giovedì 19 febbraio 2009

Guadalupa, esplosione di violenze

Nell’isola dell’arcipelago delle Antille, gli atti di violenza si sono moltiplicati nella notte nel territorio d’oltremare francese A Guadalupa, isola delle Antille sotto la giurisdizione francese, un’esplosione di rabbia causata dalla drammatica situazione socio-economica rischia di far precipitare il Paese nel caos. Dalla serata di ieri, si sono verificati atti vandalici e incendiari, l’assalto di negozi e veicoli, nonché duri scontri a fuoco con la polizia. La prefettura informa che la prima vittima è un sindacalista di 50 anni.
Giovani e polizia si sarebbero duramente scontrati, secondo più fonti riportate stamattina dal quotidiano Le Monde. Il collettivo LKP, primo movimento dell’isola e in prima linea nelle contestazioni, ha lanciato a metà serata, tramite la radio RCI, un appello alla calma in lingua creola, pur essendo il francese la lingua ufficiale. Oltre alla città di Pointe-à-Pitre, sono rimasti coinvolti nelle agitazioni i comuni di Capesterre-Belle-Eau e Saint-François. La prefettura locale comunica che non è ancora possibile fare un resoconto della situazione. Anche il governo locale lancia un "appello alla calma" tramite il portavoce Luc Chatel alla televisione Europe1. Nella cittadina di Baie-Mahault, a 10 chilometri da Pointe-à-Pitre, un centinaio di giovani si è scontrato con la gendarmeria: alcuni giovani possedevano fucili a pompa e avrebbero più volte sparato alla polizia. Tre poliziotti sono rimasti lievemente feriti nella città di Pointe-à-Pitre. In Francia il segretario del Partito Socialista (Ps), Martine Aubry, ha dichiarato mercoledì, a proposito della crisi nell’isola, che così come "il generale De Gaulle, Mitterand e Chirac amavano i dipartimenti d’oltre mare (Dom), anche Sarkozy dovrebbe interessarsene e farsi amare dai cittadini di questi territori, di fatto francesi".

Articolo pubblicato su PeaceReporter

mercoledì 18 febbraio 2009

In attesa tra le macerie

Mentre la tregua sembra concretizzarsi, la Striscia di Gaza rivela tutto l’orrore della distruzione subita

Di fronte all’ospedale Shifa di Gaza, uno dei tre principali nosocomi della Striscia, il muezzìn chiama alla preghiera di mezzogiorno del venerdì, tradizionalmente la più partecipata. Il traffico si interrompe quasi totalmente e il caos del mercato cittadino si tacita. La gente della zona e i dipendenti dell’ospedale affluiscono ordinatamente verso la moschea di Shifa. Solo che la moschea non c’è più.
E’ stata rasa al suolo, come molte altre, dall’offensiva israeliana di gennaio. La moschea di Shifa sorgeva a pochi metri dall’omonimo ospedale sotto cui, secondo i servizi di intelligence israeliani, si nasconde la leadership di Hamas. Le macerie sono state in gran parte rimosse e al posto del santuario c’è una spianata, sopra la quale sono stati disposti teli e tappeti per la preghiera. Il sermone tra le macerie è un’immagine che ben rappresenta la situazione della Striscia di Gaza dopo l’operazione Piombo Fuso. Più di metà delle strutture del territorio, in gran parte civili, sono state almeno danneggiate. Secondo le ultime stime, ricavate dalle missioni di valutazione umanitaria giunte dopo l’offensiva, gli edifici completamente distrutti sono almeno 14mila. Circa 90mila le persone non hanno più una casa. Qua e là, gruppi di operai lavorano alla rimozione delle macerie, molti di loro indossano i berretti verdi distribuiti da Hamas per proteggerli da sole, ma soprattutto per segnalare la presenza del governo sul territorio. Ma i lavori di ricostruzione non sono nemmeno iniziati. Il governo in verde della Striscia ha iniziato a pagare le compensazioni per quanti hanno avuto le case distrutte da Israele, 3 o 4mila dollari ciascuna. Ancora nulla per le abitazioni danneggiate. Decine di migliaia di persone continuano a vivere in ruderi diroccati, tra calcinacci, schegge di bombe, proiettili e tracce di sangue sui muri. Una rassegnazione motivata dalle gravissime difficoltà economiche di buona parte delle famiglie di Gaza e dalla ben più grave mancanza di materiali edilizi nella Striscia. Cemento e ferro sono nella lista nera dei materiali sotto embargo, il loro prezzo è salito di oltre dieci volte dal quando i valichi sono chiusi. La gente attende la riapertura delle frontiere e un minimo di normalizzazione prima di ricostruire.
Nessuno sa dire quanto tempo ci vorrà prima che ciò accada, e nel frattempo trascorre l’inverno, fortunatamente mite, tra gli incubi del recente passato e le preoccupazioni per l’indomani. Ferro e cemento non sono le sole cose che mancano nella Striscia: c’è una drammatica carenza anche di sistemi per la depurazione delle acque, di gas e generatori di corrente elettrica. In attesa che i colloqui del Cairo, che dovrebbero portare a una tregua di medio termine delle ostilità tra Hamas e Israele e alla riapertura dei valichi di frontiera, l’embargo continua a strangolare la vita civile della Striscia. Di notte, dai tetti di Beit Lahiya, a nord di Gaza vicino al confine israeliano, si notano in lontananza le mille luci di Ashkelon, la città israeliana sul mare, mentre abbassando lo sguardo si piomba nel buio delle vie di Gaza e delle città del nord della Striscia. Le tregue dichiarate unilateralmente da Israele e Hamas lo scorso 28 gennaio hanno consentito l’apertura parziale dei valichi della Striscia, e l’ingresso di diverse missioni internazionali che hanno portato aiuti e effettuato valutazioni sulla situazione umanitaria. In alcuni casi le delegazioni non sono state autorizzate a importare macchinari fondamentali per la ripartenza della vita, come i sistemi di desalinizzazione della protezione civile francese respinti al valico di Rafah a fine gennaio. In altri casi gli aiuti portati non erano quelli necessari.
La missione di medici e giornalisti organizzata dall’ong italiana Crocevia, che ha visitato i principali ospedali della Striscia (Shifa e Al Awda di Gaza, Nasser di Khan Younis e Kamal Adnan di Jabalia) e molte altre strutture sanitarie e socio-sanitarie dei campi profughi della Striscia, ha riscontrato come in diversi casi i tir umanitari internazionali abbiano importato materiale sanitario leggero per il primo soccorso, quando ormai quel tipo di emergenza era superato. All’indomani della tregua i feriti meno gravi sono stati rimandati a casa (anche per la mancanza di posti letto) mentre i casi più difficili sono stati evacuati verso Israele e l’Egitto perché i nosocomi della Striscia non disponevano di strumenti fondamentali come le macchine per la Tac, per la rianimazione e quelle a ultrasuoni come quelle per le ecografie o gli elettrocardiogrammi. In alcuni casi questi macchinari erano presenti ma danneggiati, e sarebbe bastato coordinarsi con le strutture e importare giusto i pezzi di ricambio. Un capitolo a parte é rappresentato dai feriti vittime di armi non convenzionali, come le munizioni al fosforo (illegali se usate in aree densamente abitate) e le cosiddette Dime (Dense Inerte Metal Explosive). La missione di Crocevia ha appurato al di là di ogni dubbio l’impiego delle munizioni al fosforo contro abitazioni civili (valutazione confermata tra gli altri anche da Human Rights Watch, Amnesty International e dal centro palestinese per i diritti umani al-Mezaan), ma durante l’offensiva i medici della Striscia non disponevano delle conoscenze necessarie al trattamento delle ferite provocate da quel tipo di armi. Quanto alle Dime, invece, le numerose testimonianze del loro impiego non sono ancora state confermate da organismi scientifici. Nella Striscia di Gaza non ci sono laboratori in grado di analizzare i campioni di tungsteno (il componente principale delle Dime) ritrovati in diverse abitazioni e all’interno dei corpi delle vittime, e a causa dell’embargo gli stessi campioni non possono essere portati all’estero. Le delegazioni umanitarie giunte a Gaza hanno fatto del loro meglio per gettare un po’ di luce sui crimini contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano durante i 22 giorni di offensiva, ma si sono dovute scontrare con due muri di gomma. Da un lato Israele, che ha concesso l’apertura di corridoi umanitari solo per lenire l’emergenza sanitaria, come se sulla Striscia si fosse abbattuta una disgrazia, un terremoto, anziché una sistematica e intenzionale opera di distruzione iper-tecnologica. Dall’altro, gli organismi internazionali, i paesi occidentali e quelli arabi, che hanno accettato la parte dei pietosi soccorritori senza intaccare il sistema di omertà e servilismo politico, che ha provocato, e continuerà a provocare, disperazione, morte e distruzione.
di Naoki Tomasini

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!