domenica 6 dicembre 2009

Sahara Occidentale - Continua lo sciopero della fame di Aminetu Haidar

Peggiorano le condizioni di salute di Aminetu Haidar
in sciopero della fame ormai da più di venti giorni.


Haidar è la più famosa attivista del Sahara Occidentale e da anni lotta perchè sia riconosciuta l’indipendenza del suo paese, ex-colonia spagnola, ceduta al Marocco secondo gli accordi di Madrid del 1975.

Il governo marrocchino, su ordine del re Mohamed VI, ha rifiutato le richieste del governo spagnolo di concedere un passaporto marrocchino all’attivista sahariana Aminetu Haidar, espulsa dal suo paese il 14 novembre scorso, per questo la donna ha iniziato dal 16 novembre lo sciopero della fame nell’aeroporto di Lanzarote (Canarie).

Il caso è seguito con attenzione in Spagna.

Il governo marrocchino in un comunicato ha rifiutato “qualsiasi intervento straniero nel caso Haidar“, affermando, inoltre, di “non voler cedere al ricatto dell’attivista, il cui compartamento è una provocazione e una sfida alle autorità marrocchine”. Il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, aveva offerto a Haidar la cittadinanza spagnola, ma la donna si è rifiutata perché “non vuole essere una straniera nel suo paese”.

Intanto crescono le prese di posizione a favore dell'attivista dei diritti umani.

Pubblichiamo un'intervista rilasciata da Aminetu Haidar

Ha appena ricevuto negli Stati Uniti il premio al valore civile della Fondazione John Train ed è ora nelle Canarie per parlare di violazione dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Quale è la situazione attuale?

La situazione è realisticamente allarmante. Il Governo e le forze di occupazione marocchine hanno raddoppiato la repressione cambiando i metodi repressivi. Stanno trasformando i processi civili in militari, senza il rispetto di nessuna norma, facendoci praticamente ritornare all’epoca di Hassan II. Il regime marocchino sta rivelando il suo vero volto, che non ha proprio niente a che vedere con quello che cerca di trasmettere, in modo ingannevole, al mondo.

Attualmente, la maggioranza dei difensori dei diritti umani nel Sahara Occidentale è in prigione e coloro che non sono prigione sono praticamente agli arresti domiciliari, con i documenti requisiti e quindi sprovvisti di identità nella propria terra. Le scuole e le istituzioni educative sono sotto la vigilanza della polizia. Alcuni giorni fa, due studenti saharaui sono stati imprigionati senza avere diritto ad un avvocato o a qualcuno che li potesse difendere. Sono abbandonati.

A che cosa attribuisce l'aumento della repressione di cui lei parla?

Ci sono due ragioni. La prima è raggiungere l’obiettivo di far fallire in qualche modo il processo di pace già avviato dalle Nazioni Unite e le trattative che si stanno portando a termine tra il Fronte Polisario ed il Marocco per dare una soluzione al conflitto generato dall'occupazione del Sahara Occidentale.

Il Marocco si è accorto che questo processo non segue la strada desiderata, ma si indirizza verso il diritto del popolo saharaui all'autodeterminazione, con il riconoscimento della comunità internazionale.

L'altro motivo è che il Marocco si sta rendendo conto dell'attaccamento dei saharaui al loro legittimo diritto alla libertà e all'indipendenza. Questo si sta diffondendo nella popolazione e le nuove generazioni che stanno tenendo alta la loro bandiera in tutto il Sahara.

Quante persone calcola che stiano subendo direttamente questa repressione?

Ci sono più di 40 prigionieri politici saharaui nelle prigioni marocchine. Di questi, dieci sono difensori dei diritti umani, persone che semplicemente si battono per i diritti umani, come i sette rapiti l’8 ottobre all’aeroporto di Casablanca al loro ritorno dagli accampamenti dei rifugiati di Tinduf. Uno di questi rapiti è il vicepresidente della mia organizzazione, Alí Salem Tamek. Ci sono prigionieri politici sparsi in tutte le prigioni, compreso il Carcere Nero di El Aaiún.

Quella del Carcere Nero è una situazione molto dura in cui da un mese alcuni stanno facendo lo sciopero della fame.

Inoltre ci sono i 500 saharaui scomparsi dal 1974 ed altri 15 giovani scomparsi dal 2005. Un esempio lampante della repressione è quello che è successo alla sorella di uno dei compagni rapiti a Casablanca che solo per il fatto di essere andata a trovarlo, ora è in quella prigione da due mesi. Semplicemente per aver cercato di fare visita a suo fratello.

Come sta reagendo la comunità internazionale? Dà il proprio sostegno e supporto?

C'è una importante reazione di condanna, soprattutto dopo il sequestro dei sette attivisti difensori dei diritti umani. L'hanno denunciato Amnesty International, il centro Robert Kennedy, Human Rights Watcht o governi come quelli della Gran Bretagna, Svezia, Irlanda ed altri paesi.

E come vede la posizione della Spagna?

Con molto rammarico dobbiamo dire che il governo spagnolo rimane spettatore. Perfino sul tema della violazione dei diritti umani non abbiamo visto reazioni di alcun tipo, malgrado noi sperassimo e pensassimo che avrebbe dovuto essere il primo a reagire, perché gli scomparsi e gli imprigionati sono proprio spagnoli, figli o nipoti di spagnoli. Senza tener conto della responsabilità politica, storica e giuridica rispetto ad un territorio che fu una sua provincia.

Perché i partiti e le associazioni del Marocco non denunciano questa situazione?

C'è un partito marocchino, Via Democrática, che ha condannato duramente la repressione. Anche l'Associazione per i Diritti umani del Marocco ha chiesto la libertà incondizionata dei sette.

Gli USA hanno mediato in questo conflitto con poco successo. Crede che l'arrivo di Obama alla presidenza possa dare una svolta?

Nel discorso del signor Obama si notano i suoi desideri di cercare la pace e la stabilità nel mondo. Spero che il premio Nobel che gli hanno dato, lo porti anche a pensare e ad agire per una soluzione giusta e definitiva al conflitto. Il Fronte Polisario, di volta in volta mette in guardia e minaccia di ritornare alla lotta armata.

C’è questa possibilità o si è già scartata l'opzione della lotta armata?

Io sostengo i diritti umani nelle zone occupate, quello che mi domanda è una decisione che spetta al Fronte Polisario. Tutte le mie energie vanno verso la pace e la mia speranza è che regni la pace e che ciò non si trasformi in guerra. Ma desidero anche che la comunità internazionale cerchi una soluzione rapida e giusta per evitare che il Fronte Polisario possa prendere la decisione definitiva di ritornare alle armi. C'è una cosa che dal mio punto di vista è un'aberrazione ed è che la missione dell'ONU nel Sahara, la Minurso, è l'unica missione di pace nel mondo che non contempla la difesa dei diritti umani nel territorio sul quale agisce.

Teme di essere oggetto di rappresaglia quando ritornerà la prossima settimana nel Sahara, dopo questo periodo passato negli USA e nelle Canarie denunciando la violazione dei diritti umani?

Non ho paura, ma sono quasi sicura di due possibilità: una, che possano sequestrarmi all’aeroporto, come hanno fatto coi miei sette compagni. L’altra che mi requisiscano tutti i documenti affinché io non possa più uscire dal Sahara. Una di queste due cose accadrà. Sì, temo che subirò la repressione del Marocco, quando tornerò nel Sahara.


Femminicidi: a Ciudad Juárez non si muore per caso


di Chiara Calzolaio

A Ciudad Juárez non si muore per caso. Questo il primo, atroce, pensiero che passa per la testa a chiunque abbia conosciuto un po’ da vicino la realtà della città alla frontiera tra Messico e Stati Uniti.

A una settimana dall’omicidio di Jesús Alfredo Portillo Santos, ventisettenne studente di disegno grafico all’Università Autonoma di Ciudad Juárez, attivista, genero di Marisela Ortiz Rivera, militante di una delle associazioni più conosciute al mondo di familiari di vittime dei femminicidi di Ciudad Juárez, Nuestras Hijas de Regreso a Casa, sento l’urgenza di tracciare dei fili, di sottoporre ad una riflessione comune alcune questioni e dire che la verità ufficiale non mi convince.

Il 29 novembre scorso Jesús Alfredo Portillo Santos è stato ammazzato da un commando di sicari mentre si dirigeva ad un negozio di quartiere, non lontano da dove viveva. I giornali locali riportano la dinamica dei fatti: due giovani che stavano scappando da un commando si sono rifugiati in un alimentari, i sicari hanno sparato provocando la morte dei due ragazzi ma anche di Jesús Alfredo e di un altro passante. Loro, e centinaia di altri uomini e donne finiti negli ultimi due anni sotto il fuoco della guerra tra e contro il narcotraffico, sono “vittime dell’insicurezza”, di quell’aumento esponenziale di violenze e criminalità che la città ha vissuto dai primi mesi del 2008, quasi in coincidenza con l’arrivo dell’esercito a Ciudad Juárez.

Dello stesso parere il rettore dell’Università Autonoma di Ciudad Juárez che, in una conferenza stampa a poche ore dall’accaduto, ha rivolto un appello alle autorità perché risolvano i crimini e rendano giustizia a chi, come Alfredo, “si è trovato nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato”. Dal dicembre 2008, otto tra studenti e professori della sua istituzione sono stati uccisi, senza dimenticare le due giovanissime studentesse (Lidia Ramos Mancha e Mónica Janeth Alanís Esparza, di 17 e 18 anni) che risultano ancora scomparse.

Sembra tutto chiaro. Semplice e atroce. In una città in cui tra gennaio e novembre 2009 sono state uccise 2300 persone, in cui gli omicidi in strade e luoghi pubblici sono quotidiani, in cui commandos armati hanno attaccato locali pubblici e centri di recupero per tossicodipendenti, bruciato negozi e attività, le “vittime collaterali”, il passante che muore per una “bala perdida”, per un proiettile vagante, sono drammaticamente frequenti.

Tutto questo è vero. Eppure c’è qualcosa che non torna. Tra queste “vittime collaterali” ci sono nomi come quelli di Gerardo González Guerrero, professore di psicologia, ammazzato nel dicembre 2008, e di Manuel Arroyo, professore di scienze sociali e fondatore della OPI, l’Organizzazione Popolare Indipendente, ucciso nel maggio scorso, che sono ben conosciuti tra i movimenti sociali che fervono, malgrado tutto, in una città che da lontano sembra solo violenza. E c’è anche Armando Rodríguez, giornalista del maggiore quotidiano locale, El Diario, ucciso dopo anni di minacce nel novembre 2008, per il suo lavoro scomodo e pericoloso: fare informazione onesta sui temi del crimine organizzato, dei femminicidi, della militarizzazione della città e delle violenze ad essa connesse.

E il pensiero che a Ciudad Juárez non si muore per caso fa capolino. Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se sei attivista e se tu e i tuoi familiari avete ricevuto minacce. Marisela Ortíz vive sotto scorta da anni. Ma Nakar, sua figlia, e Jesús Alfredo, che era il compagno di vita e di lotte di Nakar, no.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se il giorno prima dell’omicidio di Jesús Alfredo è stata rapita, stuprata e ammazzata Flor Alicia Gómez López, nipote di due attivisti di Chihuahua (capitale dell’omonimo stato di cui fa parte anche Ciudad Juárez), Eduardo Gómez e Alma Gómez Caballero, di un’altra importante ONG per la difesa dei diritti delle donne, impegnata da anni per avere giustizia per i femminicidi con Justicia para Nuestras Hijas.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, tanto più se la stragrande maggioranza di questi crimini sono ancora oggi impuniti, dall’omicidio di Armando Rodríguez ai più di 500 femminicidi, dai migliaia di morti ammazzati nella guerra tra e contro il narcotraffico al femminicidio di Flor Alicia, che aveva 23 anni e lavorava in una piccola scuola materna nella selva di Temochi, nello stato di Guerrero.

È quello che denunciano da tempo le organizzazioni civili di Ciudad Juárez. È quello che gridavano gli studenti e i professori scesi in piazza dopo l’omicidio di Manuel Arroyo (nella foto). È quello che sostiene oggi María de la Luz Estrada, direttrice dell’ Osservatorio Cittadino Nazionale del Femminicidio. L’assassinio di Flor Alicia e di Jesús Alfredo, di Manuel Arroyo e di Armando Rodríguez, sono atti intimidatori. Farli passare come crimini legati all’insicurezza e alla violenza diffusa, leggerli separatamente l’uno dall’altro senza riconoscere il filo rosso che li lega significa impedirsi di riconoscere e denunciare quel processo di criminalizzazione della protesta sociale che è in corso da anni. Significa non avere più gli strumenti per comprendere le lotte e le repressioni che agitano il Messico sotto la coltre mortifera della guerra tra e contro il narcotraffico.

Non ho avuto la possibilità, o forse il coraggio, di chiamare Marisela e Nakar. Quando ci siamo salutate prima del mio ritorno in Italia, nel novembre 2008, Nakar e Jesús Alfredo si stavano per sposare. Dovevano scegliere il luogo per la loro festa, un giardino accogliente per i colorati e allegri balli messicani. Con che parole, un anno dopo, dall’altra parte dell’oceano, si può anche solo sfiorare un dolore che non riesco neanche a immaginare?

Forse, per quanto poco questo possa significare, condividendo spunti per un’informazione che si spinga al di là del senso comune.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!