"Gli attivisti non si stancano, e io sono stanca"
«Il romanzo e il saggio sono come la sinistra e la destra del miocorpo. E io sto provando a essere ambidestra». Quasi un tormento per Arundhati Roy che ha messo il rapporto tra potere e impotenza al centro di ogni forma di scrittura. Il dio delle piccole cose, bestseller internazionale e Booker Prize nel 1997 da lei definito «un romanzo politico», è rimasto la sua prima e unica opera di narrativa. Da allora la scrittrice indiana è diventata la voce dei senza voce. Cortei, sit-in, scioperi della fame e tanti saggi.
Ha così incanalato la sua energia creativa in impegno militante, denunciando soprusi e ingiustizie: dalle grandi dighe sul fiume Narmada, che hanno lasciato senza terra milioni di contadini, alle persecuzioni dei musulmani per la «deriva fascista» dei fondamentalisti indù. Per anni è stata una scelta: «Nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo. Il saggio invece nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina» scriveva nel 2002 in Settembre alle porte. Oggi però le cose sono cambiate: «Sto cercando di scrivere il mio secondo romanzo, ma non è facile», ammette dalla sua casa di New Delhi. Una frase che rivela la fatica che sta facendo a indossare di nuovo i panni della narratrice. Già due anni fa aveva confessato al Guardian: «Ho detto tutto quello che potevo sulla globalizzazione, come scrittrice devo andare in un posto diverso». Ma il «trasloco» non è ancora riuscito. Da qualche tempo va ripetendo: «Non sono un’attivista. Gli attivisti non si stancano mai, mentre io sono esausta».
Eppure fino alla scorsa settimana, per San Valentino, era in prima linea al fianco di studenti e docenti universitari a una manifestazione contro le ronde moralizzatrici dei fondamentalisti indù che a gennaio hanno aggredito alcune ragazze in un discopub di Mangalore, accusandole di «comportamenti osceni», atti contro le tradizioni indiane, segnali indecenti della contaminazione occidentale. «Una guerra di classe combattuta sul corpo delle donne» l’ha definita Roy. La scrittrice, un’infanzia di esclusione sociale alle spalle (è cresciuta nel Kerala con la madre divorziata), ha preso la parola leggendo un brano del Dio delle piccole cose, saga familiare che la passione di una donna per un intoccabile trasforma in tragedia. «Sono fuggita da casa a 16 anni perché era intollerabile l’idea di crescere in un piccolo villaggio — ha ricordato alla folla con il microfono in mano, il corpo minuto e aggraziato che sprigiona carisma, qualche filo grigio ad accennare ai suoi 47 anni portati da ragazzina —. Sono fuggita per essere felice, libera, loro vogliono toglierci l’aria e impedirci di respirare. Dobbiamo reclamare l’aria, dobbiamo farlo ogni giorno».
E lei continua a farlo. «Scrivere saggi è soltanto un altro modo di capire la società in cui viviamo. Più diretto, pressante, a volte molto importante, soprattutto se vivi in una parte del mondo che sta sbandando verso il fascismo sotto i tuoi occhi». Ma Roy non considera la lotta per i diritti umani una prerogativa degli intellettuali. «Non prescriverei mai un ruolo prefissato agli scrittori: come gli idraulici o i meccanici, non sono un gruppo omogeneo con un unico orientamento culturale. Alcuni lavorano stando dalla parte dei governanti, altri dalla parte dei governati. Così pure per attori, giornalisti, sportivi, musicisti e tutti gli altri». Poi sembra distinguere tra sostenitori di una causa e testimonial: «Non credo che intervenire in una situazione politica come scrittore equivalga a sfruttare la propria fama per sostenere qualche particolare tipo di rivoluzione. Non si tratta di usare la propria celebrità ma di fare il proprio lavoro: guardarsi intorno. Vedere. Pensare. Scrivere». Ma lei stessa ammette che non tutti gli sguardi sono innocenti. Per esempio Maximum City dell’indiano Suketu Metha contiene un passo in cui lo scrittore osserva le torture della polizia. «Mi ha disturbato la facilità con cui l’autore è andato in una stanza per le torture con un poliziotto amico e ha descritto quello che accadeva. Guardare la tortura non è un atto neutrale. Non si può essere spettatori, si diventa complici».
Apprezza invece La tigre bianca di Aravind Adiga, Booker Prize l’anno scorso, che racconta il lato meno scintillante della rivoluzione indiana: «Il romanzo è stato accolto in India con molta rabbia. La cosa buona è che fa sentire a disagio chi deve essere messo a disagio». Giudizio più sfumato per The Millionaire dello scozzese Danny Boyle, tra i favoriti agli Oscar: «Ho visto il film, mi è sembrato girato in modo splendido, ha un grande impatto. Per il resto è stato come percorrere una strada accidentata. C’erano enormi buche culturali in cui il film continuamente inciampava. I dialoghi erano imbarazzanti, cosa che mi ha sorpreso perché invece ho apprezzato The Full Monty», dello stesso sceneggiatore, Simon Beaufoy. Poi racconta una di queste buche: «Il giovane protagonista, il "cane dello slum" di Mumbai (lo "Slumdog" del titolo inglese, il pezzente, è un neologismo coniato, pare, dallo stesso Beaufoy, ndr), è chiaramente britannico. E la sua sicurezza culturale intimidiva il poliziotto, chiaramente indiano, che lo stava torturando. La pelle scura che li accomuna è troppo sottile per nascondere la forma di quello che li separa. Era come guardare i bambini neri di uno slum di Chicago parlare con l’accento di Yale». Roy ha provato sentimenti ambivalenti: «Felice che il film sgonfi il mito dell’"India scintillante", delusa che non lo faccia con il brio e la coscienza politica che il regista e lo sceneggiatore hanno mostrato in altri lavori. Ma ovviamente l’audience internazionale trangugia il film come melassa...».
Diventare milionari vincendo a un quiz non è una forma di riscatto esemplare. Ma lei stessa ha riconosciuto che pure il tipo di protesta non violenta a cui ha aderito per oltre un decennio è fallita. E ora non se la sente più di condannare del tutto le persone che imbracciano le armi per far valere i propri diritti. La battaglia resta da combattere; come, non è chiaro. «C’è un grande dibattito in India su questo, la strada è ancora da trovare». Una cosa è certa: la sua India è a un bivio: «Da una parte la freccia indica Giustizia, dall’altra Guerra civile». Speranze per le prossime elezioni, ad aprile? «Le elezioni qui sono come un festival — dice —. Vanno e vengono senza portare molti cambiamenti. L’unico modo per evitare che la nostra società scivoli nel caos è che il governo garantisca un livello minimo di trasparenza. Oggi certe persone sanno che possono permettersi tutto: stupri, omicidi di massa, frodi pesanti, espropriazioni, la distruzione di foreste e fiumi».
E pure le cause dell’attentato di Mumbai sono soprattutto indiane, ribadisce. Anche dopo l’ammissione del Pakistan che l’attacco è stato in parte pianificato sul suo territorio con l’appoggio di una rete globale. «Non mi stupisco. Identificare la provenienza di un attentato terroristico è come identificare la provenienza del capitale. Del resto, la stessa polizia di Mumbai ha ammesso che gli attentatori hanno avuto un appoggio logistico in India. Gli attacchi sono nati da una particolare storia e sono stati gli ultimi di una serie, di cui molti, secondo i servizi segreti, pianificati ed eseguiti qui in India. Presentarli come una sorta di attacco al Paese buono da parte del Paese cattivo è banale». Lei, che definisce il terrorismo come «la privatizzazione della guerra», e ha chiamato George Bush e la sua risposta al Terrore come «l’incarnazione di un incubo mondiale», ora spera in Obama. «Il suo compito non è diverso da quello del pilota che pochi giorni fa ha dovuto fare un atterraggio di emergenza nell’Hudson a New York — dice —. Anche l’impero americano ha bisogno di un atterraggio d’emergenza morbido. La sua politica estera dovrà cambiare e molti dei suoi cambiamenti saranno dettati dalla sua economia debole. Obama sembra avere il garbo e l’intelligenza per fare un buon lavoro. Però sono stata delusa perché non ha avuto il coraggio di condannare la recente violenza di Israele a Gaza».
Alessandra Muglia
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 20.02.09
venerdì 20 febbraio 2009
Donne e bambini picchiati da poliziotti mascherati
Donne e bambini hanno ricevuto percosse e minacce da poliziotti a volto coperto, durante incursioni nelle case avvenute il 15 febbraio ad Hakkari, a seguito di numerose manifestazioni di protesta per il 10° anniversario della cattura del leader del PKK, Abdullah Öcalan. Si presume che il capo della polizia locale, Metin Seyfi Sazak, abbia minacciato delle persone la cui casa era stata presa di mira nelle incursioni. Scopo delle minacce è impedire alle persone colpite di informare i media dell’accaduto. Durante l’incursione 4 persone sono state ferite. Le manifestazioni sono state numerose in Turchia; alcune si sono svolte senza conseguenze negative, mentre in altre i dimostranti sono stati attaccati dale forze di sicurezza e vi sono stati numerosi arresti e ferimenti. L’intervento più brutale ha avuto luogo ad Hakkari, dove il dipartimento di polizia locale ha inviato poliziotti dal volto coperto a compiere operazioni speciali, colpendo e minacciando persino donne e bambini. Metin Seyfi Sazak ha poi minacciato quelli che avevano visto la propria porta di casa abbattuta o bruciata durante le incursioni, affinché non informassero i media. Se taceranno potranno anche ottenere il risarcimento dei danni materiali subiti, altrimenti le cose andranno diversamente. Le strade di Hakkari erano piene di giovani allorché erano in atto manifestazioni di protesta contro la prigionia di Abdullah Öcalan. La polizia ha tuttavia pesantemente attaccato i dimostranti circondando vari quartieri e abbattendo le porte delle abitazioni scagliando bombe a gas sia nelle strade che nelle case. A seguito del lancio di ordigni quattro abitazioni hanno addirittura preso fuoco. Persino un bambino di sei mesi è stato ferito e l’abitazione del vicesindaco, Cemil Akış, è stata presa di mira; egli ha poi dichiarato che da anni la polizia intimidisce la popolazione di Hakkari e che intende presentare una denuncia dell’accaduto presso l’IHD. Persino in alcuni Paesi meno sviluppati non si vedono fatti simili a quelli che avvengono in Turchia. Non cesseranno di certo gli spargimenti di sangue finché il governo turco porterà avanti condizioni di vita così brutali e crudeli per la popolazione locale. Yıldız Demir ha spiegato: “La porta della nostra abitazione è stata rotta e all’improvviso sono entrati dei poliziotti mentre ero con il mio bambino più piccolo. Hanno cominciato a prenderci a calci. E ho cercato di proteggere il bambino dai calci e dal gas delle bombe; perciò ho segni di bruciature su tutto il corpo. Uno dei poliziotti nell’azione concitata ha perduto il suo telefonino e ha cominciato a dire che se non glielo avessimo restituito ci avrebbe ucciso. Ayşe Demir, ferita durante l’incursione, dichiara: “Accadeva di tutto durante l’incursione. I poliziotti a volto coperto gettavano alla rinfusa bombe che producevano gas. Abbattevano le porte e attaccavano senza motivo chi si trovava nelle case, compresi i bambini. Il Primo Ministro si dimostra sensibile quando parla dei bambini palestinesi, ma cosa dice ora di quel che accade ai nostri bambini? I nostri bambini non meritano, forse, di essere protetti dal terrore?” “I poliziotti sembrano molto rabbiosi e desiderosi di infierire poiché non sono in grado di fermare le manifestazioni di protesta dei giovani; perciò insultano noi nelle nostre case e ci rompono porte e finestre”, ha dichiarato Sürme Demir. Vi erano anche nelle case malati che non erano in grado di scappare e le loro condizioni sono ora aggravate dal lancio di bombe a gas. Abdulhamit Demir, uno di loro, sostiene che l’AKP non ha possibilità di vincere le elezioni municipali finché continuerà a infierire sulla popolazione locale. A suo avviso i kurdi non sono considerati cittadini, nemmeno di seconda classe. Un dirigente di polizia, Taner Koç, al quale sono stati mostrati bambini feriti durante le incursioni, ha dichiarato che si è trattato di un atto disumano e di vera brutalità. Tuttavia un altro dirigente, Metin Seyfi Sazak, ha persino minacciato le persone colpite negli attacchi, affinché non informassero i media di quel che era avvenuto.
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BOICOTTA TURCHIA
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Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.
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