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lunedì 14 settembre 2020
giovedì 3 settembre 2020
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sabato 18 luglio 2020
martedì 26 novembre 2019
Bolivia - I nove responsabili del golpe in Bolivia
Continuiamo a osservare cosa sta succedendo in questi giorni in Bolivia.
di Alfredo Serrano Mancilla
Un colpo di stato non è mai un evento isolato. Non esiste un momento specifico che possa essere definito come il generatore definitivo di una rottura democratica. Ogni colpo di Stato è un processo cumulativo in cui la “cornice” è fondamentale per creare le condizioni necessarie e sufficienti a garantirne l’efficacia. L’erosione della legittimità dell’obiettivo da rovesciare viene fatta in vari modi che fecondano un campo in cui poi le azioni destituenti cercano di essere presentate come democratiche.
A causa della natura multidimensionale del processo golpista, non potremmo mai dire che esiste un solo responsabile. Ci sono sempre molti attori che partecipano a questa operazione, da quelli che finiscono per assumere la presidenza post-golpe a quelli che iniziano una campagna di logoramento con una fake news.
In Bolivia, il colpo di Stato contro la democrazia, con l’obiettivo di deporre Evo Morales in quanto presidente, ha avuto anche molti partecipanti, ognuno nella sua giusta condizione; alcuni come collaboratori e altri come complici; ci sono stati alcuni più passivi e altri più attivi; alcuni che hanno pianificato fin dall’inizio e altri che si sono uniti nel mezzo dello svolgersi degli eventi.
Ecco un breve ma preciso resoconto di chi sono stati tutti i corresponsabili del colpo di stato in Bolivia, con nomi e cognomi:
1. Il fascismo dei comitati civici
Soprattutto quello di Santa Cruz. Questo movimento politico, tanto violento quanto razzista, non è nuovo, ma viene dall’inizio dell’amministrazione di Evo Morales, perché non hanno mai accettato che un rappresentante indigeno e contadino fosse il depositario del mandato popolare per governare il paese. Ci hanno provato molte volte, con molti rappresentanti diversi e, questa volta, è stato il turno di Luis Fernando Camacho, che non si è candidato alle elezioni, che non ha nessun voto, ma che ha deciso che la violenza e il terrore erano le armi per raggiungere l’obiettivo: rovesciare Evo e porre fine allo stato di diritto e all’ordine costituzionale nel paese.
2. L’opposizione del partito che si è presentata alle elezioni
Fondamentalmente, Carlos Mesa, il principale oppositore di Evo Morales, sconfitto nelle ultime elezioni, è stato un personaggio chiave in tutto il processo golpista, ignorando i risultati in anticipo e dichiarando i brogli molto prima che le elezioni si svolgessero. Lo stesso giorno delle elezioni, ha annunciato che ci sarebbe stato un secondo turno senza che il conteggio dei voti fosse completato. Dopo le elezioni, ha mantenuto costantemente una posizione silenziosa e complice di fronte alla violenza scatenata dai comitati civici, riordinandosi al nuovo asse politico golpista senza chiedere che venisse fermato.
3. L’attuale Segreteria generale dell’Organización de Estados Americanos (OEA)
Sempre presente ogni volta che c’è un processo di destabilizzazione antidemocratico. Questa volta lo ha fatto direttamente, partecipando al processo elettorale. In primo luogo, con il rapporto preliminare della missione elettorale, che senza base alcuna, ha annunciato che era “raccomandabile un secondo turno”. In secondo luogo, con un rapporto audit preliminare pieno di punti deboli, distorto e parziale, senza rigore, e per lo più incentrato sulla critica del sistema provvisorio (non vincolante) di trasmissione dei dati.
di Alfredo Serrano Mancilla
Un colpo di stato non è mai un evento isolato. Non esiste un momento specifico che possa essere definito come il generatore definitivo di una rottura democratica. Ogni colpo di Stato è un processo cumulativo in cui la “cornice” è fondamentale per creare le condizioni necessarie e sufficienti a garantirne l’efficacia. L’erosione della legittimità dell’obiettivo da rovesciare viene fatta in vari modi che fecondano un campo in cui poi le azioni destituenti cercano di essere presentate come democratiche.
A causa della natura multidimensionale del processo golpista, non potremmo mai dire che esiste un solo responsabile. Ci sono sempre molti attori che partecipano a questa operazione, da quelli che finiscono per assumere la presidenza post-golpe a quelli che iniziano una campagna di logoramento con una fake news.
In Bolivia, il colpo di Stato contro la democrazia, con l’obiettivo di deporre Evo Morales in quanto presidente, ha avuto anche molti partecipanti, ognuno nella sua giusta condizione; alcuni come collaboratori e altri come complici; ci sono stati alcuni più passivi e altri più attivi; alcuni che hanno pianificato fin dall’inizio e altri che si sono uniti nel mezzo dello svolgersi degli eventi.
Ecco un breve ma preciso resoconto di chi sono stati tutti i corresponsabili del colpo di stato in Bolivia, con nomi e cognomi:
1. Il fascismo dei comitati civici
Soprattutto quello di Santa Cruz. Questo movimento politico, tanto violento quanto razzista, non è nuovo, ma viene dall’inizio dell’amministrazione di Evo Morales, perché non hanno mai accettato che un rappresentante indigeno e contadino fosse il depositario del mandato popolare per governare il paese. Ci hanno provato molte volte, con molti rappresentanti diversi e, questa volta, è stato il turno di Luis Fernando Camacho, che non si è candidato alle elezioni, che non ha nessun voto, ma che ha deciso che la violenza e il terrore erano le armi per raggiungere l’obiettivo: rovesciare Evo e porre fine allo stato di diritto e all’ordine costituzionale nel paese.
2. L’opposizione del partito che si è presentata alle elezioni
Fondamentalmente, Carlos Mesa, il principale oppositore di Evo Morales, sconfitto nelle ultime elezioni, è stato un personaggio chiave in tutto il processo golpista, ignorando i risultati in anticipo e dichiarando i brogli molto prima che le elezioni si svolgessero. Lo stesso giorno delle elezioni, ha annunciato che ci sarebbe stato un secondo turno senza che il conteggio dei voti fosse completato. Dopo le elezioni, ha mantenuto costantemente una posizione silenziosa e complice di fronte alla violenza scatenata dai comitati civici, riordinandosi al nuovo asse politico golpista senza chiedere che venisse fermato.
3. L’attuale Segreteria generale dell’Organización de Estados Americanos (OEA)
Sempre presente ogni volta che c’è un processo di destabilizzazione antidemocratico. Questa volta lo ha fatto direttamente, partecipando al processo elettorale. In primo luogo, con il rapporto preliminare della missione elettorale, che senza base alcuna, ha annunciato che era “raccomandabile un secondo turno”. In secondo luogo, con un rapporto audit preliminare pieno di punti deboli, distorto e parziale, senza rigore, e per lo più incentrato sulla critica del sistema provvisorio (non vincolante) di trasmissione dei dati.
sabato 23 novembre 2019
Bolivia - Anatomia di un colpo di stato
La Bolivia è sprofondata in una crisi devastante lo scorso 20 ottobre, data delle elezioni presidenziali e legislative. Si è chiuso così il periodo di maggior stabilità politica della sua intera storia indipendente; le mobilitazioni e proteste in tutto il paese mostrano uno scenario ancora aperto che ha portato, il 10 novembre, alle dimissioni e del presidente Evo Morales e del vice-presidente Álvaro García Linera, e al loro esilio in Messico. Immediatamente, due narrative opposte si sono affermate per leggere gli eventi, tanto in Bolivia come a livello internazionale: da un lato, la sinistra, legata al “primo presidente indio” Morales, o riconducibile ai suoi alleati internazionali (di sinistra o meno, dal Messico al presidente in pectore argentino Alberto Fernández, dalla Cina alla Russia), ha affermato che si sia trattato di un classico golpe de Estado, che ha fatto fuori un presidente legittimo e legalmente rieletto e che è stato orchestrato dal Dipartimento di Stato americano, dalla CIA e dall’oligarchia boliviana. Dall’altra, la destra, tanto interna come internazionale (da Trump a Bolsonaro, e con la complicità dei “sinceri democratici” dell’Unione Europea e del partito democratico americano, con l’eccezione di Bernie Sanders), hanno sostenuto che si sia trattato della rimozione legittima di un “dittatore” che aveva falsato le ultime elezioni per farsi rieleggere.
In realtà, ciò che ha reso più complicato questo tipo di polarizzazione è stato l’emergere, nella sinistra libertaria e di matrice autonomista, di uno spettro di posizioni critiche allo stesso tempo tanto del governo di Evo come delle pulsioni classiste, misogine e coloniali emerse all’interno del movimento di protesta contro di lui. È all'interno di questo ambito che si vuole porre questo articolo, anche se con la consapevolezza che tali espressioni critiche non debbano arrivare a legittimare, come invece sembra che in certi casi facciano, letture negazioniste o tiepide sul colpo di Stato che si sta consumando in Bolivia e che, come ogni espressione di fascismo, è da respingere con forza. Pensiamo invece, piuttosto, che solo una lettura critica e autocritica del cosiddetto “processo di cambiamento” avvenuto sotto il MAS possa rivelarsi utile a una prospettiva realmente anti-imperialista.
Un’elezione illegittima
Le elezioni del 20 ottobre sono avvenute in un contesto particolarmente torbido. La quarta rielezione di Evo Morales, difatti, nasce in una realtà di palese incostituzionalità, visto che la stessa costituzione promulgata nel 2009, durante il primo mandato di Morales, stabilisce che l’elezione presidenziale di una stessa persona è estendibile al massimo per due mandati. Già nell’ottobre del 2014, Evo era stato eletto per la terza volta, ma lo aveva fatto con la giustificazione che il suo primo mandato (2006-9) era stato realizzato sotto la costituzione precedente. Tuttavia, l’incapacità cronica dei populismi latinoamericani di prescindere dalla figura del leader carismatico (il caudillo) aveva imposto, nei calcoli del partito Movimiento Al Socialismo (MAS), la necessità di garantire a Morales di poter essere rieletto a tempo indefinito. Fu così che, il 21 febbraio 2016, si tenne un referendum costituzionale per garantire proprio questa possibilità, nel quale tuttavia Morales venne sconfitto, per la prima volta dalla sua elezione nel 2005, anche se per strettissima misura. Invece di seguire l’esempio del venezuelano Hugo Chávez, che dopo una sconfitta nel referendum costituzionale del 2006 era riuscito a imporre la rielezione in un nuovo referendum nel 2009, Evo ha preferito affidarsi a un ricorso legale alla Corte Suprema, che nel 2018 gli ha garantito, in maniera sorprendente, il “diritto umano” a essere rieletto indefinitamente, violando così in modo clamoroso l’esito referendario.
In questo modo, nonostante una conclamata illegittimità, Morales si è ripresentato alle elezioni dello scorso ottobre, puntando a vincere direttamente al primo turno, per cui era sufficiente raccogliere il 40% dei voti con un distacco di 10% sul secondo candidato, in modo da evitare la situazione di polarizzazione di quasi tre anni prima, che aveva testimoniato che il leader del MAS godeva di un consenso inferiore al 50%. La sera delle elezioni, quando le proiezioni elettorali coprivano l’83.8% del bacino elettorale, Evo Morales era dato al 45.3%, appena 7 punti in più del suo avversario, l’ex presidente Carlos Mesa, al 38.2%. La decisione del Tribunale Elettorale di sospendere la pubblicazione dei dati per 20 ore durante lo scrutinio, ha scatenato le proteste degli elettori della destra che, denunciando frodi, hanno bruciato numerose sedi elettorali, cancellando tuttavia in questo modo numerose eventuali prove. Quando Morales aveva già dichiarato lo Stato d’Emergenza, il Tribunale Elettorale ha reso pubblici i risultati al 95.63% dello scrutinio che davano questa volta la vittoria di Evo con 10.12 punti di vantaggio. Il risultato si è poi stabilizzato con un differenziale di 10.57%. Di fronte alle proteste infuocate dei candidati e degli elettori oppositori, l’argomentazione del governo è stata quella che le ultime schede scrutinate provenissero dalle zone rurali, dove il consenso a Morales è statisticamente molto più alto. Si tratta senz’altro di una giustificazione credibile, tanto più che la stessa opposizione non ha potuto presentare nessun atto di scrutinio con prove di brogli. Tuttavia, il modo poco pulito con cui il governo ha gestito l’intero processo, prima con la rielezione illegale e poi con il lungo blackout del sistema di conteggio, per il quale erano state date quattro spiegazioni diverse e per il quale si era pure dimesso il vice-presidente del Tribunale Elettorale, ha creato un clima di scarsa legittimità al voto. Ed è stato grazie a questo clima che la strategia golpista ha potuto mettersi in marcia.
Il colpo di Stato
Fin dal primo giorno di proteste, il governo del MAS ha denunciato che dietro i moti dell’opposizione ci fosse un tentativo di colpo di Stato. Tuttavia, come nella famosa favola di “al lupo al lupo!”, evocare lo spettro del golpe è diventata una pratica così comune, un dispositivo così “normale” di governo dei progressisti latinoamericani, ogni qual volta vogliono liquidare in maniera sbrigativa una critica interna o da sinistra (“non vorrete mica che tornino al potere quegli altri!”) e far ingoiare i peggiori rospi, da essere diventato un’arma spuntata. Che la “sinistra” gridi al possibile golpe ogni volta che fa una cosa di “destra” è ormai la regola. Resta da capire quando purtroppo di golpe si tratti davvero, fermo restando che l’oligarchia latinoamericana non se ne sta con le mani in mano, e un colpo di Stato rientra, storicamente, nei suoi possibili strumenti e strategie.
Nel caso boliviano, il golpe si è attivato, in origine, quando il candidato oppositore Carlos Mesa, considerato, come ogni neoliberista che si rispetti, un moderato “centrista”, ha rifiutato la revisione del voto da parte dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA, dalla sigla in spagnolo) proposta da Morales, una piattaforma inter-governativa che si è sempre contraddistinta, e ancor più con l’attuale gestione dell’uruguaiano Luis Almagro, per promuovere una politica internazionale fanaticamente anti-bolivariana e strettamente asservita agli interessi americani. La ragione del rifiuto, tuttavia, sebbene sia stata spinta dalla volontà politica di radicalizzare la protesta sociale, è stata in parte giustificata dal fatto che la stessa OEA aveva sorprendentemente legittimato, a suo tempo, la rielezione di Morales. Fatto sta che, considerando illegittimo l’intervento dell’OEA, e nel contesto di una protesta generalizzata, socialmente variegata (non ridotta alle sole classi medie) e sempre più violenta (quasi senza repressione da parte delle forze dell’ordine, ma contrastata dai gruppi organizzati del MAS, che facevano un saldo di tre morti), il salto di qualità della strategia golpista è avvenuto il 2 novembre, quando il neo-presidente del Comité Cívico de Santa Cruz, un’organizzazione oligarchica e imprenditoriale fino ad allora in accordi con il MAS, Luis Fernando Camacho, ha invocato il “ritorno di Dio e della Bibbia” nel palazzo presidenziale contro il supposto satana indigeno Evo Morales e ha pubblicamente chiesto a polizia ed esercito di ribellarsi al presidente. Solo sei giorni dopo, l’8 novembre, prima la polizia di Cochabamba e poi rapidamente tutta la polizia nazionale, si ammutinava contro il governo. Lo stesso Camacho entrava, con l’aiuto dell’esercito, a La Paz per aizzare la rivolta, mentre i suoi seguaci toglievano le bandiere della whipala (il simbolo dei popoli indigeni della Bolivia), e i poliziotti se le staccavano dal distintivo. Camacho è un imprenditore legato all’agrobusiness e alla finanza, fanatico cattolico ma con molto successo tra gli evangelici, macista (si fa chiamare macho Camacho) e seguace di Pablo Escobar; nel tentativo separatista di Santa Cruz nel 2008 aveva guidato un gruppo neonazista e squadrista chiamatoUnion Juvenil Cruceñista (UJC) ed è considerato il Bolsonaro boliviano.
Due giorni dopo l’ammutinamento della polizia, la mattina del 10, sotto pressione dello stesso Camacho, la OEA emetteva il risultato della sua revisione elettorale, in cui diceva che, nonostante non ci siano prove di frodi elettorali conclamate e capaci di condizionare il risultato, la presenza di varie piccole irregolarità nel voto e il clima sociale particolarmente teso suggerivano di realizzare nuove elezioni. Anche se alcune verifiche extra-ufficiali, come quella del Center for Economic and Policy Research (CEPR), erano intanto giunte a stabilire, invece, la piena regolarità del processo elettorale, la mattina stessa Morales convocava un nuovo suffragio entro il 20 gennaio, data in cui ufficialmente scadrebbe il suo attuale mandato. Ma la dinamica del golpe era ormai attivata: i partiti di opposizione, tanto quelli “centristi” come quelli fascisti, chiedevano ormai la caduta del governo senza se e senza ma, e anche alcuni sindacati di contadini e minatori, fino ad allora rimasti fedeli a Evo, gli suggerivano, per evitare ulteriore spargimento di sangue, di dimettersi; allo stesso tempo, i manifestanti bruciavano le abitazioni e minacciavano le famiglie di ministri e deputati del MAS (cosa avvenuta anche al contrario, da parte dei masisti nei confronti dei politici oppositori) e li costringevano a dimettersi uno dopo l’altro; infine, sotto pressione esplicita dell’esercito, nel pomeriggio di quello stesso 10 novembre Morales e García Linera, abbandonata La Paz e rifugiatisi nella regione cocalera del Chaparé, rinunciavano all’incarico. La sera stessa Camacho, pur privo di qualsivoglia carica instituzionale, annunciava l’emissione di un mandato di cattura per lo stesso Evo Morales, che il giorno dopo, insieme al vicepresidente e alla ministra della Salute, Gabriela Montaño, si esiliava a Città del Messico. L’indomani, 12 novembre, dopo le dimissioni delle maggiori cariche instituzionali del MAS, un parlamento senza quorum, perché privo della maggioranza dei deputati e dei senatori del MAS, a cui l’esercito ha impedito l’ingresso, ha votato l’elezione presidenziale della senatrice di destra, e vice-presidente del Senato, Jeanine Añez, che ha assunto l’incarico al fianco di Camacho e dichiarando che “la Bibbia è tornata nel palazzo”.
Come si è arrivati al golpe? La parabola discendente del governo Morales
Il golpe, infine, si è compiuto. Tuttavia, non si tratta né di un golpe tradizionale, con una sollevazione armata dell’esercito e sotto la completa gestione della CIA e del Dipartimento di Stato americano, come nei colpi di Stato degli anni ‘70 e in generale nel periodo della Guerra Fredda. Né si tratta di un golpe puramente parlamentare, o blando, orchestrato dalle classi padronali assieme a magistratura e parlamento grazie a strategie di lawfare, e con il consenso passivo dell’esercito e degli Stati Uniti, com’è avvenuto nelle recenti rimozioni del presidente dell’Honduras Manuel Zelaya nel 2009, di quello del Paraguay Fernando Lugo nel 2012, e di quella del Brasile Dilma Rousseff nel 2016. Si è trattato, in questo caso, di un golpe “civico-poliziesco-militare”, in cui è ancora poco chiaro il peso specifico, l’intenzionalità e il contributo dei vari attori: partiti d’opposizione, protesta popolare, grande capitale, gruppi paramilitari, polizia, esercito, governi americano e brasiliano, OEA.
Quello che si può affermare è che il golpe non è mai sparito dalle strategie reazionarie latinoamericane, ma che la sua possibilità di attuazione o meno, in un contesto di post-Guerra Fredda e di indebolimento nella capacità di intervento diretto degli USA nella regione, dipende sempre più dal grado di illegittimità sociale che si riesce a costruire attorno al governo da abbattere, com’è risultato più che evidente in tempi recenti in Brasile. Com’è evidente, il governo di Evo Morales si reggeva, a livello formale-instituzionale, su basi di legittimità fragili, ma queste rispecchiavano, ovviamente, condizioni materiali e sociali ancora più precarie.
Nonostante indici economici di crescita che nei quasi 14 anni di governo Morales hanno registrato una media del 4.9% annuo, portando il PIL da 9 a 42 miliardi di dollari, la qualità di questi numeri ha tuttavia aperto sempre più importanti crepe nella base sociale del MAS. In generale, si potrebbe parlare di due fasi del governo di Evo. Durante il primo mandato, pur in mezzo a mille contraddizioni, il MAS ha portato avanti un’agenda di riforme radicali che sono state il prodotto di una sintesi dei diversi settori sociali che prima, con la Guerra dell’Acqua nel 2000 e con la Guerra del Gas nel 2003, hanno aperto una crepa nella gestione governamentale neoliberale, e poi hanno sostenuto e portato al governo lo stesso MAS, partecipando al suo interno. Come infatti segnala Raúl Zibechi, tra 2002 e 2006 si era formato il Pacto de Unidad tra le principali organizzazioni indigene e contadine in appoggio a Evo: la Confederación Sindical Única de Trabajadores Campesinos de Bolivia, Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (Conamaq), la Confederación de Pueblos Indígenas del Oriente de Bolivia (Cidob), la Confederación Nacional de Mujeres Campesinas Indígenas Originarias de Bolivia “Bartolina Sisa” e associazioni di quartiere di El Alto. Questa felice sintesi, a cui bisogna aggiungere i sindacati dei minatori, aveva portato a quattro grandi traguardi: la convocazione di un’Assemblea Costituente, che sfociò nel 2009 nella creazione della nuova Costituzione dello Stato Plurinazionale di Bolivia; la nazionalizzazione delle riserve di gas; la riforma agraria; e una serie di leggi in tutela della Madre Tierra e dirette a cambiare il regime produttivo del paese in senso ecologico.
Tuttavia, a partire dal 2008-10, questi passi avanti si sono realizzati, concretamente, in vittorie poco più che formali. La causa principale è stata l’esito del conflitto che ha visto contrapporsi il governo e l’oligarchia di Santa Cruz e delle Tierras Bajas, che chiedevano l’autonomia nella gestione dei proventi del gas, contrastavano la riforma agraria e arrivarono sull’orlo di scatenare una guerra civile con milizie paramilitari. Solo con l’intervento del presidente brasiliano Lula da Silva il conflitto si ricompose, ma al patto di un’inclusione del Comité Cívico de Santa Cruz nel MAS e nella piattaforma governativa, e con l’accettazione delle imprese brasiliane di costruzione e di Petrobras per i progetti vincolati all’Iniziativa per l’Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana (IIRSA). Ma un’altra causa è stata il lento ma inesauribile slittamento dell’asse del “processo di cambiamento” dai movimenti sociali verso lo Stato e le sue logiche di accumulazione di potere e privilegi. La costituzione avrebbe dovuto portare a una messa in discussione dell’autoritarismo statale sulle comunità indigene, ma nei fatti non ha impedito che l’autonomia di queste ultime venisse perennemente violata da politiche statali di estrattivismo, di cooptazione e di burocratizzazione. Nel giugno del 2012 – racconta Zibechi – la CIDOB, che aveva abbandonato l’anno precedente il patto d’unità, si è vista infiltrata e pesantemente divisa dall’azione governativa, mentre nel 2013 dei dissidenti della CONAMAQ, altra organizzazione che aveva rotto con il MAS, affini a quest’ultimo, hanno provato a impossessarsi dell’organizzazione con la forza e con l’aiuto della polizia.
La riforma agraria, dal canto suo, avrebbe dovuto togliere terre ai latifondisti, ma si è poco a poco snaturata: da un lato, i latifondi venivano per lo più preservati, mentre era sempre più incentivata, anche con sussidi statali, la produzione di soia transgenica, giunta nel 2012, secondo Pablo Solón1, al 92% della produzione (contro il 21% nel 2005). La maggior redistribuzione di terra è occorsa invece ai danni dell’espansione della frontiera agricola in Amazzonia, portata avanti da una serie di incendi dolosi ma consentiti dal governo, che hanno favorito tra le altre cose anche il settore dell’allevamento intensivo. Lo scorso agosto questo processo si è reso evidente con gli incendi nella regione di Chiquitanía, con cui la Bolivia ha fatto a gara con il Brasile di Bolsonaro nella distruzione del cosiddetto “polmone del mondo”. D’altra parte, la politica agraria ha beneficiato particolarmente, tra gli indigeni, i coltivatori di coca del Chaparé, il che ha trasformato la produzione di coca, poco a poco, da un giusto diritto dei popoli originari di preservare una tradizione agricola che non deve essere criminalizzata, al trasformarsi di quest’ultima in una vera e propria commodity, assoggettata alle catene del valore del narcotraffico globale, e con importanti ripercussioni nell’estensione della frontiera agricola verso zone a bassa quota, con il conflitto tra gli indigeni cocaleros di origine aymara e quelli amazzonici o delle cosiddette Tierras Bajas.
Anche nel caso del gas, non si può parlare di vera e propria nazionalizzazione, ma piuttosto di una, comunque positiva, rinegoziazione dei contratti, che ha permesso di ridurre della metà i profitti delle multinazionali rispetto alla quota in mano allo Stato, ma aumentando i loro guadagni reali, mentre attualmente il 75% della produzione di gas boliviano è nelle mani di Petrobras e dell’impresa spagnola Repsol (2).
Infine, le leggi in difesa dell’ambiente e della Pachamama, come la Ley Marco de la Madre Tierra y Desarrollo Integral, sono rimaste di fatto lettera morta, mentre nuove concessioni minerarie venivano continuamente rilasciate a multinazionali straniere, e venivano promossi progetti di grandi infrastrutture ecologicamente devastanti, come l’autostrada che doveva passare sul Territorio Indígena y Parque Nacional Isiboro-Sécure (TIPNIS), fermata da un’imponente mobilitazione popolare nel 2011.
A fronte di queste enormi sconfitte rispetto agli immaginari di socialismo comunitario e di buen vivir suscitati dal governo Morales, alcuni passi avanti innegabili devono essere riconosciuti: soprattutto grazie ai proventi pubblici del gas, passati da 673 milioni di dollari nel 2005 a 5,45 miliardi nel 2013 (3), sono state promosse importanti politiche sociali, che hanno permesso una forte riduzione dei tassi di povertà estrema dal 38 al 15% della popolazione, sono state promosse politiche di accesso massivo all'università, una trasformazione dei piani e metodi di studio di quest’ultima più in linea con le necessità delle comunità indigene, la creazione di una rete di radio comunitarie (che, come segnalato da Adriana Guzmán, sono state tra i primi bersagli attaccati dal colpo di Stato e dalla nuova presidenta Añez), il miglioramento delle infrastrutture nelle comunità indigene e una riforma importantissima che ha garantito l’accesso universale alla salute pubblica. Un altro piccolo passo avanti è stato il fatto che, a fronte comunque di una tendenza all’aumento delle politiche estrattive, c’è stato il tentativo di internalizzare alcuni processi produttivi e di aumentare il valore aggiunto di alcune materie prime esportate. Infine, come ha giustamente affermato il vice-presidente esiliato e intellettuale marxista García Linera, si è venuta a creare, grazie a una gestione corporativa e di inclusione sociale della macchina statale, una nuova classe media di origine indigena, che ha in parte estromesso la classe media tradizionale bianca, causando un forte senso di risentimento sociale e razziale in quest’ultima. Tuttavia, come ha argomentato Solón (4), la crescita di questa nuova classe media, se non è accompagnata da un processo di politicizzazione, rischia di produrre solo nuovi gruppi di potere nei municipi, nei ministeri pubblici, nelle imprese, nelle Forze Armate e nei sindacati, più interessati alla distribuzione interna dei nuovi margini di lucro che alla trasformazione sociale radicale.
In sintesi, quello a cui si è assistito in questi 14 anni in Bolivia è stato un lento slittamento dalla centralità di un conflitto di carattere politico-sociale a uno di tipo geo-politico, in cui il governo si è legato sempre più a interessi imperialisti alternativi agli USA (prima il Brasile, poi la Cina) e a piattaforme regionali progressiste come quella guidata dal Venezuela, ma che ha visto la lotta di classe ammorbidirsi sempre più, fino alla fusione tra l’agenda governativa e alcuni interessi oligopolistici come quelli minerari, finanziari e dell’agro-business. Ciò nonostante, sarebbe ingiusto negare gli importanti successi sociali raggiunti sotto il MAS, ed è proprio contro quelli che si è scagliata l’agenda golpista, intenzionata a speculare sul diffuso malessere sociale rappresentato dai limiti governativi per far arretrare le condizioni e i diritti sociali a 14 anni fa.
E ora? Composizione di un conflitto ancora aperto
La crisi in atto in Bolivia si è risolta, almeno per ora, con un colpo di Stato oligarchico e dai connotati imperialisti, simbolicamente rappresentata dalla repentina decisione della nuova presidenta Añez di rimandare a Cuba i medici presenti nelle missioni, di uscire dall’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (ALBA) e dalla messa in discussione dell’Unión de Naciones Sudamericanas (UNASUR) Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che nel conflitto in corso i settori sociali si siano suddivisi, o si suddividano, lungo una chiara linea sinistra-destra o classi medie e borghesia contro classi popolari. Come ha segnalato ancora una volta Solón, se da un lato è indubbio che i settori della destra reazionaria si sono scagliati contro Evo, e che a Santa Cruz questi settori siano egemoni, in altre zone le proteste contro i brogli hanno visto articolazioni variegate di settori di destra e sinistra: a Potosí l’opposizione al governo si era radicalizzata prima delle elezioni per via di una concessione di 70 anni per la produzione di litio nel salar di Uyuni, dove si è scoperto il maggior giacimento al mondo di questo minerale; queste proteste hanno sia una matrice ecologista che una corporativa da parte dei minatori, intenzionati a mantenere nella regione quote dei proventi per l’esportazione del litio. Nel caso di La Paz, importante è stata la presenza nelle manifestazioni di studenti dell’università pubblica e di gruppi ambientalisti che fino al conflitto del TIPNIS lavoravano per il governo. Infine, la gestione autocratica di quest’ultimo ha fatto in modo che, nella fase di accumulazione di forze dei settori golpisti, le principali organizzazioni sociali di riferimento del MAS o critiche non avessero reagito in maniera efficace, proprio per via del lungo processo di cooptazione, corporativizzazione e indebolimento subito negli anni passati e per la totale mancanza di una prospettiva di emancipazione nella difesa del governo: dopo tanti anni di tradimenti di Morales, in fin dei conti, perché valeva la pena accorrere in sua difesa?
Queste organizzazioni, in primo luogo proprio i cosiddetti Ponchos Rojos della CONAMAQ, le organizzazioni di quartiere di El Alto, le femministe antipatriarcali di Mujeres Creando e i cocaleros del Chaparé e di Cochambamba, sono però insorte in seguito alle dimissioni di Evo, hanno assediato le principali città con blocchi stradali nelle vie d’accesso e hanno chiesto con forza il ritorno dell’ordine costituzionale, il rispetto per la whipala ed elezioni immediate, cercando di frenare e di sabotare il progetto golpista. Ad oggi, a una settimana dal levantamiento indigeno, l’esercito, a cui il nuovo governo ha garantito l’immunità per gli assassini compiuti nell’ambito della repressione, ha risposto con forza, con un saldo di già 24 morti. Fuori gioco (per ora) Evo Morales, consumatosi (per ora) il colpo di Stato, sono ancora una volta i popoli originari, principali artefici del “processo di cambiamento”, a riportare l’asse del conflitto sul terreno della lotta di classe.
1 Pablo Solón, Algumas reflexões, autocríticas e propostas sobre o processo de mudança na Bolívia, em AA.VV., O eclipse do progressismo. A esquerda latino-americana em debate, Rio de Janeiro: Elefante, 2018, p. 67.
2 Ibidem, p. 71.
3 Ibidem.
4
Ibidem, pp. 69-70.
tratto da Euronomade
tratto da Euronomade
mercoledì 6 novembre 2019
America Latina - Il diluvio è forte, annebbia la vista
L’America Latina, oggetto di una disputa egemonica feroce e globale tra Cina e Stati Uniti, è investita da una tormenta che rende instabile qualsiasi governo e ardua la possibilità di leggere i processi in corso. Trascorso il tempo in cui l’alto prezzo delle materie prime ha permesso alle politiche – comunque neoliberiste – dei governi progressisti di non comprimere sotto il limite della sopravvivenza i redditi delle popolazioni povere, s’è aperta una fase nuova nel caos sistemico. Così, la guerra estrattivista de los de arriba contro i poveri, sostenuta dai governi di ogni colore, produce grandi proteste e sollevazioni di diversa natura. Nel nucleo principale dei protagonisti, si distinguono le donne, le comunità indigene e i giovani, che vedono chiudersi ogni speranza di futuro che non umili la dignità. Raúl Zibechi, intervistato da Gloria Muñoz Ramirez, direttrice di Desinformémonos e storica firma de la Jornada, traccia una panoramica completa di quel si muove nella regione latinoamericana. Queste rivolte, spiega, non sono contro un presidente ma contro un modello predatorio che devasta il pianeta e prova a controllare la gente attraverso le politiche sociali e la militarizzazione, due elementi che si integrano alla perfezione con il fine di mantenere la popolazione soggiogata. Di fronte al diluvio che li colpisce e impedisce di vedere vie di uscita credibili, los de abajo non possono che resistere in modo organizzato e collettivo, costruendo le arche di una sopravvivenza che esprime già oggi i mondi nuovi.
Delle attuali rivolte latinoamericane, del ruolo dei popoli indigeni, dei giovani e delle donne, del ruolo degli Stati Uniti, delle elezioni in Bolivia e in Argentina, della congiuntura in Messico, dell’ultra-destra e di ciò che segue per chi cerca un mondo più degno, parla in questa intervista Raúl Zibechi, giornalista e scrittore uruguayano che conosce, percorre e accompagna diverse lotte dell’América Latina.
Cosa sta succedendo in América Latina? Perché adesso le rivolte in Ecuador, Haiti e Cile?
Siamo alla fine di un periodo segnato dall’estrattivismo, la fase attuale del neoliberismo o Quarta Guerra Mondiale. Credo sia l’autunno dell’estrattivismo perché il suo periodo d’oro è stato prima della crisi del 2008, quando i prezzi alti delle commodities hanno permesso di migliorare i redditi dei più poveri senza toccare i ricchi, senza riforme strutturali, come quella agraria, quella urbana, la fiscale e così via.
Le rivolte sono molto diverse in ogni paese. In Ecuador abbiamo una sollevazione – sono state una decina dal 1990 – ben organizzata e diretta dalla Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE), che per la prima volta è stata parzialmente scavalcata dai poveri delle città. In Cile, invece, c’è un’esplosione, senza che nessuno l’abbia convocata e senza direzioni ma con una crescente organizzazione territoriale attraverso assemblee popolari. I settori più organizzati sono i Mapuche, gli studenti e le donne, che stanno giocando un ruolo rilevante.
Credo che la gente ne abbia abbastanza, sia stanca e arrabbiata per tanta disuguaglianza e per il livello infimo in cui si trovano il lavoro, la salute e l’educazione. Quel che c’è sono servizi pessimi per gente di scarto. La vedono così soprattutto i più colpiti, le ragazze e i giovani, che si accorgono di non avere alcun futuro in questo sistema. La gente approfitta delle crepe (nella dominazione, ndt), come per lo sciopero degli autotrasportatori in Ecuador, per farsi sentire.
Qual è la tua lettura di ciò che sta succedendo in Bolivia? Nelle elezioni presidenziali è stato rieletto Evo Morales, ma poi sono seguite le mobilitazioni…
Un’altra frode. Evo Morales e la cricca che lo circonda, a cominciare dal vicepresidente Álvaro García Linera, si aggrappano al potere, la sola cosa di cui gli importa. È una lezione importante: avendo rinunciato a ogni etica ai dirigenti di sinistra rimane solo l’ossessione del potere. Questo merita un’analisi profonda. Come siamo arrivati a questo? Che cosa è accaduto perché il loro unico interesse sia il potere e tutto ciò che lo circonda, come il lusso o il controllo sulla vita degli altri?
Morales non doveva presentarsi a queste elezioni perché ha convocato un referendum e ha vinto il No alla sua candidatura. Ha violato la volontà popolare e adesso torna a farlo. È chiaro che la destra pretende di approfittare di questa situazione, ma non dimentichiamo che la Organizzazione degli Stati Americani, attraverso Luis Almagro, difende il regime di Morales, questo mi sembra molto significativo. Chi parla di colpo di Stato nasconde che c’è un patto con la destra, i militari e la OEA, cioè con gli Stati Uniti, per sostenere il governo di Morales.
Dobbiamo riflettere sul perché la sinistra non riesce a immaginare di potersi staccare dal potere, sul perché non concepiscono la politica senza aggrapparsi allo Stato. E sul perché, tra le altre cose, hanno abbandonato la costruzione di poteri popolari, sul perché non gli interessa che la gente si organizzi e fanno inevece tutto il possibile per evitarlo, perfino attraverso la repressione e il terrorismo di Stato, come in Nicaragua.
Che ruolo giocano i popoli indigeni nelle rivolte?
Sono il nucleo principale, insieme alle donne e ai giovani. Quel che sta succedendo in Cile ha tre precedenti: la lotta del popolo mapuche, quella degli studenti, molto viva da oltre dieci anni, e quella delle donne che l’anno scorso hanno occupato le università contro il patriarcato accademico. Mi sembra buffo quando dicono che il Cile s’è svegliato. Quelli che si sono svegliati sono stati i giornalisti e gli accademici che stavano nel limbo. Los de Abajo non hanno mai dormito. Un anno fa la risposta di tutto il Cile all’assassinio di Camilo Catrillanca è stata impressionante, con i blocchi stradali per un mese a Santiago e in altre trenta città.
I popoli originari hanno due grandi qualità. La prima è l’organizzazione territoriale comunitaria che sta diventando più profonda con la comparsa dell’attivismo dei giovani e delle donne, che democratizzano le comunità. La seconda è che incarnano modi vivere potenzialmente non capitalisti, cosa che nessun altro settore della società può offrire alle lotte. Educazione, salute e cibo in chiave non mercantile, a cui bisogna aggiungere la costruzione di poteri di un altro tipo, non statali.
Per questo i popoli originari sono referenti per tutti coloro che lottano. Per questo i “bianchi delle città” agitano le bandiere Mapuche e le donne, studentesse e contadine ecuadoriane accettano l’orientamento degli indigeni. Mi piacerebbe dire che i popoli originari sono oggi il principale referente delle rivolte, anche per i settori delle classi medie urbane. A Quito, le donne professioniste lavavano i bagni della Casa della Cultura, mentre donne e uomini originari discutevano in assemblee improvvisate. Lo hanno fatto come gesto di rispetto e di accettazione attiva della loro leadership, con un atteggiamento che dovrebbe farci riflettere dal cuore perché emoziona profondamente.
L’Uruguay rifiuta la Guardia Nazionale, che al contrario è stata approvata in Messico. Qual è il risultato delle forze armate nelle strade?
Nei prossimi anni vedremo sempre più i militari nelle strade. Lula e Dilma, in Brasile, li hanno portati nelle favelas e nessuno ha alzato la voce, perché lì sono neri e “delinquenti”. Il tema del crimine organizzato è un pretesto perfetto, perché serve a lavare la coscienza delle classi medie della sinistra, che sono poi quelle che meno soffrono la violenza.
Il futuro ministro degli Interni del Fronte Amplio in Uruguay, Guastavo Leal, sta già comportandosi come tale e si dedica a perseguire i punti di vendita di pasta base con una foga speciale, demolisce le case degli spacciatori quando vengono detenuti. Non si tratta di narcos, in senso stretto, ma di poveri che sopravvivono nella delinquenza e che vengono sottoposti a metodi repressivi identici a quelli che utilizza Israele con i Palestinesi. Tuttavia, in Europa sono state scoperte partite di cocaina fino a cinque tonnellate imbarcate nel porto di Montevideo.
La presenza nelle strade dei militari è inevitabile perché los de arriba hanno dichiarato guerra alla popolazione. Non c’è alcuna relazione con l’essere di destra o di sinistra, è una questione di classe e di colore della pelle, è la politica dell’1 per cento della popolazione che vuole restare arriba, sopra.
Che lettura dai del Messico in questo contesto latinoamericano?
Da tempo in Messico si sta incubando qualcosa di molto simile a quello che succede in Cile, una fenomenale esplosione che è stata ritardata prima dalla guerra e adesso dal governo di Andrés Manuel López Obrador. Però la pentola sta accumulando pressione ed è inevitabile che a un certo punto momento si verifichi una enorme sollevazione, accadrà quando la rabbia supererà la paura. Non sappiamo quando, ma il processo è in marcia, perché la politica di approfondimento dell’estrattivismo dell’attuale governo è un dispositivo di accumulazione di rabbie.
Dall’altra parte, in Messico vedo un potere debole, un governo che si tira indietro di fronte ai narcos, com’è successo a Culiacán, e invece mette sotto pressione le popolazioni come a Morelos, quando hanno assassinato il difensore della comunità Samir Flores Soberanes. AMLO sta negoziando coi narcos e calpesta i popoli originari, rivelando così la miseria etica del suo governo. Ha detto che si è trattato di salvare vite, e questo lo posso capire. Ma chi ha difeso la vita di Samir e di tanti altri assassinati in questo suo primo anno di governo?
L’Argentina e le elezioni. Il ritorno del progressismo è la soluzione?
Il problema è che torna un’altra cosa, non il progressismo. In Argentina non torna il kirchnerismo del 2003, ma un regime peronista molto repressivo, che sarà più simile a quello del Perón del 1974 o del Menem del 1990. Il ciclo progressista è finito, sebbene ci siano ancora governi che si proclamano di quella corrente. Il progressismo è stato un ciclo segnato dai prezzi alti delle commodities, cosa che ha permesso di trasferire ai settori popolari le entrate degli alti avanzi commerciali. Oltre a questo fattore economico, il ciclo finisce per un’altra ragione decisiva: finisce la passività, il consenso tra classi, i movimenti si mettono in attività e questo segna un limite chiaro al ciclo che era possibile solo grazie all’accettazione abajo (in basso, ndt) delle politiche de arriba.
Credo che il nuovo governo dovrà affrontare enormi difficoltà per il peso del debito che lascia Macri e che costringe a una politica di austerità. Il problema è l’aspettativa popolare che le cose cambino rapidamente e si produca un miglioramento rilevante nell’attività economica e nei salari.
Sappiamo che questo non è possibile, si apre allora un periodo di imprevedibilità nel quale la gente non si metterà passiva ad aspettare che le vengano consegnati benefici. In Argentina vedremo un potente approfondimento dell’estrattivismo, in particolare per quel che riguarda il petrolio e il gas di Vaca Muerta.
In Costa Rica e a Panama ci sono rivolte studentesche. Che ruolo giocano i giovani?
I giovani sono uno dei settori più attivi. Se gli indigeni subiscono l’espropriazione e le donne violentate e assassinate, i giovani sanno che non hanno futuro, perché una vita dignitosa non può consistere in un lavoro di otto o dieci ore in un Oxxo, che con il viaggio di andata e ritorno a casa diventa di quasi quattordici ore dedicate al lavoro. Non c’è tempo né animo per fare altro che consumare con quel poco che resta di un salario, quando pure ce ne sia uno di salario.
Solo una minoranza ha accesso a studi superiori, con borse di studio che garantiscono fino ai 40 anni una vita comoda. Un contrasto acuto con i giovani dei settori popolari, gli indigeni e i neri che, quando escono dai loro quartieri, subiscono la violenza della polizia o dei narcos, il che ci indica che vivono in una situazione di acuta fragilità. Questo li porta, in certi momenti, a entrare nella criminalità organizzata, che garantisce loro una vita più comoda. Ma, soprattutto, gli fa accumulare rabbia, molta rabbia.
In Ecuador, i vecchi dirigenti comunitari erano sorpresi del fatto che i giovani si scontrassero con i gendarmi a mani nude, per pura ostilità, senza calcolarne le conseguenze. Sono riusciti a prendere centinaia di poliziotti che poi sono stati consegnati all’ONU o ad altre autorità, perché i dirigenti sono intervenuti affinché non venissero feriti. Fosse stato per i giovani, li avrebbero liquidati lì per lì, ai piedi delle barricate. Perché questa gioventù povera non ha esperienze di lotta organizzata e tende a togliersi la rabbia attaccando i nemici, cosa che può produrre autentici massacri. Però sono lì, pronti a superare ogni restrizione immaginabile: della famiglia e del quartiere, fino agli apparati repressivi e, naturalmente, delle organizzazioni di sinistra. Qui dobbiamo lavorare duro per organizzarli.
Il ruolo dell’ultradestra e il caso di Bolsonaro in Brasile
Dal momento in cui è andato al governo, Bolsonaro ha incontrato una serie di ostacoli che hanno mostrato un’enorme incapacità di governare. Si sono scatenate crisi nel suo stesso partito, tra il presidente e gli alleati, con gli imprenditori e i grandi produttori agricoltori. La vera ultradestra sono le forze armate, in particolare l’esercito, che gioca il ruolo di stabilizzatore del governo.
Credo che il grande problema del Brasile sia la tremenda insicurezza nella vita quotidiana che soffrono le fasce popolari, generalmente povere e nere. Questo le porta a cercar rifugio nelle chiese evangeliche e pentecostali, così come in figure che mostrano un’immagine di “sicurezza”, come Bolsonaro. Quel che dobbiamo chiederci è perché i settori popolari hanno abbandonato il Partito dei Lavoratori (PT) e si sono rivolti all’ultradestra.
La risposta semplicistica è che sono influenzati dai media. Una posizione che difendono gli accademici che si credono immuni dai media e che sottostimano le capacità popolari. La realtà è che la vita di chi vive nelle favelas è tremenda: precarietà nel lavoro, opprimente presenza della polizia militare, crimini e assassinii da parte dello Stato, salute ed educazione di pessima qualità, timore per i figli, che cadono vittime dei proiettili in percentuali allucinanti. Le madri temono per i loro figli e per il loro futuro. È un clima ideale per cadere in mano all’ultra-destra, in particolare tra i giovani maschi che si sentono spodestati dalla legittimazione nei loro rapporti di coppia.
In questo contesto, qual è il ruolo degli Stati Uniti?
La regione sta diventando lo scenario di una disputa per l’egemonia globale tra Stati Uniti e Cina. La penetrazione cinese si sta mostrando perfino peggiore di quella yankee. In Ecuador si costruiscono opere dell’infrastruttura, dighe idroelettriche, ad esempio, con schiavi cinesi che scontano le proprie condanne lavorando in condizioni forzate, con punizioni corporali incluse. Nessuno deve credere che il capitalismo e l’imperialismo cinese siano meno opprimenti e aggressivi di quelli yankee.
Il problema è che gli Stati Uniti hanno bisogno di riposizionarsi in América Latina per compensare la crescente debolezza in Africa, Asia e Medio Oriente. Una delle tendenze che vedremo nel futuro immediato è la distruzione degli Stati-Nazione, un processo che è già cominciato in Messico e nei paesi del Centro America. Da questa parte, dobbiamo aspettarci il peggio.
Fino a dove?
La principale caratteristica di questo periodo che segue il ciclo progressista è l’instabilità. Le destre non possono governare, come dimostrano Cile ed Ecuador. Però neanche i progressismi, come dimostrano Bolivia e Nicaragua. Attenzione, però, il problema non è questo o quel governo (il governo è sempre un problema), bensì il sistema. Queste rivolte non sono contro un presidente ma contro un modello di distruzione della natura e di controllo sociale di massa attuato attraverso le politiche sociali e la militarizzazione, due elementi che si integrano al fine di mantenere la popolazione soggiogata.
La risposta a quel “fino a dove” non può essere altra che l’organizzazione popolare in ogni territorio, per resistere e costruire i mondi nuovi. Mi piace parlare di arche, perché è necessario sopravvivere in modo collettivo al diluvio che viene. Desinformémonos può essere considerato come un’arca dell’inter-informazione de los abajo, come il meccanismo per collegare le nostre condotte, come direbbe Humberto Maturana. Cioè, un’informazione verso l’interno del campo popolare, o verso delle arche collettive, che è imprenscindibile per orientarci in un qualche senso di emancipazione, ma soprattutto per muover-ci in mezzo a una tormenta che non lascia vedere nulla, perché il diluvio è così forte che annebbia la vista.
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Articolo uscito su Desinformemonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
sabato 2 novembre 2019
Cile - Anatomia di una protesta
C'è un episodio che racconta più di altri le proteste in Cile
e le sue cause. È la telefonata intercettata e apparsa sui media in cui
la primera dama Cecilia Morel si sfoga con un'amica per quelle
marce e le violenze, l'ostilità di tante gente che non si spiega, non
capisce. “È come se ci fosse una invasione di alieni”, dice con voce
rotta, e la frase pur nella tragedia degli eventi diventa meme, la
signora irrisa, eletta a simbolo dello scollamento tra chi governa il
Cile e la realtà. Alieni? Gente che scende in strada a protestare contro
il miserabile stipendio minimo di 301milapesos (425 dollari) e una
pensione media che si aggira intorno ai 260 dollari grazie alla legge
sulle Afp, le assicurazioni obbligatorie varate da Pinochet e appena
ritoccate dai governi democratici, che spremono il lavoratore e
arricchiscono le assicurazioni in cambio di pensioni risibili? Quelle
che in tutto il mondo avevamo salutato come un successo, salvo capire
dopo un po' che non funzionavano, che non si vive con quelle cifre?
Eppure, con quel discorso pieno di terrore Cecilia Morel esprime i sentimenti della sua classe, quella distanza siderale che separa in Cile un pugno di ricchissimi che fanno parte del governo o lo controllano e il resto del paese. Lontani nei quartieri raffinati alle pendici delle Ande, sospesi in atmosfere rarefatte e vagamente irreali che fanno somigliare il mondo sotto a un formicaio di miserie umane e di fatica e delinquenza, le élite cilene anziché seguire il passo del Paese lo hanno fermato, mummificati in quell'idea obsoleta di sistema (ricchi e poveri, bianchi e indigeni) contro cui la gente è scesa in piazza. “Non sono mai stato nel Centro”, ammettono con tranquillità molti di loro. “È troppo pericoloso, capitano certe cose”. Il Centro è il cuore della città, quello in cui c'è la Moneda e alcune delle principali università, uffici e palazzi delle istituzioni, non è pericoloso affatto ma è off limits per le famiglie dai cognomi europei e bianche come latte, perché ci sono troppi indigeni e meticci e insomma il popolo e una certa qual piccola borghesia e negozi ordinari e ristoranti a poco prezzo che si contendono i clienti a colpi di offerte su completos e coca-cola. È dalla plaza Italia a cui le proteste di questi giorni hanno dato fama internazionale e che divide in due la città che comincia il Centro: andando verso l'alto si allunga Providencia e la città bene, sempre più chic a mano a mano che si sale; dall'altra parte c'è il Centro, che è più scaciato e popolare mentre avanzi verso la Moneda e dopo che la superi.
Nel Cile privatizzato da Pinochet e appena modificato dei governi
democratici, le differenze di classe sono drammatiche e l'ascensore
sociale ha perso credibilità. Tutto è privato, tutto costa e tanto,
istruzione e salute. Le scuole private sono carissime, quelle pubbliche
offrono una preparazione scarsa che non garantisce il punteggio minimo
necessario per accedere alle università, tutte a pagamento e che si
dividono in due gruppi: quelle sovvenzionate e statali in cui occorre
oltre alla retta anche il punteggio alto e quelle private a scopo di
lucro in cui basta pagare e che assicurano in genere una preparazione
scadente e un titolo che vale poco in cambio di rette per cui le
famiglie si indebitano. Per inciso: il costo di una università parte da
3.500 dollari all'anno, ma per quelle più prestigiose come la
Universidad Católica si arriva a mille dollari al mese.
Anche la salute è privata, curarsi costa molto e le due assicurazioni di Isapre e Fonasa salassano i cileni. La divisione è fisica e architettonica. Nei cosiddetti quartieri alti gli spazi sono dilatati, i giardini immensi, i mall lussuosi e la Univerdidad de los Andes, la più cara e la più esclusiva, appare all'improvviso alla fine della salita di San Carlos de Apoquindo come una cittadina in mezzo al verde in cui si aggirano studenti che sembrano svedesi per quanto sono chiari, un segno di opulenza e classe. I quartieri bene si chiamano Lo Curro, La Dehesa, Lo Barnechea, sono i quartieri alti, il Barrio Alto mentre i cileni bene sono chiamati cuicos: i discendenti ricchi degli europei che arrivarono qui a ondate nel corso dei secoli, i baschi spagnoli ma anche i tedeschi e i francesi, gli inglesi. Cuicos è la parola che ho sentito pronunciare più volte nei miei tre anni cileni. A volte con disprezzo, spesso con invidia. Cuico non si diventa, è un marchio di razza, ma è il sogno di molti meticci avere un giorno il nipotino biondo perché quella tua figlia che massacrandoti con tre lavori sei riuscito a mandare alla Catolica chissà che non sposi un cuico e ti regali quel salto di classe e il nipotino quasi bianco a furia di incroci, con gli occhi azzurri come alla Dehesa. Per inciso, non tutti i bianchi sono cuicos ma un meticcio non può naturalmente essere cuico, e ci sono cuicos di sinistra che però non vivono in quei quartieri così in alto.
Per molto tempo il sogno americano del salto di censo e classe è
stato un drive formidabile che ha motivato i cileni a qualunque
sacrificio, poi a mano a mano si è sgonfiato, e insomma molta gente ha
smesso di crederci. Quelle decine di carte di credito che assicurano
l'accesso alla spesa anche ai più poveri attraverso pagamenti
dilazionati all'infinito si è capito che sono una fregatura, insomma il
sistema ha deluso e mostrato la corda: a furia di comprare la gente si
indebita fino alla morte. “Quante rate?”, mi aveva chiesto la cassiera
di un centro commerciale di Santiago mentre le consegnavo la maglietta
da venti euro, il mio primo acquisto in Cile. Avevo pensato fosse una
battuta, e invece era normale pagare a quel modo, ero io strana con i
miei pesos in mano. Nel suo saggio di culto Cile actual. Anatomia de un mito,
il sociologo comunista Tomás Moulian spiega con arguzia come l'accesso
al credito abbia dato ai cileni un senso di identità, l'essere
“comprante” ha preso il posto dell'essere sociale, con un senso
politico.
Eppure, con quel discorso pieno di terrore Cecilia Morel esprime i sentimenti della sua classe, quella distanza siderale che separa in Cile un pugno di ricchissimi che fanno parte del governo o lo controllano e il resto del paese. Lontani nei quartieri raffinati alle pendici delle Ande, sospesi in atmosfere rarefatte e vagamente irreali che fanno somigliare il mondo sotto a un formicaio di miserie umane e di fatica e delinquenza, le élite cilene anziché seguire il passo del Paese lo hanno fermato, mummificati in quell'idea obsoleta di sistema (ricchi e poveri, bianchi e indigeni) contro cui la gente è scesa in piazza. “Non sono mai stato nel Centro”, ammettono con tranquillità molti di loro. “È troppo pericoloso, capitano certe cose”. Il Centro è il cuore della città, quello in cui c'è la Moneda e alcune delle principali università, uffici e palazzi delle istituzioni, non è pericoloso affatto ma è off limits per le famiglie dai cognomi europei e bianche come latte, perché ci sono troppi indigeni e meticci e insomma il popolo e una certa qual piccola borghesia e negozi ordinari e ristoranti a poco prezzo che si contendono i clienti a colpi di offerte su completos e coca-cola. È dalla plaza Italia a cui le proteste di questi giorni hanno dato fama internazionale e che divide in due la città che comincia il Centro: andando verso l'alto si allunga Providencia e la città bene, sempre più chic a mano a mano che si sale; dall'altra parte c'è il Centro, che è più scaciato e popolare mentre avanzi verso la Moneda e dopo che la superi.
Alameda, @Javier Godoy Fajardo |
Anche la salute è privata, curarsi costa molto e le due assicurazioni di Isapre e Fonasa salassano i cileni. La divisione è fisica e architettonica. Nei cosiddetti quartieri alti gli spazi sono dilatati, i giardini immensi, i mall lussuosi e la Univerdidad de los Andes, la più cara e la più esclusiva, appare all'improvviso alla fine della salita di San Carlos de Apoquindo come una cittadina in mezzo al verde in cui si aggirano studenti che sembrano svedesi per quanto sono chiari, un segno di opulenza e classe. I quartieri bene si chiamano Lo Curro, La Dehesa, Lo Barnechea, sono i quartieri alti, il Barrio Alto mentre i cileni bene sono chiamati cuicos: i discendenti ricchi degli europei che arrivarono qui a ondate nel corso dei secoli, i baschi spagnoli ma anche i tedeschi e i francesi, gli inglesi. Cuicos è la parola che ho sentito pronunciare più volte nei miei tre anni cileni. A volte con disprezzo, spesso con invidia. Cuico non si diventa, è un marchio di razza, ma è il sogno di molti meticci avere un giorno il nipotino biondo perché quella tua figlia che massacrandoti con tre lavori sei riuscito a mandare alla Catolica chissà che non sposi un cuico e ti regali quel salto di classe e il nipotino quasi bianco a furia di incroci, con gli occhi azzurri come alla Dehesa. Per inciso, non tutti i bianchi sono cuicos ma un meticcio non può naturalmente essere cuico, e ci sono cuicos di sinistra che però non vivono in quei quartieri così in alto.
Alameda, @Javier Godoy Fajardo |
sabato 26 ottobre 2019
Cile - L’Ottobre nero del Cile: una protesta che viene da lontano
di Alessandro Guida e Raffaele Nocera*
I media cileni non hanno fatto in tempo a etichettarlo come il «18 de octubre negro» che gli eventi dello scorso venerdì sono stati già superati dallo tsunami dei giorni successivi. Di fronte a una rivolta sociale sicuramente disorganica, almeno in una fase iniziale, ma non per questo meno “rumorosa”, il governo ha in una prima fase tentato di strumentalizzare le circostanze, criminalizzando i manifestanti, ma nel giro di poco tempo ha perso completamente il controllo della situazione e, a conferma di un’estrema debolezza, ne ha delegato la gestione ai militari.
I media cileni non hanno fatto in tempo a etichettarlo come il «18 de octubre negro» che gli eventi dello scorso venerdì sono stati già superati dallo tsunami dei giorni successivi. Di fronte a una rivolta sociale sicuramente disorganica, almeno in una fase iniziale, ma non per questo meno “rumorosa”, il governo ha in una prima fase tentato di strumentalizzare le circostanze, criminalizzando i manifestanti, ma nel giro di poco tempo ha perso completamente il controllo della situazione e, a conferma di un’estrema debolezza, ne ha delegato la gestione ai militari.
Si è così fatto ricorso dapprima alla Ley de Seguridad Interior del Estado,
emanata alla fine degli anni ‘50 e poi riformata in piena dittatura
civico-militare; poi si è dichiarato lo “stato di emergenza” per
disturbi all’ordine pubblico nella capitale e successivamente in altre
zone del paese.
A ciò ha fatto seguito il coprifuoco, misura che, alla
pari delle precedenti, non veniva adottata dai tempi del dittatore
Augusto Pinochet. Infine, in preda al panico, il presidente Sebastián
Piñera ha sospeso il provvedimento che aveva dato il la alle
manifestazioni di dissenso, ossia l’aumento del prezzo del biglietto
della metropolitana, vanto del paese e già tra le più care del
continente (e di tante altre capitali del mondo).
Azioni che, tuttavia,
non hanno fatto altro che provocare un’estensione e una radicalizzazione
della protesta. Le dichiarazioni del leader del centrodestra relative
alla presenza di un vero e proprio stato di guerra interna – che hanno
richiamato alla memoria quel passato dittatoriale in cui la necessità di
combattere il “nemico interno” venne addotta a giustificazione delle
più atroci violazioni dei diritti umani che il Cile abbia mai conosciuto
– hanno chiuso il cerchio, rappresentando l’ultimo atto di una
settimana piena di disastrosi errori politici alla Moneda.
In molti, fra gli osservatori, anche in Italia, si sono detti sorpresi da questa “improvvisa” esplosione sociale e dalla successiva reazione dello Stato, autoritaria e antidemocratica, che ha riportato i militari nelle strade del paese dopo oltre trent’anni, causando un numero imprecisato di morti (che le autorità stimano in 18 ma che secondo fonti indipendenti sarebbero più del doppio), centinaia di feriti e migliaia di arresti in pochi giorni. Per non parlare dei saccheggi e delle devastazioni delle stazioni della metropolitana e di edifici pubblici e privati.
Com’è possibile, si è affermato, che in quello che, da qualche
decennio a questa parte, viene presentato come l’esempio stesso di
transizione democratica perfettamente riuscita, possano accadere cose di
questo tipo? Del resto si tratta di un paese modello, stabile
politicamente e fra i più avanzati economicamente dell’America Latina,
si è detto e scritto.
E, se realmente è così che stanno le cose, da dove
viene questa “inattesa” esplosione di rabbia collettiva? Si tratta,
forse, del prodotto di qualche trama “sovversiva” internazionale, o
della destabilizzazione ordita dai “claudicanti” (e non numerosi)
governi della “sinistra radicale” latinoamericana, nei palazzi del
potere all’Avana o a Caracas, con la connivenza di frange estreme
locali?
In realtà, se si guarda agli ultimi decenni di storia cilena e, in modo particolare, al modo in cui si è prodotto il lento, graduale e incompiuto (ebbene sì, incompiuto) processo di transizione dai 17 anni di feroce dittatura pinochetista alla democrazia, il quadro assume contorni ben diversi e gli accadimenti odierni ci appaiono, non soltanto meno sorprendenti, ma addirittura per certi versi prevedibili. La visione “positiva” della transizione cilena che si è affermata nel corso degli anni è stata favorita, infatti, soprattutto da fattori di carattere macroeconomico.
I risultati a lungo termine di quella che
alcuni autori hanno definito la «rivoluzione capitalista del Cile»,
iniziata dalla dittatura a metà degli anni Settanta con la «politica di
shock» avviata dal regime su impulso dei Chicago boys, sono stati,
invero, indiscutibili: smantellamento del settore pubblico,
privatizzazioni, razionalizzazione industriale con conseguente mobilità
della forza lavoro, sostegno agli investimenti, svalutazione del peso
rispetto al dollaro per favorire le esportazioni, controllo da parte
della Banca centrale dei tassi d’interesse e così via, avevano permesso
al regime autoritario cileno di consegnare alle forze democratiche un
paese con i conti sostanzialmente in regola.
Non a caso, fra il 1990 e
il 2009, il Prodotto Interno Lordo cileno crebbe mediamente ad un ritmo
del 5%, i salari reali lievitarono a loro volta in maniera vigorosa,
così come aumentò vertiginosamente il volume delle esportazioni
(addirittura del 102% solo fra il 1990 ed il 1997). In breve, il Cile
venne presentato come la manifestazione concreta della possibilità di
coniugare, e con successo, democrazia e libero mercato.
Non è un caso
se, nel corso degli anni Novanta, si giunse a parlare di «modello cileno
di sviluppo», del Cile come un esempio, come un possibile riferimento
per i paesi della regione e anche per le nazioni appartenenti ad altre
“periferie” del pianeta .
A questa sostenuta crescita economica, senza
precedenti nella storia nazionale, che avrebbe portato alla definizione
del paese in questione in termini di «giaguaro dell’America Latina»,
corrispose, peraltro, in quegli anni, un notevole attivismo sul piano
internazionale, finalizzato a rompere l’isolamento politico ed economico
in cui era stato confinato il vecchio regime per i crimini commessi e a
proiettare all’esterno una nuova immagine del paese.
Basti ricordare
che, già alla metà degli anni Novanta, il Cile entrò a far parte
dell’Asia-pacific economic cooperation, per poi aderire, poco dopo, all'Organizzazione mondiale del commercio; praticamente nello stesso
periodo iniziò a partecipare attivamente ai lavori delle Nazioni Unite.
Nondimeno, il Cile è stato il secondo paese latinoamericano, dopo il
Messico (ma il primo dell’America meridionale) a firmare un Accordo di
Associazione Economica con l’Unione Europea (entrato in vigore nel
2003), nonché la prima nazione occidentale a siglare un trattato di
libero commercio con la Cina (2005), con accordi analoghi anche con
Canada, Messico, Stati Uniti, Corea del Sud.
In realtà, ad analisi un po’ più attente e, se vogliamo, “disinteressate”, sono emerse tutte le profonde contraddizioni di questa transición pactada, e, più in generale, dell’evoluzione del processo politico ed economico cileno post-dittatoriale.
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ALLERTA ROSSA E CHIUSURA CARACOLES
BOICOTTA TURCHIA
Viva EZLN
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
La lucha sigue!