mercoledì 2 marzo 2011

Libia - Dall’alba della Pace alla notte della Guerra. In Italia migranti nei campi di confinamento

Libiadi Fulvio Vassallo Paleologo

21 / 3 / 2011
Gli attacchi delle forze della coalizione internazionale che stanno martellando tutta la Libia rischiano di produrre effetti diversi da quelli auspicati nella Risoluzione n.1973 delle Nazioni Unite, nella quale si stabiliva “un divieto su tutti i voli nello spazio aereo della Jamahiriya araba” al fine di proteggere i civili, perseguendosi dunque l’interesse di salvaguardare le popolazioni vittime dei “crimini contro l’umanità” commessi da Gheddafi e dalle sue forze, tra le quali un numero crescente di mercenari. Anche il Consiglio della Lega degli Stati arabi del 12 marzo 2011 aveva chiesto “l’istituzione di una zona di non volo sull’aviazione militare libica e di stabilire aree sicure in luoghi esposti al bombardamento come misura precauzionale che permette la protezione del popolo libico e cittadini stranieri che risiedono nella Giamahiria araba libica”.
Si corre adesso il rischio che l’intervento militare, assai tardivo, dopo settimane di divisioni causate dai divergenti interessi politici ed economici delle grandi potenze mondiali, non riesca a fermare i massacri delle truppe di Gheddafi già penetrate nelle città ribelli e adesso all’assalto di Bengasi e Misurata.
D’altra parte il massiccio attacco aereo su Tripoli, addirittura per colpire direttamente Gheddafi, sembra addirittura ingenuo, se non del tutto sconsiderato, perché legittima nuovamente il dittatore agli occhi del proprio popolo e di quegli stati africani che per lungo tempo lo hanno mantenuto alla presidenza dell’Unione Africana. Se le truppe, i velivoli e i carri armati di Gheddafi, andavano fermati e tenuti fuori dalla città, e se la zona di divieto di volo avrebbe dovuto essere imposta da settimane, il lancio di missili Tomahawk e Cruise verso Tripoli, con il prevedibile contorno di scudi umani e di vittime civili, rischia di delegittimare i ribelli e di consegnare l’intera regione ad una condizione di instabilità politica e militare che potrebbe mettere a rischio l’autodeterminazione dei popoli ed i processi democratici appena avviati in Tunisia ed in Egitto.
Occorre quindi che il Consiglio di Sicurezza ritorni ad esaminare con urgenza la situazione in Libia, e definisca in modo rigoroso il mandato delle forze militari della coalizione che devono intervenire per mettere in sicurezza le popolazioni civili delle città assediate dalle forze di Gheddafi. Infatti nella Risoluzione n.1973 si legge chiaramente che il Consiglio autorizza gli Stati membri che ne avevano fatto richiesta “a prendere tutte le misure necessarie, in deroga paragrafo 9 della risoluzione 1970 (2011), per proteggere i civili e aree popolate civili sotto la minaccia di un attacco in Giamahiria araba libica, tra cui Bengasi, pur escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma, su qualsiasi parte del territorio libico”. Misure necessarie anche “per far rispettare la conformità con il divieto di voli”, che sarebbero state poi sottoposte al controllo ed al riesame da parte dello stesso Consiglio di Sicurezza. I bombardamenti massicci su Tripoli, e non soltanto su installazioni militari o convogli di carri armati, rischiano di stravolgere il senso di quella risoluzione e di mettere la pietra tombale sulle speranze di rivoluzione civile che, come in tutti i paesi arabi, anche in Libia sembrava potersi affermare.
In questo quadro il ruolo giocato dall’Italia è risultato prima troppo vicino all’alleato Gheddafi, che non andava “disturbato” nella soluzione delle sue questioni interne, poi -anche troppo rapidamente- Berlusconi e il governo, con la rottura eclatante della Lega, si è allineato alle posizioni più aggressive delle potenze occidentali, addirittura fino al punto da configurare, nelle dichiarazioni del ministro della difesa La Russa, la possibilità di un intervento militare diretto. Varie ragioni avrebbero invece consigliato maggiore prudenza, anche nella concessione delle basi, sia per la collocazione geografica dell’Italia, che per i preesistenti rapporti con Gheddafi, con diversi accordi dal 2004 al 2009, contro i quali in Italia si sono battute sparute forze, e che oggi in tanti fanno finta di ignorare o di considerare carta straccia, salvo a ripescarne le parti che riguardano l’immigrazione, auspicando, comunque vada a finire, la ripresa dei respingimenti collettivi dei migranti verso la Libia.
Nel “Trattato di amicizia” firmato nel 2008 da Gheddafi e Berlusconi si prevedeva che “Le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite. Ed all’art. 4 si aggiungeva il principio di “non ingerenza negli affari interni”, con le previsioni che:
1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.
Il trattato è stato solo “sospeso” e non “denunciato” dall’Italia, come si sarebbe dovuto fare da anni, per i gravissimi abusi commessi dai libici ai danni dei migranti e degli oppositori politici. Nel quadro della Risoluzione dell’ONU n.1973, e della sua prima attuazione, l’atteggiamento interventista e bellicista del governo italiano, dopo i ritardi iniziali, rischia adesso di aggiungere altri danni sul piano internazionale. Ed è singolare come negli ultimi tempi siano state proprio l’Italia e la Francia i principali fornitori di armamenti in favore della Libia. Per queste ragioni l’Italia avrebbe fatto bene a mantenersi al di fuori dell’intervento militare deciso dalle Nazioni Unite, senza concedere le basi militari “a scatola chiusa”.
Nel frattempo, sul piano interno, le scelte del governo italiano, tra allarmi di “invasioni bibliche” e tentativi di nascondere l’inconsistenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, hanno reso insostenibile la situazione a Lampedusa, e stanno dimostrando come, di fronte ad una emergenza umanitaria, ancora una volta il governo Berlusconi sia capace soltanto di inviare reparti militari in missione di ordine pubblico e trattare la materia dei cd. sbarchi, in realtà salvataggi in alto mare, con i consunti strumenti della “lotta all’immigrazione clandestina”. Insomma una accoglienza dietro le sbarre o sotto la sorveglianza di pattuglioni di polizia in assetto antisommossa.
Occorre che il governo adotti al più presto un provvedimento che stabilisca la possibilità di rilasciare permessi di soggiorno per motivi umanitari o per protezione temporanea ex art. 20 del D.Lgs 286/98, nei confronti di coloro che stanno arrivando dalla Tunisia e che potrebbero presto arrivare anche dalla Libia. I migranti rinchiusi a Lampedusa devono essere evacuati con un ponte aereo e la loro accoglienza va praticata in tutte le regioni italiane, senza “campi di raccolta” come si annuncia quello di Mineo.
Le scelte del governo in materia di politica internazionale, e le modalità meramente repressive di “gestione” di un emergenza sbarchi, creata ad arte con il concentramento di diverse migliaia di profughi in luoghi simbolo come Lampedusa e Mineo, ormai sulla linea di un confine di guerra, stanno dimostrano come l’Italia sia governata da politici che badano solo al proprio vantaggio elettorale ed alla difesa di tutte le zone più ricche e di tutte le sacche di privilegio. Anche a costo di scatenare una “guerra tra poveri”, tra i migranti e le popolazioni delle aree più deboli del paese. Contro questa classe di governo, che si avvantaggia di una opposizione parlamentare sempre più debole, occorre costruire giorno per giorno nuove reti di solidarietà dal basso, aprire nuovi canali di comunicazione autogestiti e costruire soggetti politici che siano capaci di aggregare sui territori tutte le forze dell’opposizione sociale

Odissey Dawn

Odissey Dawndi Augusto Illuminati

21 / 3 / 2011
Il piccolo Satana Gheddafi, falliti incoraggiamenti e aiuti a Ben Ali e alla sua sciampista, si è dedicato con zelo feroce a soffocare la propria rivolta interna. La coalizione occidentale-saudita (Lega Araba ma non Unione Africana), il grande Satana, cerca ora di schiacciare o deformare l’intero e inarrestabile movimento che percorre tutto il Medio Oriente e il Nord Africa e lo fa proprio nel momento in cui la catastrofe giapponese segna i limiti del nucleare e rende preziose le risorse di gas e petrolio. Una nuova guerra coloniale (francese e inglesi, insieme ai sauditi, in primo piano, americani più defilati) è perfetta per cercare di riguadagnare il controllo, calmierare il gas russo, tener lontani dall’Africa i cinesi, svalorizzare energie alternative e biogas. Con il che abbiamo anche spiegato le riserve sull’intervento di Russia, Cina, Germania e Brasile. E l’Italia? Cornuta e mazziata, compromessa prima con Gheddafi e troppo tardi con i ribelli cirenaici, rischia di perdere tutti i vantaggi del passato collaborazionismo e di subire in prima linea l’impatto dei migranti, per esorcizzare il quale si era addivenuti ai più vergognosi accordi con il raìs di Tripoli. Non basteranno 8 miseri Tornado per risalire la china. Che poi il keynesismo militare (cioè la distruzione bellica in funzione anticiclica) sia uno strumento tradizionale per dilazionare la crisi economica è un vecchio espediente. Andiamo con ordine e ignorando i finti dilemmi in cui si macera la sinistra, al riparo della risoluzione 1973 Onu e di Napolitano, che sta surrogando un governo lacerato e ansimante. Ancor più trascurando i (n)eurodeliri di Repubblica che sogna una rivincita della Ue sul bushismo.
Non per teorizzare corsi e ricorsi storici, ma anche il primo cinquantenario dell’Unità d’Italia, marzo 1911, saldò la sua retorica celebrativa al fervore patriottico che accompagnò l’impresa libica dell’ottobre 1911. Lo sventolìo tricolore bi-partisan del 17 marzo sta sfociando in analoghe tentazioni, con il controcanto rissoso e provinciale di una Lega timorosa soltanto del prevedibile afflusso di nuovi disperati e asilanti sulle nostre coste. La Russa e Casini sembrano, in questo inopportuno centenario coloniale, la parodia dei concordanti impulsi nazionalisti e cattolici degli inizi Novecento, mentre purtroppo alla logica di conquista della Banca di Roma corrisponde oggi a rovescio il rischio di estromissione dal gioco di Unicredit, Finmeccanica ed Eni, compromessi con Gheddafi e scalzati dal vivace interventismo anglo-francese (ovvero di altri poli finanziari, della Total e di BP).
Anche lo scenario più ravvicinato suggerisce evidenti analogie. Il meccanismo è sempre quello: un tiranno (dalle origini rivoluzionarie) che controlla un’area strategica rilevante e risulta un ostacolo alle pretese economiche e geopolitiche occidentali e del blocco più conservatore dei paesi arabi (a guida saudita). Ieri Saddam, oggi Gheddafi. Per certi versi funzionò così per l’ex-comunista poi nazionalista serbo assatanato Milosevic in Jugoslavia. Si trae partito da odiose pratiche oppressive (i Kurdi, la Cirenaica, il Kosovo) e si esporta la democrazia bombardando e frammentando il paese. In tutti questi casi l’opposizione all’intervento egemonico “umanitario” ha dovuto prescindere da qualsiasi simpatia per una vittima politica, indifendibile –contro Gheddafi, anzi, i movimenti si erano scagliati quando era ben in auge alla corte di Berlusconi (o Berlusconi alla sua). Aggiungiamo qui che, se nella vicenda italiana il servilismo del Papi nazionale era particolarmente osceno (essendo il raìs libico il suggeritore del copione bunga bunga), non dimentichiamo che i “nobili” Blair e Sarkozy erano altrettanto ammanigliati e il secondo pare avesse pure ricevuto sostanziosi contributi elettorali. Che poi l’invio dei Mirages serva a rilanciare la campagna elettorale francese per il 2012 è di tutta evidenza, complementare alla sostituzione della filo-benalista Alliot-Marie con il rodato e bellicista Juppé e al recupero degli “umanitari” Kouchner e Bernard Henry-Lévy.
Come valutare allora questa guerra e il complesso degli effetti che scatena? E perché, a parte gli scontati temporeggiamenti dell’Onu, si è deciso di scatenarla con tanto ritardo rispetto al momenti in cui è apparso chiaro che la vicenda libica non seguiva lo stesso percorso di Tunisia ed Egitto, ma si invischiava in un conflitto tribale con palesi prospettive di separatismo territoriale (e pur minime tracce di fondamentalismo senussita)? La decisione di intervenire all’ultimo minuto, ammanettando quindi gli insorti sconfitti alla causa occidentale e saudita, è stato probabilmente dettata da due ordini di fattori: la presa d’atto, dopo il collasso delle centrali atomiche giapponesi, delle buie prospettive di una politica energetica nucleare, che ha rivalutato in automatico l’importanza del controllo sulle risorse di gas e petrolio, la paura per il diffondersi dei tumulti in tutto il mondo arabo, in particolare nello Yemen e ai margini dell’Arabia saudita (Bahrein, Oman), tanto più insidioso in quanto spesso sotto il segno di una rivolta sciita sostenuta dall’Iran. I bombardamenti sulla Libia suonano anche da ammonimento a Teheran e sono una boccata d’ossigeno per Israele. Che poi la no-fly zone sarebbe opportuna anche per Gaza e che bisognerebbe arrestare l’invasione saudita in Bahrein o le stragi nello Yemen resta, in termini geopolitici, un mero auspicio, ma pur sempre un’efficace replica al moralismo con cui la stampa italiana condisce la brutalità della guerra.
Il tardivo e ondivago sostegno italiano alla guerra (dall’iniziale «non disturbiamo Gheddafi» del compagno di merende Berlusconi e del suo Leporello Frattini alla successiva offerta delle soli basi agli ardori bombaroli del maestro di sci che ci ritroviamo agli Esteri e di La Russa per l’occasione in sahariana) rientrerebbe nella peggior tradizione nostrana del cambiar casacca, se non rivelasse alcune contraddizioni significative. La più vistosa è quella del rapporto fra Pdl e Lega; quest’ultima si è dissociata con argomentazioni demagogiche e odiose (ci rubano il petrolio –cosa vera– e ci riempiono di immigrati che il resto d’Europa non vuole prendersi), ma si è dissociata. Scegliendo, contro Inghilterra e Francia, una linea “tedesca”. Badate bene, non solo privilegiando un principio di precauzione sull’intervento, ma aderendo alla scelta di fondo della Merkel sulle energie alternative. La retromarcia di Tremonti sul nucleare è nettissima: se puntiamo sul sole e sul vento, è insensato combattere per il controllo del petrolio e ci risparmiamo le spese per lo smantellamento delle centrali atomiche e lo smaltimento delle scorie, correggendo così i confronti internazionali sui deficit e sui Pil. Per un Berlusconi sempre più inviso agli Usa e ormai aggrappato solo al “neutrale” Putin non è un bel segnale, sebbene il chiasso giapponese e libico e il clima emergenziale di guerra possano servire nel breve periodo a distrarre gli italiani dagli scandali di Arcore e dai processi. Sull’interventismo “legale” della sinistra sarebbe carità tacere, se non per rimarcare come il suo tardivo patriottismo “costituzionale” (ma l’art. 11?) torni a gravitare sull’asse anglo-americano più che tedesco –a differenza dalla guerre balcaniche– e non prometta alcuna unità interna del Pd. In realtà chi più si avvantaggia dell’eclettico consenso bi-partisan a doppia colonna sonora (Mameli e Nabucco) è il centro di Fini e Casini. Corsi e ricorsi storici, ancora: la guerra di Libia del 1911-12 fece confluire cattolici e nazionalisti e indusse Giolitti al patto Gentiloni per strappare un parziale consenso agli elettori cattolici...Ironie sempre della signora storia: allora il Banco di Roma, da lunga pezza colluso con il corrotto Giolitti, promosse la conquista della Libia, oggi, confluito in Unicredit, vede una bella presenza di capitale libico (e personale del clan Gheddafi) che orienterà le scelte future del governo...
Che fare? Lasciamo alle anime belle l’illusione che si tratti di un intervento mirato e di breve periodo. Questa è solo l’alba di una lunga Odissea. Occorrerò una mobilitazione antagonista di ampio respiro. Il no alla guerra coloniale e il sostegno agli insorgenti di Benghazi, Sana’a e del Bahrein, ai moti di Algeria e Marocco, agli oppressi in Palestina e alle contraddizioni tuttora aperte in Egitto e Tunisia, devono entrare organicamente nel discorso sullo sciopero generale del 6 maggio e sui referendum di giugno, così come una drastica revisione della politica delle quote e dei permessi di soggiorno, la più solidale accoglienza ai migranti (altro che blocco di Lampedusa, Cie e terrorismo leghista!), la definizione giuridica del diritto d’asilo e il blocco della deportazione degli asilanti nel villaggio di Mineo nonché un’effettiva estensione della cittadinanza secondo il diritto del suolo devono costituire parte integrante di una politica alternativa al governo attuale e a quelli futuri di centro-destra. Questi sono i contenuti del nostro tumulto, della risposta della costa nord a quanto avviene sulla costa sud-est del Mediterraneo. La cooperazione delle lotte contro l’intervento degli aerei e delle cannoniere, un modello moltitudinario contro la velleitaria riproposizione di logiche sovrane e coloniali, una via di uscita dalla crisi che non sia la spesa militare a perdere e il controllo delle fonti di energia.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!