lunedì 1 giugno 2009

Colonie fuorilegge

Case, strade ed edifici pubblici costruiti senza licenza edilizia o sui terreni dei palestinesi. L’inchiesta di Ha’aretz sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania

Uri Blau, Ha’aretz, Israele
Appena quattro anni fa il ministero della difesa israeliano ha deciso di fare una cosa apparentemente elementare: creare un database completo degli insediamenti nei Territori occupati. Il progetto è stato affidato a Baruch Spiegel, generale di brigata della riserva e aiutante di campo dell’allora ministro della difesa Shaul Mofaz. Per più di due anni Spiegel e i suoi collaboratori (che hanno sottoscritto un impegno alla riservatezza) hanno raccolto dati in modo sistematico, soprattutto dall’Amministrazione civile, l’autorità israeliana che gestisce i permessi di costruzione in Cisgiordania. Uno dei motivi principali dell’iniziativa era ottenere finalmente delle informazioni credibili e accessibili da usare nei procedimenti giudiziari intentati dai cittadini palestinesi, dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e dai movimenti di sinistra per dimostrare l’illegalità degli insediamenti. Quei dati, raccolti in modo molto meticoloso, sono stati definiti dinamite politica. Il ministero della difesa, guidato da Ehud Barak, si è rifiutato fermamente di renderli pubblici. La loro pubblicazione, hanno spiegato, avrebbe messo a rischio la sicurezza dello stato o danneggiato l’immagine internazionale di Israele. Si tratta del rapporto più completo mai compilato in Israele sui Territori occupati. Di recente Ha’aretz ne è entrato in possesso, portando alla luce delle informazioni che lo stato tiene nascoste da anni. Analizzando i dati si scopre che nella maggior parte degli insediamenti (circa il 75 per cento) le opere edilizie sono state realizzate senza le necessarie licenze, o in contrasto con le licenze concesse. Dal database emerge inoltre che in più di 30 insediamenti sono stati costruiti edifici e infrastrutture (come strade, scuole, sinagoghe, seminari rabbinici e perfino commissariati di polizia) su terreni che appartenevano a cittadini palestinesi residenti in Cisgiordania. I dati non si riferiscono solo agli avamposti illegali (di cui si era occupata l’avvocatessa Talia Sasson in un rapporto pubblicato nel marzo 2005), ma al nucleo storico degli insediamenti. Tra questi ce ne sono alcuni di vecchia data, fondati con motivazioni ideologiche, come quelli di Alon Shvut, di Ofra e di Beit El. I dati riguardano anche alcuni vasti insediamenti creati per motivi prevalentemente economici, come la cittadina di Modi’in Illit (fondata nel 1990 e oggi abitata da circa 36mila persone) e quella di Givat Ze’ev, appena fuori Gerusalemme.Le informazioni contenute nel database non coincidono con la posizione ufficiale del governo. Sul sito web del ministero degli esteri, per esempio, c’è scritto: “Le iniziative di Israele in merito all’uso e all’assegnazione delle terre poste sotto la sua amministrazione vengono assunte nel più rigoroso rispetto delle norme del diritto internazionale. Israele non requisisce appezzamenti privati per stabilirvi insediamenti.” Ma l’analisi ufficiale dimostra che è proprio il governo stesso il responsabile della pianificazione urbanistica incontrollata e della mancata regolamentazione nella costruzione di molti insediamenti nei territori.Secondo i dati dell’Istituto centrale di statistica israeliano, nel 2008 circa 290mila ebrei vivevano nei 120 insediamenti ufficiali e in decine di avamposti nati in tutta la Cisgiordania dopo il 1967. “Niente è stato fatto di nascosto”, spiega Pinchas Wallerstein, direttore generale dello Yesha council, l’organizzazione che rappresenta le comunità degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e figura di punta del progetto coloniale. “Tutti i progetti edilizi sono stati portati avanti dal governo israeliano”. Se i palestinesi che erano proprietari di terreni occupati dagli insediamenti facessero causa, aggiunge Wallerstein, e se il tribunale accettasse di aprire un procedimento giudiziario, le strutture dovrebbero essere spostate altrove. “Negli ultimi anni questa è sempre stata la nostra posizione”, assicura.Ma facendo un giro tra gli insediamenti non si direbbe. Ci sono interi quartieri edificati senza licenza o su terre che appartenevano ai palestinesi. In alcuni casi si tratta addirittura di uffici comunali e di stazioni di polizia e dei pompieri.Nel vasto e desolato parcheggio dei camper dell’insediamento di Kochav Yaakov, costruito come altri su terreni di privati, una coppia di giovani sposi sta andando alla fermata dell’autobus. Aharon, 21 anni, ed Elisheva, di 19, sono cresciuti negli Stati Uniti. Si sono stabiliti definitivamente in Israele solo da pochi mesi, quando Aharon ha finito il servizio militare nell’unità ultraortodossa di Nahal. Nonostante questo parlano un ebraico quasi perfetto. Quando gli chiedo perché hanno scelto di vivere proprio qui, elencano – in quest’ordine – tre motivi: è vicino a Gerusalemme, costa poco e si trova nei Territori occupati.Versano il canone d’affitto mensile di 550 shekel (circa 98 euro) al segretario dell’insediamento. Come neoimmigrati sono ancora esentati dal pagamento dell’arnona, la tassa comunale. Quando gli faccio notare che il suo camper è parcheggiato su un appezzamento privato, Aharon non si scompone. “Quello che dice lo stato non m’importa. Nella Torah c’è scritto che tutta la Terra di Israele è nostra”. Anche se sono trascorsi più di due anni da quando ha lasciato il suo incarico ufficiale, Baruch Spiegel resta fedele all’establishment. Durante il nostro colloquio mi ripete più volte che il suo impegno alla riservatezza gli impedisce di raccontare i dettagli del progetto.

Le mezze verità di Spiegel
Il database che ha messo a punto insieme ai suoi collaboratori contiene informazioni molto dettagliate, accompagnate dalle fotografie aeree e dai dati raccolti dai Gis, i sistemi di informazione geografica.“Ci sono voluti due anni e mezzo per realizzare questo progetto” racconta Spiegel. “L’obiettivo era creare un database che descrivesse con la massima esattezza la tipologia dei terreni (anche a livello legale), i confini tra i settori, i piani regolatori cittadini, le decisioni del governo e le terre di cui non è chiara la proprietà”.
“Ora chi è in possesso di tutti questi dati?”
“L’Amministrazione civile, suppongo”.“
Come mai, prima che le fosse affidato questo progetto, non esistevano rapporti del genere?”
“Non so fino a che punto fosse una priorità per il governo”.
“Perché, secondo lei, lo stato non rende pubblici questi dati?”
“È un argomento riservato e complesso, in cui intervengono vari tipi di considerazioni, legate ad aspetti politici e di sicurezza. Dovrebbe chiedere ai funzionari responsabili.”
“Quali sono gli aspetti riservati?”
“Non è certo un segreto che ci siano state delle violazioni. Ma la questione è complessa.”
“Non c’è anche un problema di immagine per il paese?”
“Non mi sono occupato dell’immagine. Ho cercato di capire la situazione reale nei Territori, quali sono gli insediamenti legali, se ci sono stati casi di appropriazione di terre di privati palestinesi. Tutto quello che abbiamo trovato l’abbiamo trasmesso a chi di dovere.”
“Lei pensa che queste informazioni dovrebbero essere pubbliche?”
“Penso che la parte più semplice, quella che riguarda le sfere di giurisdizione, sia già stata pubblicata. Ma ci sono dei passaggi più riservati. Non posso dire di più, perché sono ancora sotto il vincolo di riservatezza.”
Secondo Dror Etkes, ex coordinatore del progetto di monitoraggio degli insediamenti di Peace now, “il rifiuto di rivelare questo materiale è l’ennesimo esempio di come lo stato approfitti della sua autorità per ridurre le informazioni accessibili ai cittadini. Lo scopo è evitare che nell’opinione pubblica si formino posizioni intelligenti e consapevoli.”Dopo le prime rivelazioni sul materiale raccolto da Spiegel, il Movimento per la libertà d’informazione e Peace now hanno chiesto al ministero della difesa di pubblicare il database, appellandosi alla legge sulla libertà d’informazione. Ma il governo ha rifiutato.Il database descrive in modo dettagliato tutti gli insediamenti. Per ognuno è elencato il numero dei residenti, il tipo di organizzazione (comunità urbana, amministrazione locale, moshav, kibbutz o altro), l’associazione di appartenenza degli abitanti, lo status delle terre su cui l’insediamento è stato costruito, la presenza di eventuali avamposti illegali e la validità dei progetti edilizi. Sotto ogni voce sono riportati in rosso i dati riguardanti le opere edilizie realizzate senza licenza e la loro collocazione precisa nell’insediamento.
Ofra, Elon Moreh e Beit El
Il database contiene informazioni molto interessanti sull’insediamento di Ofra, fondato nel 1967 dal movimento sionista Gush Emunim. Di recente l’ong israeliana B’Tselem ha pubblicato un documento in cui afferma che molti degli edifici dell’insediamento sorgono su terreni di proprietà dei palestinesi, e andrebbero quindi evacuati. Lo Yesha council ha risposto che le informazioni riportate da B’Tselem sono “completamente infondate”. Ma le informazioni su Ofra contenute nel database ufficiale chiariscono ogni dubbio: “L’insediamento di Ofra non si conforma a progetti edilizi validi. La maggior parte degli edifici di questa comunità sorge su terreni privati registrati, quindi è priva di qualsiasi base legale.”Anche a Elon Moreh, uno degli insediamenti più noti dei Territori occupati, sono state scoperte costruzioni illegali. Nel giugno del 1979 alcuni residenti palestinesi del villaggio di Rujib, a sudest di Nablus, inoltrarono una petizione all’alta corte di giustizia perché annullasse l’ordine di requisizione delle loro terre, che erano state destinate alla costruzione dell’insediamento. In aula il governo israeliano sostenne, come faceva sempre a quel tempo, che la costruzione dell’insediamento era necessaria per esigenze militari, e che le ordinanze di requisizione erano quindi del tutto legali. Ma il tribunale – sulla base delle dichiarazioni dei coloni di Elon Moreh, che avevano ammesso che non si trattava di un insediamento temporaneo per fini di sicurezza – ordinò alle forze armate di evacuare l’insediamento e di restituire le terre ai legittimi proprietari. Le autorità israeliane trovarono immediatamente un sito alternativo per edificare l’insediamento. Ma anche nella nuova colonia “buona parte dei lavori edilizi è stata effettuata senza progetti dettagliati e approvati, e alcune costruzioni hanno violato il diritto di proprietà privata.” In risposta, l’amministrazione regionale di Shomron, che comprende anche Elon Moreh, ha dichiarato che “tutti i quartieri dell’insediamento sono stati progettati dallo stato di Israele tramite il ministero per l’edilizia abitativa. I residenti di Elon Moreh non hanno violato i diritti di proprietà.”Secondo il database, anche l’insediamento di Beit El è stato costruito “su terreni di residenti palestinesi, requisiti per scopi militari”. Ecco il commento di Moshe Rosenbaum, capo dell’amministrazione locale di Beit El: “Il comportamento dei giornalisti come voi non fa che favorire i peggiori nemici di Israele”.

Il seminario abusivo
Ron Nahman è il sindaco di Ariel. Alle ultime elezioni è stato rieletto per un sesto mandato. Nahman denuncia il blocco imposto ai lavori edilizi ad Ariel e si lamenta di aver sempre dovuto condurre delle battaglie con l’Amministrazione civile per ottenere le licenze di costruzione. Anche quest’insediamento è citato nel database. In particolare, si parla del college di Ariel: “L’area su cui sorge non era stata regolamentata da un piano urbanistico”. Si spiega, inoltre, che l’istituto sorge su due appezzamenti separati, e che il nuovo piano non è stato ancora discusso. Nahman lo conferma, ma dice che la questione della pianificazione è stata risolta di recente. Quando gli diciamo che ci sono decine di insediamenti costruiti in parte su terreni privati, non sembra sorpreso. Né lo sorprende il fatto che in tre quarti degli insediamenti siano state intraprese opere edilizie che non rispettano i progetti originari. “Le lamentele non devono essere indirizzate a noi, ma al governo,” sostiene. “I piccoli insediamenti sono stati pianificati dall’Amministrazione dell’edilizia rurale, che fa capo al ministero dell’edilizia abitativa, mentre quelli più grandi dipondono dai distaccamenti distrettuali del ministero stesso. In ogni caso, quindi, è sempre il governo ad autorizzare gli insediamenti. Secondo il programma “Costruisci la tua casa”, lo stato si fa carico di una quota dei costi di edificazione, mentre la parte restante spetta al privato. Ma è tutto un gigantesco bluff. Credete che sia stato io a progettare gli insediamenti? Niente affatto: sono stati Sharon, Peres, Rabin, Golda e Dayan”. La maggior parte dei territori della Cisgiordania non è stata ammessa a Israele, quindi la fondazione e la costruzione di comunità in quei luoghi obbedisce a norme diverse da quelle in vigore in territorio israeliano. Il rapporto di Talia Sasson sugli avamposti illegali, in parte basato su dati raccolti da Baruch Spiegel, elencava quattro requisiti per la fondazione di un nuovo insediamento nei territori: 1. Il governo israeliano deve aver deciso di fondare l’insediamento. 2. L’insediamento deve avere un’area di giurisdizione definita. 3. L’insediamento deve avere un piano regolatore dettagliato e approvato. 4. L’insediamento deve sorgere su terre demaniali o su terre acquistate da israeliani e registrate a loro nome al catasto. Secondo il database, l’autorizzazione a pianificare e a costruire nella maggior parte degli insediamenti è stata rilasciata dallo stato all’Organizzazione sionista mondiale (Wzo) e al ministero dell’edilizia abitativa. La Wzo e il ministero hanno a loro volta assegnato le terre ad altri enti, che hanno poi edificato gli insediamenti: in alcuni casi si è trattato dell’ufficio insediamenti della Wzo, in altri dello stesso ministero dell’edilizia abitativa, in altri ancora dell’Amministrazione dell’edilizia rurale. In vari casi, gli insediamenti sono stati costruiti dall’organizzazione sionista Gush Emunim. Dal database si scopre inoltre che su alcune terre appartenenti ai palestinesi sono state costruite scuole e istituti religiosi. Come quello di Kinor David, nella parte sud dell’insediamento di Ateret. All’ingresso dell’istituto un’insegna precisa che il seminario è stato realizzato dal movimento per gli insediamenti Amana, dall’amministrazione locale di Mateh Binyamin e dall’ufficio insediamenti della Wzo. Anche sulla colonia di Michmash ci sono annotazioni simili: “Alcuni quartieri sono stati costruiti su terreni privati. Al centro dell’insediamento, per esempio, c’è un quartiere, fatto interamente di camper, che in pratica ospita una scuola religiosa”. Di recente, in un pomeriggio d’inverno, ho visto giocare un gruppo di bambini. Uno di loro indossava una maglietta con questa frase: “Non dimenticheremo e non perdoneremo”. In giro non si vedevano maestre. Una giovane donna che stava portando il suo neonato dal medico si è fermata un attimo per scambiare due parole. Mi ha detto di essersi trasferita a Michmash da Ashkelon, perché i genitori del marito erano stati tra i fondatori dell’insediamento. Ha detto anche che non ha intenzione di mandare suo figlio alla scuola religiosa. Ma non perché sorge su terreni privati. Semplicemente perché non è il tipo di istruzione che vuole per lui. “In ogni caso” ha aggiunto “non credo che sia stato costruito su terreni privati”.Secondo Kobi Bleich, portavoce del ministero dell’edilizia abitativa, “il ministero partecipa al sovvenzionamento degli insediamenti situati nella cosiddetta Zona di priorità A, rispettando esclusivamente le disposizioni del governo israeliano. La costruzione delle opere edilizie, invece, è portata avanti dalle amministrazioni regionali, ma solo dopo che il ministero ha verificato se il nuovo quartiere rientra in un piano urbanistico approvato. Tutte le iniziative del passato, quindi, sono state conformi alle decisioni dei responsabili politici.” E Danny Poleg, portavoce della polizia israeliana per il distretto Giudea e Samaria (che compongono la Cisgiordania occupata), afferma: “La costruzione di nuove stazioni di polizia ricade sotto la giurisdizione del ministero per la sicurezza interna. È a loro che vanno posto eventuali domande”. Come risposta, la Wzo ci ha mandato un voluminoso opuscolo. “Gli insediamenti in Giudea e Samaria, così come in Israele, sono stati accompagnati dalla preparazione di piani regolatori regionali”, si legge nell’opuscolo. “Alla realizzazione di questi piani hanno partecipato commissioni direttive di vari ministeri governativi, più l’Amministrazione civile e le autorità municipali. Il nostro ufficio per gli insediamenti ha operato esclusivamente su terre che sono state assegnate per contratto dalle autorità dell’Amministrazione civile. E tutte le terre sono state poi riassegnate in modo appropriato.” Ma l’Amministrazione civile, a cui abbiamo chiesto più di un mese fa di commentare il database, non ha ancora risposto.
Articolo publicato su Internazionale 795, 15 maggio 2009

Palestina - Iniziata la campagna di boicottaggio al festival del cinema di Pesaro

Claudio Salvi - Il Messaggero
INIZIATA LA CAMPAGNA DI BOICOTTAGGIO AL FESTIVAL DEL CINEMA DI PESARO
ADESSO ABBIAMO BISOGNO DEL VOSTRO AIUTO INVIATE LE VOSTRE ADESIONI A cps.palestina@gmail.com
PESARO - Dalle parole ai fatti. Dopo le prese di posizione dei mesi scorsi Campagna Palestina Solidarietà, sigla che annovera associazioni filo palestinesi, con un comunicato ha annunciato ieri di voler boicottare la prossima edizione (la 45esima), della Mostra Internazionale del Nuovo cinema di Pesaro, in programma dal 21 al 29 giugno, che per quest’anno ha previsto in cartellone una retrospettiva dedicata al cinema israeliano. Si tratta di una rassegna tematica organizzata con il supporto dell’Israel Film Fund.
Quella di Campagna Palestina Solidarietà è un’iniziativa che rientra nella campagna di boicottaggio "accademico e culturale" di Israele da parte di un’associazione che dice di voler "lavorare per una pace giusta in Medio Oriente e contro l’occupazione israeliana". In un comunicato l’associazione scrive: "Dopo aver chiesto invano spiegazioni sulle modalità di svolgimento dell’evento al sindaco di Pesaro e all’organizzazione del festival cinematografico, abbiamo deciso di esprimere, con un boicottaggio non-violento della rassegna cinematografica pesarese, il nostro diritto di critica alla politica israeliana di occupazione e colonizzazione della Palestina". "Il boicottaggio - si precisa nel comunicato - non è rivolto ai singoli film, ai loro registi o più in generale all’opera cinematografica, ma alla presenza di un ente israeliano (Israel Film Fund) direttamente collegato con le istituzioni governative israeliane". Per l’associazione lo svolgersi di una retrospettiva dedicata al cinema israeliano stride ancor di più perché si tiene a Pesaro, gemellata da alcuni anni con Rafah la città palestinese situata nella Striscia di Gaza e duramente colpita durante l’operazione militare israeliana "Piombo Fuso" di alcuni mesi fa. Leandro Foglietta che opera in una delle associazioni pro-Palestina, dice: «Abbiamo semplicemente voluto raccogliere un appello delle associazioni palestinesi per attuare una forma di boicottaggio di una iniziativa organizzata con il sostegno di un ente direttamente collegato con le istituzioni governative di Israele. Non ci interessano i film, i registi, il programma; quel che vogliamo stigmatizzare è che la retrospettiva viene appoggiata dall’Israel film Fund. Da mesi abbiamo chiesto spiegazioni in merito alla Fondazione Pesaro cinema, al sindaco e al direttore della Mostra. Non ci hanno degnato nemmno di una riposta. Di qui la decisione di boicottare la prossima mostra attraverso forme assolutamente non violento, attraverso presìdi, volantinaggi, sit-in».Per parte sua il direttore del Festival Spagnoletti aveva affermato nei giorni scorsi al nostro giornale: «Rivendichiamo la libertà ed il diritto di rappresentare ciò che il festival ritiene sia giusto proporre al proprio pubblico». Ed aggiunge: «Non abbiamo bisogno di nessuno che ci dica cosa si deve e non si deve vedere. Questa è sempre stata la prerogativa di questo festival che in quasi cinquant’anni di storia ha fatto della libertà un proprio baluardo». Nessun passo indietro dunque sulla scelta artistica intrapresa qualche mese fa.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!