTE AVANZATA DELL’ECONOMIA MESSICANA
Nel suo discorso alla nazione Pena Nieto all'inizio del 2016 si riferiva anche a questa forma di saccheggio quando in diretta televisiva, con lo sguardo fisso sul testo preparato, elencava le magnifiche e progressive sorti del paese che "sta crescendo e guidando l’economia dell’America Latina". Oltre a riferirsi al fatto che il Messico, sottoposto alle riforme strutturali, alla privatizzazione di risorse (vedi il caso Pemex e la lo sfruttamento delle fonti idriche), con le nuove forme di produzione stile maquilladoras (pezzi da assembleare oltreconfine) è in testa alla produzione di schermi digitali, quarto per auto (Mazda e Toyota). Dimenticandosi, però, di citare anche il fatto che il Messico è terzo al mondo per esportazioni di capitali illegali dopo la Russia e la Cina.

L’estrattivismo in Messico, si innerva, come in tutta l’America Latina con la forma della speculazione, potente motore del capitalismo finanziario nel mercato unico globale.
A questo si oppone chi resiste e combatte gridando "No alla mina, sì alla vida".

DATI DEGLI INVESTIMENTI STRANIERI IN MESSICO 

Secondo i dati presentati dalla Secretaría de Economía (SE) attualmente esistono in Messico 902 progetti minerari in mano a capitali stranieri. 97 sono in fase di produzione, 42 di sviluppo, 632 di esplorazione, 129 di rinvio e 2 di promozione. La maggioranza dei capitali provengono dal Canada, le cui imprese partecipano a più del 70 % dei progetti. Delle 293 imprese registrate 205 sono canadesi, 46 americane, 10 cinesi, 6 australiane, 6 guapponesi, 5 inglesi, 4 coreane, 2 cilene, 2 indianeed una a testa per Spagna, Italia, Belgio, Lussemburgo, Brasile, Argentina-Italia e Perú.
Lo stato del Messico in cui ci sono più progetti minerari è Sonora con 217, segue Chihuahua (120), Durango (99), Sinaloa (93), Zacatecas (69), Jalisco (60), Guerrero (37), Oaxaca (35), Michoacán (23), Colima (23), Nayarit (22), Guanajuato (20), San Luis Potosí (18), Coahuila (13), Baja California (12), Puebla (10), Estado de México (9), Baja California Sur (7), Chiapas (7), Querétaro (6), Hidalgo (4), Veracruz (4), Morelos (3), Tamaulipas (2), Nuevo León (1).
Tratto da Grieta Medio para armar


Informazioni in:
M4 Movimiento Mesoamericano contro el Modelo neo extractivo Minero
REMA - Red Mexicana de Afectados por la Minería

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!