Nuova strage a Kobane. Contraria a ogni norma di diritto internazionale
di: Stefania Battistini e Ivan Grozny
Da Kobane in queste ore arrivano video molto simili a quando la città siriana in mano ai curdi veniva attaccata da Isis. Questa volta però le bombe sono sganciate dalla Turchia, il secondo esercito della Nato. Dopo Afrin, Erdogan viola ancora una volta il diritto internazionale e bombarda i villaggi abitati dai civili. L’obiettivo è colpire l’esercito curdo YPG e YPJ, il primo che ha resistito, combattuto e vinto contro Daesh, sostenuto dalla coalizione internazionale.
Nei video postati dagli abitanti si vede il terreno saltare, si sentono le urla delle persone. Le stesse persone che da tre anni stanno pazientemente ricostruendo tutto ciò che lo Stato islamico aveva distrutto. Con Ivan Compasso Grozny, a giugno, siamo stati a Kobane. A 4 anni dalla devastazione di Isis abbiamo visto la rinascita di una città e della sua gente, dopo il sangue versato. Abbiamo visto muratori ricostruire case e quartieri. Abbiamo visto nuovi ospedali e nuove scuole nate anche grazie ai soldi raccolti dalle fondazione delle donne del Rojava in Germania, Austria, Svizzera, Olanda. Coi finanziamenti della provincia Trento è stato rifatta una scuola per i bimbi rimasti orfani perché Daesh ha ucciso i loro genitori: si chiama l’Arcobaleno di Aylan, il piccolo curdo trovato sulle rive del Bosforo in Turchia, simbolo del dramma dei popoli che sfuggono dalle guerre.
Abbiamo visto le strade tornare a vivere. Fino a mezzanotte donne, uomini, bambini insieme per respirare la libertà ritrovata.
Abbiamo visto il Cimitero dei martiri di Kobane: più di mille combattenti hanno dato la vita per liberare il mondo dal terrorismo di matrice islamista.
Abbiamo visto cosa è diventato concretamente il confederalismo democratico alla base l’organizzazione delle città del Rojava ispirato alle teorie socialiste del filosofo statunitense Murray Bookchin: una democrazia senza Stato, flessibile, multiculturale, anti-monopolistica; laicità, femminismo, ecologismo come pilastri. Abbiamo visto che non sono solo tensioni ideali, ma fatti concreti: la parità di genere e la laicità nel bel mezzo dell’estremismo religioso islamista, l’introduzione del matrimonio civile e l’abolizione della poligamia. Le donne hanno ruoli politici e militari, fanno parte delle forze di sicurezza e gestiscono l’organismo di polizia contro la violenza sessuale.
Abbiamo visto gli sforzi per arrivare a una convivenza pacifica a Mumbij, città multietnica in mano a Isis e liberata ad agosto 2016 dalle truppe del Free Syrian Army (FSA) appoggiate dagli americani. Un anno dopo libere elezioni in cui si è scelto di rappresentare tutte le identità: turcomanni, arabi, circassi, curdi. Quattro etnie, quattro identità, ognuna disegnata sulla bandiera, tutte presenti nell’Assemblea popolare votata dai cittadini. Per la prima volta il modello del confederalismo democratico è a partecipazione araba ed esce dal confine curdo.
Abbiamo visto l’istruzione tornare secolare, cioè laica, le scuole islamiche abolite nei territori riconquistati.
Ora la Turchia sta distruggendo tutto questo. Dopo il vertice di Istanbul tra Germania, Francia, Turchia e Russia, sono iniziati gli attacchi. “La Turchia ha bombardato le aree di confine di Kobane e del Rojava per quattro giorni davanti agli occhi di tutto il mondo – scrive UIKI, l’Ufficio Informazione Kurdistan in Italia – Né la coalizione internazionale contro ISIS né gli Stati che hanno partecipato al vertice di Istanbul hanno preso seriamente posizione contro questi attacchi o hanno condannato lo stato turco”, sottolineando il paradosso di attacchi contemporanei: quelli turchi nel Nord della Siria, quelli di ISIS contro il villaggio di Hejin nell’area di Dêir Er-Zor, uno dei suoi ultimi bastioni. Qui le forze democratiche siriane – con YPG e YPJ come elemento aggregante – continuano a combattere.
Per questo oggi dal Rojava arriva una chiamata d’emergenza all’Europa e all’Occidente. La copresidenza del KCDK-E ha emesso un comunicato in cui si legge: “Il Congresso europeo della Società democratica curda (KCDK-E) fa appello per un’azione urgente ai curdi e ai suoi sostenitori in Europa in seguito agli attacchi dello stato turco contro Kobane. L’esercito turco ha bombardato con armi pesanti i villaggi di Kor Eli e Selim e stanno progettando un massacro. Chiediamo a tutti di organizzare al più presto mobilitazioni a difesa e a sostegno di queste terre che sono costate il sangue di donne, giovani, bambini […]”
Noi come giornalisti abbiamo il dovere di non far passare sotto silenzio questa ennesima strage contraria a ogni norma di diritto internazionale
Sulla guerra in Siria e sulla situazione irachena si allungano le ombre dei nuovi scenari geopolitici post insediamento di Trump, che non ha mai nascosto la sua amicizia ed identità di vedute con Putin oltre al sostegno aperto ad Israele, mentre Erdogan continua la sua politica di aggressione fronteggiandosi indirettamente con Iran e Arabia Saudita per l’egemonia regionale. Ma cosa sta succedendo alle popolazioni civili siriane ed irachene strangolate dai vari fronti di guerra? Ce lo racconta Un Ponte Per ..., l’organizzazione italiana impegnata nel sostegno alle popolazioni civili in questa area devastata del nostro pianeta.
Al Hol, il paradossale corridoio umanitario che dall’Iraq porta in Siria
Al Hol è un villaggio sperduto in un’area semideserta della Siria, a pochi passi dalla frontiera con l’Iraq. Negli ultimi mesi qui sono fuggiti migliaia di iracheni a seguito della battaglia di Mosul. Una delle possibili vie di fuga dalla città infatti porta solo verso la Siria.
Al Hol è un luogo tristemente noto perché qui sono rimasti bloccati per anni i palestinesi fuggiti dall’Iraq dopo il 2003 e che nessuno voleva accogliere. Per anni hanno atteso un paese ospitale. Il campo ha anche ospitato le centinaia di migliaia di iracheni che tra il 2006 e il 2008 sono fuggiti verso la Siria per non soccombere nella guerra civile che dilaniò il paese.
Poi il campo si è svuotato, e dopo il 2011 è diventato luogo di battaglie tra Daesh (Stato Islamico), le altre forze estremiste e i combattenti curdi. Oggi il campo è tornato a servire i rifugiati, invece di essere chiuso o di diventare un museo per la memoria. Con tutto il dolore che portano le sue mura e le sue strutture cadenti è stato riattivato per ospitare, a oggi, più di 15mila iracheni. In prevalenza minori, 2.500 a dicembre, 500 neonati. E donne.
Una popolazione in fuga dal Daesh, dopo averne subito l’occupazione per due anni. Il paradosso è che non possono fuggire in altre aree dell’Iraq, la strada più semplice è quella verso la Siria. L’amministrazione autonoma del nord-est siriano, l’area a maggioranza curda del paese chiamata Rojava, sta facendo uno sforzo eccezionale per accoglierli.
Le autorità locali stanno già ospitando centinaia di migliaia di sfollati interni siriani. E stanno assistendo le persone in fuga da Raqqa, in Siria. Non hanno né i soldi né la possibilità concreta di gestire un flusso di rifugiati da un altro paese. E invece ci danno una grande lezione di dignità e solidarietà. Il campo è stato riattivato, con il sostegno dell’Unchr.
Un ponte per... e la Mezzaluna Rossa Curda hanno costruito un centro di salute di base da campo che sta accogliendo ogni giorno centinaia di persone. Un’ambulanza delle due organizzazioni ogni giorno raggiunge il valico di frontiera tra Iraq e Siria di Rajm Sleby e da lì porta in ospedale o al campo i casi più difficili.
Ma al valico i controlli sono attentissimi. Il pericolo di infiltrazione di Daesh è alto. Spesso sono necessarie lunghe negoziazioni per portare in salvo le persone. Molte arrivano in condizioni disperate. Sono più di 100 i disabili arrivati negli ultimi mesi. E tra i bambini sono evidenti i molti casi di malnutrizione. Mancano molti generi di prima necessità e le sole cure mediche senza una adeguata infrastruttura di assistenza sono una risposta troppo limitata.
Gli operatori al campo di Al Hol e l’ambulanza in frontiera fanno i salti mortali per evitare il peggio a molte persone. Quando il servizio non c’era, a ottobre, su quella stessa frontiera sono morti due bambini. Casi del genere non si sono più verificati, ma siamo ancora lontani da un minimo di normalità. Nel campo le latrine sono in costruzione, l’acqua scarseggia in tutta la zona, cumuli di immondizia costellano le strade di polvere.
Donne e bambini si affollano nella sala d’attesa del nostro centro sanitario perché è uno dei pochi luoghi protetti, anche quando non hanno bisogno di una visita. Per le emergenze le ambulanze della Mezzaluna Rossa Curda corrono all’ospedale di Hassake, distante 50 chilometri, ma anche lì la situazione è drammatica. Dalla Siria sono fuggiti migliaia di medici, e i pochi ospedali rimasti aperti sono al collasso.
Quando nel 2011 è iniziata la rivoluzione, sapevamo
che il conflitto si sarebbe trasformato in una guerra tra sciiti e
sunniti. Noi invece abbiamo scelto una terza via, quella della
convivenza”, racconta Haval Jalil co-presidente di
TEV-DEM, “la nostra è una rivoluzione culturale che passa innanzitutto
per il rafforzamento delle comunità”. Siamo a Qamishlo, la capitale del cantone di Jazeera, una cittadina di duecentomila abitanti al confine con la Turchia.
Azza Soliman, fondatrice del Centro di assistenza legale alle donne egiziane, è stata arrestata questa mattina al Cairo in quello che per Amnesty International è il segnale di una ancora più marcata repressione nei confronti degli attivisti per i diritti umani.
“L’arresto di Azza Soliman è l’ultimo raggelante esempio della sistematica persecuzione in atto ai danni dei difensori dei diritti umani. Riteniamo che sia stata arrestata a causa delle sue del tutto legittime attività in favore dei diritti umani e che debba essere rilasciata immediatamente e senza alcuna condizione. Le intimidazioni e le persecuzioni contro gli attivisti per i diritti umani devono cessare” – ha dichiarato Najia Bounaim, vicedirettrice per le campagne presso l’Ufficio regionale di Amnesty International di Tunisi.
Tre settimane fa, le autorità avevano congelato i conti bancari di Azza Soliman e della sua organizzazione, senza alcuna decisione giudiziaria, e il 19 novembre le avevano impedito di recarsi in Giordania per prendere parte a un seminario di formazione sui diritti delle donne nell’Islam.
Il mandato d’arresto di Azza Soliman è stato firmato da uno dei giudici incaricati delle indagini sulle organizzazioni non governative (Ong) egiziane, conosciuto come il caso 173/2011. Il giudice deciderà se ordinare il suo arresto o il rilascio su cauzione.
“Azza Soliman, insieme ad altri difensori dei diritti umani, è già sottoposta a un divieto di espatrio e al blocco dei conti bancari. Il suo arresto segna un’escalation nell’uso di tutta una serie di tattiche repressive che hanno lo scopo di intimidire e ridurre al silenzio lei e altre voci critiche” – ha commentato Bounaim.
“Il rischio è che al suo arresto seguano analoghi provvedimenti nei confronti di altri difensori dei diritti umani coinvolti in quell’inchiesta” – ha aggiunto Bounaim.
Nel giugno 2014, 43 operatori stranieri ed egiziani di Ong erano stati condannati a pene da uno a cinque anni. Erano state chiuse anche alcune Ong, tra cui Freedom House e il Centro internazionale per i giornalisti.
Lo scorso anno, la magistratura egiziana ha intensificato le pressioni sui gruppi per i diritti umani, attraverso divieti di espatrio e il congelamento dei patrimoni bancari, per reprimere la libertà di espressione, di associazione e di manifestazione, con l’obiettivo finale di smantellare il movimento per i diritti umani in Egitto e stroncare anche il più timido segno di dissenso.
Il presidente al-Sisi potrebbe presto firmare una nuova, durissima legge sulle associazioni che conferirebbe al governo e alle forze di sicurezza poteri straordinari sulle Ong.
Azza Soliman ha fatto parte di un gruppo di 17 persone arrestate per aver testimoniato sull’omicidio di Shaimaa al-Sabbagh, un’attivista uccisa al Cairo nel gennaio 2015 durante una manifestazione pacifica. Accusata di manifestazione non autorizzata e disturbo all’ordine pubblico, Azza Soliman era stata assolta a maggio e, dopo il ricorso della pubblica accusa, nuovamente a ottobre.
Per i bambini nella zona est di Aleppo – siano sani o malati – la situazione è ogni giorno più critica. Cibo, acqua potabile e cure mediche stanno diventando sempre più scarsi, mentre il personale medico fa di tutto per affrontare il gran numero di feriti.
Almeno 136 bambini sono stati uccisi e altri 468 sono stati feriti da attacchi aerei dal 22 settembre a inizio novembre. Gli ospedali dove vengono trattati sono disperatamente sovraffollati e a corto di personale, forniture mediche e letti di terapia intensiva.
“I nostri ambulatori sono sopraffatti”, dice l’infermiere del pronto soccorso Abu Al Motassem. “Riceviamo tra i 120 e i 150 bambini ogni giorno. Abbiamo ricevuto un bambino che aveva bisogno di essere ammesso al reparto di terapia intensiva, ma siamo stati costretti a tenerlo nel reparto. Non ce l’ha fatta e purtroppo è morto”.
Dei sette ospedali ancora in funzione ad Aleppo Est, solo uno è specializzato nel trattamento dei bambini. Ci sono quattro pediatri – due medici qualificati e due studenti di medicina dell’ultimo anno – nella zona assediata, ma nessun chirurgo pediatrico.
La carenza di personale medico ha già avuto conseguenze fatali, secondo Al Motassem. “Abbiamo avuto un bambino che aveva bisogno di un intervento chirurgico per un diverticolo esofageo, ma non siamo riusciti a trovare un medico disponibile in tutta Aleppo Est. Qualunque chirurgo pediatrico avrebbe potuto farlo, perché è un’operazione facile. Ma non c’era un chirurgo disponibile, e il bambino è morto.”
Circa 1.500 bambini attualmente ricoverati hanno bisogno di cure mediche specialistiche che non sono disponibili nella zona assediata della città, ma con tutte le strade fuori città impraticabili, non è possibili trasferirli. Tra loro ci sono bambini con il cancro, anomalie congenite e danni cerebrali, e altri che necessitano di specifiche cure d’emergenza.
Molti genitori hanno paura di spostarsi in città quando i bombardamenti o i combattimenti a terra sono in corso, quindi aspettano a casa con i bambini malati fino a quando uscire diventa meno rischioso. “Aspettano che gli aerei militari vadano via, e quando raggiungono gli ospedali, i bambini sono in condizioni di gran lunga peggiori”, spiega Riyad Najjar, direttore amministrativo dell’unico ospedale per bambini nella zona assediata.
“A volte devono aspettare tutta la notte e, quando arrivano, è troppo tardi o sono già intervenuti danni gravi per i bambini”, dice Aya, infermiera neonatale che preferisce non dire il suo cognome.
I bombardamenti da parte delle forze siriane e russe hanno danneggiato gravemente uno degli ospedali colpiti e ferito almeno due medici.
Distrutta anche un’ambulanza, il cui autista è rimasto ucciso.
Il sistema sanitario già devastato nell’area assediata di Aleppo Est ha vissuto ieri una giornata ancora peggiore, con attacchi confermati contro quattro ospedali e un’ambulanza, che hanno ferito almeno due medici e ucciso l’autista del veicolo. Lo rende noto Medici Senza Frontiere (MSF). È stato il peggior danno alle strutture sanitarie provocato dagli attacchi aerei siriani e russi dopo l’interruzione del cessate il fuoco a fine settembre.
Quest’ultimo episodio di distruzione avviene nell’ambito di un’intensificazione della campagna di bombardamenti contro la città assediata, che ha visto almeno 62 persone uccise e 467 ferite, tra cui 98 bambini, solo tra l’11 e il 13 ottobre, secondo rapporti ottenuti dalla Direzione della Sanità e dal centro forense di Aleppo Est. Questi dati possono essere sottostimati perché molte famiglie stanno seppellendo i propri cari per proprio conto, invece di portare i loro corpi negli ospedali.
“La campagna di bombardamenti indiscriminati ha preso una chiara svolta verso il peggio” dichiara Carlos Francisco, capo missione di MSF per la Siria.“Uno degli ospedali colpiti ieri è stato gravemente danneggiato. Era un centro traumatologico importante che era stato già colpito tre volte nelle ultime settimane. Il ritmo degli attacchi sta soffocando la scarsa capacità di cure che il sistema sanitario è ancora in grado di offrire, in una città che sta rapidamente collassando, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Danneggiando i pochi luoghi rimasti dove si possono salvare delle vite, è chiaro che la Siria e la Russia stanno spremendo la vita fuori da Aleppo Est.”
MSF: Anche raggiungere gli ospedali ad Aleppo Est è diventato un rischio
Solo 11 ambulanze per 250.000 persone. Almeno 5 colpite dalle bombe nell’ultimo mese
I pochi ospedali rimasti ad Aleppo Est, già sovraffollati da numerosi feriti, stanno affrontando un’ulteriore sfida, quella di raccogliere le persone ferite durante i bombardamenti aerei. Medici Senza Frontiere (MSF) denuncia che nella città sotto assedio sono rimaste solo 11 ambulanze funzionanti, mentre otto sono fuori uso e hanno bisogno di riparazioni essenziali.
“Non solo gli ospedali sono stati colpiti almeno 23 volte dall’inizio dell’assedio a luglio. Anche le ambulanze che trasportano i feriti vengono colpite. E proprio ieri un’altra clinica di Aleppo Est supportata da MSF è stata danneggiata da un bombardamento” ha detto Carlos Francisco capo missione di MSF in Siria.“Questo ci ricorda come le regole della guerra in Siria vengano continuamente violate”.
Tra il 23 settembre e l’8 ottobre gli ospedali di Aleppo Est hanno ricevuto almeno 1.384 feriti, in media 86 al giorno secondo la Direzione della Sanità. Ma raggiungere i feriti sta diventando sempre più difficile con solo 11 ambulanze funzionanti per 250.000 persone. Nel mese scorso cinque ambulanze sono state direttamente colpite dalle bombe, due delle quali sono state completamente distrutte. Gli autisti e gli operatori di primo soccorso sono stati feriti, due in modo grave, secondo quanto riporta il sistema delle ambulanze di Aleppo Est gestito dalla Direzione della Sanità.
Le organizzazioni mediche ad Aleppo riferiscono che gli attacchi doppi (cosiddetti “double-tap”) accadono regolarmente. “Appena le équipe di soccorso raggiungono l’area colpita, gli aerei da combattimento attaccano lo stesso luogo per la seconda volta, provocando un numero ancora più alto di morti e feriti e ancora più ambulanze danneggiate” ha detto Ahmad Sweid, responsabile del sistema delle ambulanze. “Stiamo perdendo personale qualificato e mezzi. E al tempo stesso l’assedio ci impedisce di portare i pezzi di ricambio per le nostre ambulanze”.
Poiché i bombardamenti continuano intensamente, le condizioni delle strade si stanno rapidamente deteriorando, costringendo gli autisti a continue deviazioni.
“Una volta stavamo cercando di soccorrere le persone da un edificio attaccato, quando siamo stati colpiti da un secondo attacco” ha detto Hasan Al Humsi, conducente di un’ambulanza rimasto lievemente ferito nell’attacco. “Fortunatamente ne siamo usciti illesi. Il nostro desiderio di continuare il nostro lavoro è ciò che ci permette di salvare donne e bambini”.
“Il mondo intero sta assistendo alla sofferenza di Aleppo Est, dove la popolazione è intrappolata in una sanguinosa guerra senza alcuna possibilità di fuga” ha detto Pablo Marco, direttore delle operazioni di MSF per il Medio Oriente.“Siria e Russia devono interrompere i bombardamenti indiscriminati sulla città. Tutte le parti in conflitto devono facilitare e permettere l’evacuazione di feriti e malati gravi”.
Il sistema delle ambulanze, gestito dalla Direzione della Sanità di Aleppo Est, è composto da un team di 35 autisti e operatori di primo soccorso. C’è poi una serie di servizi minori per il trasporto d’urgenza dei feriti, gestita dai volontari e dalle ONG.
MSF supporta otto ospedali ad Aleppo Est. Gestisce sei strutture mediche in tutto il nord della Siria e supporta più di 150 centri di salute e ospedali in tutto il paese, molti dei quali nelle zone assediate.
Lo hanno soprannominato il “Lucarelli dell’Amedspor”. Si chiama Deniz Naki, di origine curda, nato in una famiglia operaia immigrata in Germania da Dersim. Nella sua carriera di calciatore ha indossato le casacche del Bayer Leverkusen, del Rot Weiss Ahlen, del St.Pauli e del Gençlerbirliği, squadra di Ankara, prima di approdare nella serie B turca, nell’Amedspor per l’appunto.
Il nome di Che Guevara tatuato sulla mano destra e le scritta “Dersim 62” e “Azadi”, che in curdo significa “Libertà”, sugli avambracci. A gennaio si è beccato una squalifica di ben dodici giornate a causa di un post su facebook pubblicato a seguito della vittoria della sua squadra, ottenuta anche grazie ad una rete dello stesso Deniz Naki, contro il Bursaspor per 2 a 1. Unitamente a questa squalifica, gli è stata anche inflitta una multa di 19.500 lire turche, che equivalgono a circa 6000 euro, con l’accusa di “discriminazione e propaganda ideologica”. Il post incriminato recitava testualmente: “Oggi abbiamo ottenuto una vittoria davvero importante. Siamo usciti a testa alta dal gioco violento dei nostri avversari. Siamo felici e orgogliosi di essere un piccolo spiraglio di luce per il nostro popolo, in un periodo così difficile. Come Amedspor non abbiamo abbassato la testa né l’abbasseremo. Siamo entrati in campo con la fiducia nella libertà, e abbiamo vinto. Perché noi abbiamo seminato i nostri germogli nella libertà e nella speranza. Riteniamo doveroso ringraziare tutti i nostri politici, artisti, intellettuali e la nostra gente che ci ha sostenuti, e dedichiamo la vittoria a coloro che hanno perso la vita o sono stati feriti durante la persecuzione che continua da più di cinquanta giorni nelle nostre terre. Viva la libertà“.
La Marina dello Stato ebraico ha intercettato e costretto a
dirigersi verso il porto di Ashdod l’imbarcazione partita da Barcellona
con 13 donne a bordo, tra le quali la premio Nobel Mairead Maguire. La
Freedom Flotilla: un atto di pirateria internazionale. di Michele Giorgio Per Mairead Maguire, irlandese e premio Nobel per la pace, la
condizione dei due milioni di palestinesi di Gaza resta una priorità.
«Si usa dire che il silenzio è d’oro» aveva fatto notare ai presenti
imbarcandosi il mese scorso a Barcellona sulla Zaytouna-Oliva, la nave
delle 13 donne decise ad infrangere il blocco marittimo di Gaza attuato
da Israele. Ma, aveva aggiunto Maguire, «il silenzio del mondo
per quanto riguarda la situazione dei palestinesi residenti nella
Striscia di Gaza, e in particolare per quanto riguarda i loro bambini, è
sintomo di una preoccupante carenza di princìpi morali ed etici da parte della comunità internazionale. Dobbiamo chiederci perché questo silenzio è durato così a lungo». Ieri pomeriggio la Zaytouna-Oliva con a bordo la
premio Nobel e le sue 12 compagne di questa missione della Freedom
Flotilla (FF) a sostegno della popolazione di Gaza sotto embargo, è
stata intercettata e bloccata con la forza dalla Marina israeliana in
acque internazionali, a 35 miglia nautiche dalla Striscia. I militari
hanno preso il controllo dell’imbarcazione e si sono diretti verso il
porto di Ashdod. In serata i media israeliani parlavano di
«operazione tranquilla», senza conseguenze per le persone. E invece era
forte la preoccupazione fra attivisti e simpatizzanti della FF per la
sorte delle donne a bordo. È vivo il ricordo dell’assalto israeliano di
sei anni fa al traghetto Mavi Marmara, diretto a Gaza con aiuti
umanitari, costato la vita a dieci passeggeri.
Continua la nostra ricerca per offrire spunti di riflessione sul rapporto tra potere, religioni, islam e donne. Il nostro lavoro nasce dal desiderio di comprendere il presente fuori da schematismi, facili analisi/scorciatoie, luoghi comuni, approfondendo temi e situazioni che seppure appaiono lontano, ci riguardano direttamente.
Nel primo articolo abbiamo incentrato la nostra attenzione su testi che raccontavano storie di attivismo, di scelta, di chi combatte sul piano personale e collettivo contro gli integralismo e l'autoritarismo, facce gemelle che cercano di strangolare vite e territori. Questa volta vi proponiamo una selezione di libri che spaziano dalla Siria all'Egitto, alla Tunisia e alla riflessione sulle religioni monoteiste. Cosa lega questi testi? Per noi, la sempre più profonda convinzione che quello che sta succedendo in questo pezzo di mondo, difficile anche da definire in una sola parola, che va dal Marocco all’Iran, visto attraverso storie di donne e non solo, ci permette di squarciare il velo sulle declinazioni di un potere che intreccia autoritarismo ed islam politico. La perversa e pervasiva concezione che porta la religione da fatto privato a base della società nei suoi aspetti sociali ed anche istituzionali. Quello che ci spinge è la convinzione che la laicità profonda sia un valore fondamentale, che ha portato a molte delle conquiste, ancora da difendere ed allargare, che le donne hanno conquistato nel nostro pezzo di mondo. Come dicono le indigene zapatiste, dall’altro lato dell’Oceano nello stato del Chiapas in Messico, " quando una mujer avanza, no hay hombre que retroceda" (quando una donna avanza non c’è uomo che retroceda) o le donne curde, in Rojava "se non possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra." Lo strangolante nesso che unisce patriarcato, sistema capitalista, religioni (al plurale) vuol essere alla base della nostra ricerca, partendo da testi che non si presentano come analisi compiute ma come racconti, squarci, riflessioni che come in un enorme puzzle ci possono aiutare a comprendere e a rafforzare la scelta di appoggiare e sostenere chi lotta per la propria libertà collettiva e personale, chi ha il coraggio di affrontare una realtà durissima per provare a cambiarla.
Siria. Elogio dell’odio di Khalifa Khaled. L’autore, da poco passato in Italia per un ciclo di conferenze, ha sempre condannato senza sconti la repressione del regime nel suo paese. Attraverso la storia dei protagonisti del suo racconto affronta le profonde radici della recente storia siriana. Damasco di Suad Amiry. L’autrice, dopo i suoi imperdibili lavori sulla Palestina, affronta attraverso i ricordi familiari, l’intero secolo, passando tra gli infiniti legami dei paesi arabi per raccontarci squarci di Siria fatti di vite vissute.
Tunisia. Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza. Un racconto sul paese prima della rivoluzione del 2011 e che serve a capire cosa ancor oggi stanno combattendo le donne, i giovani attivisti, le reti sociali nella Tunisia profondamente in bilico tra una possibilità di cambiamento ed un mantenimento profondo dello status quo.
Egitto. Cairo calling di Claudia Galal Uno sguardo a mezzo tra Italia ed Egitto sulla scena underground prima, durante e dopo Piazza Tahir, che serve per capire qual’è la situazione nel paese dei faraoni, dove è stato ucciso Giulio Regeni.
Iran. Finché non saremo liberi. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin L’appassionato racconto della scrittrice, vincitrice del Premio Nobel, ci porta al cuore del regime iraniano, ora sdoganato nelle infinite capriole della politica internazionale e regionale del Medi oriente.
… e per fine Dio odia le donne di Giuliana Sgrena che offre spunti di riflessione sulle affinità e peculiarità dell’oppressione femminile ad opera delle tre religioni monoteiste.
Buona lettura.
Elogio dell’odio di Khalifa Khaled, edizione Bompiani, anno di pubblicazione 2011
La storia, che si dipana tra le mura della casa tradizionale nei vicoli del cuore di Aleppo, dove vive la famiglia allargata della protagonista, ci porta dalla Siria del passato, impossibile da far tornare, alla repressione del regime negli anni ottanta, fino alle sue drammatiche conseguenze. Un affresco, con tratti poetici, che, nella semplice complessità di ognuno dei personaggi, ci fa capire le radici della devastante situazione di guerra civile attuale.
Recensioni È un volume indispensabile ... tanto più pensando a quanto è accaduto e sta accadendo in questi mesi in Siria, con le repressioni del regime di Bashar Al Assad contro le manifestazioni di dissenso verso il regime di Damasco e migliaia di profughi siriani scappati in Turchia nelle ultime settimane. Il libro racconta altre proteste e altre repressioni nel sangue, quelle di Hafez Al Assad contro i dissidenti – musulmani ma anche comunisti – nella Siria degli anni ’80, quando il padre dell’attuale presidente aveva inviato i militari ad Hama, terza città siriana, e fatto uccidere migliaia di contestatori. Lo splendido e complesso romanzo di Khalifa, non ingiustamente definito nella quarta di copertina una sorta di Cent’anni di solitudine del mondo arabo, parte dalle vicissitudini di una famiglia di Aleppo per raccontare la storia di un intero Paese. La protagonista e voce narrante, una giovanissima ragazza ribelle alla cultura chiusa e tradizionalista della sua famiglia di venditori di tappeti antichi, incarna insieme i dubbi e le angosce di una giovane donna araba e lo spirito dei dissidenti del tempo, spesso donne, che per sfuggire alla morsa del regime si rifugiarono spesso in opposti estremismi come il fondamentalismo islamico. L’Aleppo di Khalifa è una città di spie e delatori, una città impensabilmente grigia di soldati e dissidenti, stretta nella morsa del regime e nell'odio delle opposte fazioni che si combattono quotidianamente in un crescendo di tensione. Al centro dei vicoli deserti di quella città sconosciuta, la vecchia casa di famiglia della protagonista, cresciuta con le vecchie zie e l’anziano servitore cieco, tra vecchie storie, armadi chiusi, boccette di profumi sconosciuti e farfalle appese ai muri, incapace di tutto fuorché di un odio crescente verso l’altro. Odio che sembra diventare una vera religione e l’unica cosa a poter dare senso alla vita. È l’odio ad accompagnare costantemente la giovane protagonista, portandola a rinchiudersi sempre più in se stessa, rifugiandosi nel fondamentalismo islamico quasi per sfuggire la solitudine, costringendosi dietro alla prigione del velo. E arrivando poi alla prigione vera, quella durissima del regime di Assad, dove viene rinchiusa per otto anni, interrogata, torturata con altre donne per le sue attività di dissidente. Ne uscirà giovane eppure ormai sfiorita, solo per rendersi conto, troppo tardi e ancora una volta, dell’inutilità dell’odio e della banalità del male. Tratto da www.ilrecensore.com
Khaled Khalifa Nato ad Aleppo nel 1964, ha frequentato la facoltà di legge e, dopo la laurea, si è dedicato alla letteratura, lavorando come sceneggiatore per il cinema e la televisione, per poi fondare la rivista culturale “Aleph”, in seguito censurata dal governo siriano. “Elogio dell’odio”, censurato dal governo siriano è nominato nel 2008 per il Premio internazionale del Romanzo Arabo. Khaled, a cui nel 2012 è stata spezzata la mano dal regime, oggi continua a vivere in Siria. Nel 2012 invia una lunga lettera agli scrittori del mondo per denunciare la situazione complice a livello internazionale. Nelle interviste non smette di ricordare la solitudine in cui sono state lasciate le persone che lottano veramente per un cambiamento radicale nel paese e i giochi geopolitici che si combattono sulla Siria. Recentemente è stato in Italia, come ci racconta Osservatorio Iraq. Dal tour vi proponiamo l’incontro svoltosi a Milano
Damasco di Suad Amiry, edizioni Feltrinelli, anno di pubblicazione 2016 Oh Dio, famiglie! Nessuno avrebbe potuto darmi più sicurezza della mia famiglia. E, se è per questo, neanche più insicurezza e fragilità.
Dietro i racconti della famiglia Baroudi, delle donne della famiglia, si riflettono temi potenti che riguardano le vicende mediorientali ma anche argomenti di forte attualità nelle nostre società, come la domanda se la madre di un figlio è chi lo partorisce o chi lo alleva. Ancora una volta. Come nei suoi precedenti lavori Suad Amiry ci sorprende per la profondità che si accompagna all’ironia, o meglio alla sottile auto-ironia, necessaria al mondo arabo ma ovunque per guardare ai propri limiti.
Recensioni Damasco suona magica e favolosa, e continua a suonare così mentre si riempie di violenza e di fantasmi. Nessuno meglio di Suad Amiry poteva raccontare il fulgore del passato per aprire una porta sul presente. Il racconto comincia nel 1926, nel palazzo di Jiddo e Teta – marmi colorati, soffitti a cassettoni, fontane che bisbigliano nell'ombra –, comincia quando, dopo trent'anni di matrimonio, Teta torna per la prima volta ad Arrabeh, il villaggio da cui era partita poco più che bambina per andare in sposa al ricco e nobile mercante damasceno Jiddo. Il viaggio di Teta – intrapreso nella speranza di poter dare l’ultimo saluto alla madre – imprime una svolta inattesa al suo matrimonio: il sensuale Jiddo la tradisce. Il perfetto equilibrio della casa sembra spezzarsi, ma poi la vita della famiglia riprende: la dolcezza delle consuetudini smussa le asperità, i rituali attenuano e riassorbono i contrasti, gli equilibri si riassestano. Suad Amiry conduce il lettore nei cortili e nelle stanze della famiglia Baroudi, con i fastosi pranzi del venerdì, le rivalità tra i figli maschi pigri e viziati, il vincolo indissolubile tra le figlie femmine. Passano gli anni, ed è ancora una volta l’arrivo di un bambino a sparigliare le carte, a far luce nelle pieghe più nascoste dell’intimità domestica: vengono così a galla segreti inimmaginabili, come quello che lega la tenera Karimeh alla sorella maggiore Laila, che con piglio inflessibile ha assunto il ruolo di capofamiglia. Ma chi è la vera madre di un bambino? La donna che lo ha partorito o quella che lo ha accudito un giorno dopo l’altro? E fino a che punto è lecito tacere per proteggere quello che si ama di più? Una saga appassionante e poetica sospesa tra realtà e finzione, una rievocazione innamorata e nostalgica di un mondo raffinatissimo spazzato via dal fanatismo e dalla crudeltà, ma soprattutto una riflessione sul senso della maternità e sul silenzio come estremo gesto d’amore. Una storia e un affresco che dall’Impero ottomano arrivano al presente ulcerato del Medio Oriente. I personaggi sono memorabili, la scrittura leggera, le emozioni grandi. Tratto da Feltrinelli Ascolta la recensione in Fahrenheit
Suad Amiry Architetta palestinese, nata nel 1951, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, ha studiato architettura tra Beirut, l’Università del Michigan ed Edimburgo. Dall’inizio degli anni ottanta vive e lavora a Ramallah. Ha scritto e curato numerosi volumi sui differenti aspetti dell’architettura palestinese. In Italia sono stati pubblicati i suoi romanzi Sharon e mia suocera (2003) , Se questa è vita (2005), Niente sesso in città (2007), Murad Murad (2009) e Golda ha dormito qui (2013).
Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza, edizioni Fazi Edizioni. anno di pubblicazione 2015. Ci sono tutti i prodromi della rivoluzione del 2011 e tutti i problemi della Tunisia di oggi nel romanzo della scrittrice tunisina. Nella villa sul mare nelle vicinanze di Biserta l’intreccio, a momenti noir, tra i vari personaggi parla di corruzione, di malavita, di traffici di migranti ma anche di un malessere che appartiene ad un mondo in bilico tra tradizioni, strangolanti ma rassicuranti, e il desiderio di cambiamento. I vari protagonisti vivono in bilico, come anche oggi vive l’intera Tunisia.
Recensioni
«Una delle penne più talentuose del Maghreb. Azza Filali, donna di lettere e di scienza, al tempo stesso impegnata e libera dal peso delle ideologie, si afferma come una delle voci più forti e sensibili della Tunisia odierna» - Le Monde
Non esiste, nella lingua italiana, un termine che possa rendere la parola ouatann, restituircene il carico di significato. Perché ouatann, per le popolazioni che abitano la terra tra il Mediterraneo e il Sahara, non è solo la patria, ma è un’intera tradizione condivisa, è una lingua, un sistema di valori, di abitudini e di gesti, un certo modo di intendere la vita.
Tunisia, 2008. Malavita e politica hanno suggellato il loro patto, il malaffare regna incontrastato. Un villaggio vicino a Biserta. La felicità danza, inafferrabile, al confine tra cielo e mare. In una villa isolata sulla spiaggia si incrociano i percorsi di cinque sconosciuti: Rached, giocatore incallito e funzionario frustrato; Naceur, ingegnere ex galeotto che da un giorno all'altro ha visto la propria vita crollare; Michkat, inquieta avvocatessa affezionata al passato; Faiza, giovane sfuggente e focosa; Mansour, uomo violento dedito a una serie di traffici illeciti. Tutti uniti dallo stesso desiderio: quello di un futuro che si fa attendere, in un paese in cui la miseria di alcuni, il lusso sfrontato di altri e la paralisi dei valori comunitari hanno privato le persone di una dimensione essenziale: il senso di appartenenza alla propria patria. Ma per chi ci vive, in questa patria, anzi in questa ouatann, l’unico destino possibile è partire? Che ne sarà allora della memoria collettiva di un popolo? http://www.ibs.it/code/9788876256134/filali-azza/ouatann-ombre-sul.html Leggi anche le recenzioni in www.artapartofculture.net e La Feltrinelli.
Azza Filali
Nata 1952. Nel 2009 ha conseguito un master in Filosofia all'Università Paris 1. E’ medico di professione ma scrittrice per vocazione. Autrice di due saggi, una raccolta di racconti e sei romanzi e vincitrice di diversi premi, tra cui il premio letterario Comar d’Or per la narrativa tunisina di lingua francese, Ouatann. Ombre sul mare è il suo primo romanzo tradotto in italiano. Vai alle interviste Il piccolo - Alla mia Tunisia hanno rubato i sogni La repubblica - Ecco l’orgoglio e il pregiudizio della Tunisia
Finché non saremo liberi. Iran. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin edizioni Bompiani, anno di pubblicazione 2016
L’Iran è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi mesi, dopo la scelta di riabilitazione internazionale. Una dinamica che si inserisce nei piani sempre più in continua ridefinizione delle alleanze dell’area a livello locale ed internazionale. Un Iran, fortemente motivato a continuare il braccio di ferro con Arabia Saudita e Turchia per il predominio nell’area, che si gioca a colpi di rivalità che vengono dipinte come religiose, tra sciti e sunniti e che giocano le loro mortali mosse attorno alla Siria, divenuto teatro di devastazione generale e all’Iraq. Il libro di Ebadi non racconta solo la storia di una donna che ha vinto il Premio Nobel ma l’accanimento perverso del regime contro gli oppositori. Ed immaginiamo se quello raccontato è il trattamento riservato ad un personaggio famoso, quale può essere quello inflitto ai tanti sconosciuti, nonostante un potere che si presenta come moderato, ma che continua a tenere in una stretta strangolante un intero paese, fatto soprattutto di giovani?
Recensioni «Mio marito resta a Teheran, era stato arrestato ma ora, per fortuna, non è più in carcere. In un primo periodo gli avevano confiscato il passaporto. Ora potrebbe anche venire a trovarmi, all’estero, ma ogni volta è obbligato a lasciare una cauzione consistente. È consapevole che la situazione in Iran non è idilliaca ma l’Iran è il suo paese e preferisce vivere lì. Non è il tipo da vivere in esilio». Così Shirin Ebadi, avvocato iraniana insignita del Nobel per la Pace nel 2003, parlava del marito Javad. Era uno dei primi giorni di gennaio 2014, mi trovano nel suo ufficio londinese, in un grattacielo nel quartiere Hammersmith. Un’intervista, in coda a tante altre, da pubblicare nel piccolo volume Il mio esilio uscito in digitale negli Zoom di Feltrinelli e poi in cartaceo per Jouvence.
Parlando del marito Javad, Shirin Ebadi cercava di celare la malinconia. Ma non solo, perché il suo nuovo libro di memorie Finché non saremo liberi, appena pubblicato da Bompiani, rivela una realtà diversa: finito in una trappola del regime iraniano, una sera a Teheran il marito aveva bevuto un bicchiere di troppo ed era stato sedotto da una conoscente, ci era finito a letto ed era stato filmato dai servizi segreti della Repubblica islamica. Subito arrestato, era stato condannato alla lapidazione per adulterio.
Per sfuggire alla pena capitale, aveva accettato di collaborare con il regime, rilasciando una testimonianza in video in cui accusava la moglie di essere complice di un Occidente deciso a rovesciare la Repubblica islamica. Un amore durato più di trent’anni si è così spezzato. Per il tradimento, più che per la confessione mandata in onda – insieme a tante altre – dalla televisione di stato. O forse perché, come dirà più tardi Javad, seduto su una panchina del parco di Boston dove finalmente può vedere il nipotino, «l’unica cosa che sei riuscita a fare è rendere infelice te e la tua famiglia». Dopotutto, le fa notare il marito, nonostante le attività delle organizzazioni non governative in Iran le violazioni dei diritti umani continuano. Le autorità iraniane hanno arrestato il marito, la sorella, i collaboratori di Shirin Ebadi. Il prezzo della lotta per i diritti umani Shirin Ebadi l’ha pagato e continua a pagarlo: le due figlie Nargues e Negar vivono all’estero, al sicuro, come lei. Ma Shirin resta sola, perché nel tentativo di sfuggire alle continue persecuzioni di regime il marito Javad ha chiesto il divorzio. Non più giovani, vivono lontani. E conclude Shirin, non c’è nulla «di più malinconico che preparare una teiera da uno, con un solo cucchiaino di foglie di tè».
Nasce nel 1947. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, è costretta ad abbandonare il lavoro di giudice, come tutte le altre donne. Riesce a mala pena a poter continuare a frequentare i Tribunali come “esperta”. Tra mille difficoltà e intimidazioni di ogni tipo, per lei e per chi le sta vicino, famiglia e collaboratori, apre un proprio studio, con cui si occupa di casi scomodi, come quelli dei dissidenti. Nel 2003 le viene assegnato il Premio Nobel per la pace. Nel 2009 è costretta a restare a Londra, dove si trovava per una conferenza, perché contro di lei vengono inventate accuse di ogni genere ed in Iran la situazione si fa quanto mai pericolosa. Dall'Europa continua a denunciare la sistematica violazione dei diritti civili ed umani, continuando ad avere speranza di un cambiamento reale nel paese.
Cairo Calling di Claudia Galal, edizioni AgenziaX, anno di pubblicazione 2016
Dalla sparizione e l’omicidio di Giulio Regeni, la realtà quotidiana di violazione dei diritti umani nel paese guidato da Al Sisi, ha iniziato ad essere compresa da molti. Si tratta di una cappa che cerca di soffocare l’intera società egiziana. Una situazione che viene nascosta da un’omertà internazionale complice, dettata dagli interessi che si muovono intorno al possibile ruolo nell'area dell’Egitto. Il governo italiano non è da meno, impegnato a difendere i possibili guadagni del più grande giacimento di gas, scoperto dall’Eni a Zohr. L’Egitto vero, che oltre le disinllusioni seguite alla rivoluzione di Piazza Tahir, è anche quello che emerge dalle vite delle donne ed uomini intervistati da Claudia Galal. Tra musica, street art, graffiti, scopriamo l’underground del paese dei faraoni. Esperienze pulsanti che cercano la strada per esprimersi anche in una situazione quanto mai asfissiante. I viaggi di Claudia Galal, il suo sguardo tra Italia e Egitto riflettono le speranze, le contraddizioni, la ricerca generazionale che attraversa un’intera generazione tra le due sponde del Mediterraneo.
Murales egiziano
Nel gennaio 2011 Piazza Tahrir diventava l’ombelico del mondo, il cuore della Primavera Araba e della rivoluzione egiziana. Purtroppo non mi trovavo lì, dove i giovani del Cairo stavano facendo la storia, ma anche a distanza mi rendevo conto della portata epocale di quello che stava succedendo. Ho iniziato a prendere appunti, a registrare dati, nomi, elementi, a prestare attenzione a volti, immagini, simboli. Non sapevo ancora che cosa ci avrei fatto, ma non volevo perdermi più di quello che mi stavo già perdendo, non essendo là. Poi sappiamo tutti com’è andata – come sta andando – e negli anni quella massa di annotazioni è diventata un libro, Cairo calling, in uscita il 26 maggio 2016 per Agenzia X. Seguendo le mie passioni, mi sono concentrata soprattutto sull’esplosione e l’evoluzione delle controculture (rock, musica elettronica, rap, street art), che in questi ultimi cinque anni e mezzo sono state inevitabilmente legate alla situazione socio-politica. Quelle che seguono sono le prime righe di Cairo calling, che comincia dal 25 gennaio 2011 e si chiude con la drammatica uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni, in un necessario e doloroso finale aperto. «Primi giorni del 2011. Al sicuro, protetta nel guscio della mia metà italiana, seguo con trasporto e preoccupazione quello che succede in Egitto, dov’è nato e cresciuto mio padre e dove affonda una parte delle mie radici. È il 25 gennaio… All’ora di cena rientro a casa con addosso un’ansia pesante. Durante il giorno ho seguito le notizie dall’Egitto dal computer dell’ufficio, ma fra le mille cose da fare non sono sicura di aver capito qualcosa. Mentre salgo le scale del mio condominio in zona Giambellino, dove gli unici non egiziani sono il mio fidanzato e la famiglia cinese del piano di sotto, si confondono e si sovrappongono voci di telegiornali in arabo e discussioni concitate. A tratti mi sembra tifo da stadio, come se i miei vicini volessero spingere qualcuno verso un’impresa impossibile. Intanto ricevo qualche messaggio sul mio cellulare obsoleto: “Che casino al Cairo”, “I tuoi stanno bene?”, “Che cazzo state combinando?!”. Ma io non sono lì, purtroppo, e non ho ancora avuto tempo di mettere insieme i pezzi di questa giornata storica. Entro in casa e, come in quella vecchia canzone, “questa stanza non ha più pareti”, perché distinguo perfettamente i discorsi animati dei ragazzi di fianco, giovani immigrati che tutte le notti si ammazzano di fatica al mercato ortofrutticolo. Non capisco ogni frase, ma la parola chiave arriva forte e chiara. Rivoluzione! Senza togliermi nemmeno il cappotto, accendo tv e computer, così seguo contemporaneamente la diretta del telegiornale e il flusso di notizie che emerge dalla rete, dai social network in particolare. Chiamo anche mio padre, abbastanza sconvolto e confuso quanto me, e mi assicura che la nostra famiglia sta bene. […] La rivolta era nell’aria. Nelle ultime settimane continuavano ad arrivare le immagini piene di rabbia, dolore e frustrazione delle rivolte tunisine, mentre qualche voce di protesta, ancora debole e isolata, si sollevava anche in Egitto. Fino a oggi, 25 gennaio 2011, quando moltissime persone rispondono all’appello della pagina Facebook “We are all Khaled Said”, dedicata al giovane ucciso qualche mese prima dalla polizia di Alessandria in circostanze poco chiare, con l’intenzione di sabotare il National Police Day. Un’ondata di manifestanti si riversa per le strade del Cairo e di Giza, raccogliendosi nella centralissima piazza Tahrir, mentre altre proteste esplodono nelle città del paese, da Suez a Ismailiya, da Alessandria a Mansoura, da Tanta ad Aswan. [...]»
Oggi siamo tutti indignati e arrabbiati, giustamente, con l’Egitto. Ma non bisogna commettere l’errore di identificare un popolo con il regime che lo affligge. Le voci del dissenso sono tante e si esprimono in tanti modi diversi, certo non da oggi, ma da anni. Ho cercato di raccoglierle, molte di queste voci, perché mi chiamavano forte e non potevo far finta di non sentirle. Il risultato è Cairo calling. L’underground in Egitto prima e dopo la rivoluzione (Agenzia X Edizioni). Tratto da Agenzia X
Claudia Galal Italoegiziana, nasce a Urbino e studia a Bologna. Oggi vive a Milano, dove lavora nel campo dell’editoria e della comunicazione. Si interessa soprattutto di musica e street art. Ha pubblicato il volume Street Art e ha partecipato alla realizzazione della guida Re/search Milano. Vai al Facebook di Claudia Galal
Dio odia le donne di Giuliana Sgrena, edizioni Il saggiatore, anno di distribuzione 2016 Giuliana Sgrena ha scritto un libro coraggioso, in un’epoca in cui la fascinazione verso alcuni leader religiosi riesce a velare i pesanti attacchi portati quotidianamente ai diritti delle donne. Dio odia le donne rafforza una certezza: quanto sia umano, e solo umano, questo odio. Raffaele Carcano e Adele Orioli
Se in Rivoluzioni velate si analizza come le donne, protagoniste indiscusse della Primavera araba stanno rischiando di diventare le prime vittime della controffensiva islamista, dopo che i partiti di stampo religioso sono stati "legalizzati", il nuovo lavoro di Giuliana Sgrena apre la riflessione a 360 gradi sul legame tra le religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo, e l’oppressione femminile. Il testo con l’analisi comparata di comportamenti, divieti e punizioni sulle donne ci permette di fare un’operazione di pulizia mentale e ci mette di fronte alla necessità imprescindibile di opporci all’invasiva stretta delle religioni nel nostro qui come ovunque.
Recensioni Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico. Tratta da Il Manifesto
Giuliana Sgrena Nata nel 1948 è una giornalista e scrittrice. Nella sua carriera di cronista, Sgrena ha avuto modo di realizzare numerosi resoconti da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia ed Afghanistan. Si è occupata particolarmente della condizione della donna nell’Islam, E’ stata rapita nel 2005 in Iraq e dopo la sua liberazione, uno dei funzionari del SISMI a bordo dell’auto che la riportava nella capitale irachena, Nicola Calipari, rimane ucciso ad un posto di blocco. I suoi libri sono: Kahina contro i califfi. Islamismo e democrazia in Algeria del 1997, Alla scuola dei taleban del 2002, Il fronte Iraq. Diario di una guerra permanente del 2004, Fuoco amico del 2005, Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne del 2008, Il ritorno. Dentro il nuovo Iraq, del 2010, Rivoluzioni violate. Primavera laica, voto islamista, Milano, del 2014.
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.