Suscita da tempo grande interesse il percorso teorico che ha cambiato in profondità il pensiero di Abdullah Öcalan, il leader storico del Pkk, detenuto in una condizione di isolamento disumano dal 1999 nell’isola-carcere turca di Imrali. Se è vero che la paranoica privazione di ogni diritto umano nei confronti del dirigente curdo è via via divenuta in Turchia l’ispirazione di un modello di repressione sempre più nefasto e generalizzato, è altrettanto vero che l’influenza dell’elaborazione di Öcalan ha paradossalmente conosciuto un allargamento, soprattutto nei movimenti antisistemici, ben più vasto di quello per decenni riservato all’ispirazione nazionalista per il suo popolo. L’articolo di Raúl Zibechi ne è un buon esempio, soprattutto per quel riguarda l’analisi economicistica del capitalismo, le riflessioni sullo Stato e il potere e l’impossibilità di sconfiggere il sistema con le stesse armi del nemico, sebbene poi ogni generazione debba scoprire le sue verità sulla base della propria esperienza
di Raúl Zibechi
La frase appartiene al leader curdo Abdullah Öcalan, tratta dal secondo volume del Manifesto per la Civilizzazione Democratica, che ha come sottotitolo “La Civilizzazione Capitalista. L’era degli dei senza maschera e dei re nudi”. L’opera, la cui traduzione in spagnolo vedrà la luce in questi giorni, costituisce parte della difesa del leader curdo, detenuto sull’isola Imrali, nel Mar Nero, in Turchia. Il pensiero di Öcalan è indomito: non si sottomette a gerarchie prestabilite né accetta dogmi universali. È il tipo di pensiero di cui abbiamo bisogno in questo periodo di caos sistemico, poiché le idee ereditate si stanno dimostrando di scarsa utilità per orientarci nella tempesta.
Del suo recente libro vorrei sottolineare tre aspetti, anche se non sono sufficienti a compendiare l’insieme dei contributi dell’opera. Il primo è la sua critica frontale all’economicismo, una delle peggiori piaghe intellettuali che stanno infestando i movimenti anticapitalisti. Questo capitolo inizia con una potente analisi sulla proposta evoluzionista che difende “la nascita del capitalismo come naturale risultato dello sviluppo economico”. Come si sa, coloro che sostengono questa tesi ritengono anche che la fine del capitalismo sarà prodotta dalla stessa evoluzione dell’economia che lo ha fatto nascere. Al contrario, Öcalan afferma che il capitalismo è figlio di una tradizione molto antica, che si regge sul potere militare e politico per usurpare i valori sociali, fino a trasformarsi, nel XVI secolo, nella formazione sociale dominante in Europa. Tra i valori sociali usurpati, sottolinea quello della “donna-madre da parte dell’uomo-forte e del gruppo di banditi e ladri che lo accompagnano”.
Criticare l’economicismo, comporta, sulla stessa linea, la critica dell’evoluzionismo, sia lineare che per salti. Una semplice affermazione getta luce su questo tema: “Nelle guerre coloniali, dove si è realizzata l’accumulazione originaria, non c’erano regole economiche.” Öcalan guarda da una prospettiva che si pone contro l’economia politica, che considera come “la teoria più mistificatrice” che “è stata creata al fine di coprire il carattere speculativo del capitalismo”. In tutta la sua opera, ma in particolare nelle sezioni sul capitalismo, si poggia su Fernand Braudel, con cui concorda nel sottolineare che è la negazione del mercato attraverso la regolamentazione dei prezzi che impone i monopoli. In merito a questo, appare il secondo punto da sottolineare, quando sostiene che il capitalismo non si identifica con la produzione né con la crescita economica, perché non è economia. “Il capitalismo è potere, non economia”, assicura Öcalan. È evidente che esiste un’economia capitalista, ma il sistema capitalista è un monopolio del potere che si impone dal di fuori dell’economia, secondo quanto sostiene in questo capitolo chiarificatore. Il capitalismo usa l’economia, però è il potere, la forza concentrata, ciò che permette di confiscare il plusvalore e il surplus.
Di conseguenza, il leader curdo ritiene che l’opera principale di Marx, Il Capitale, “funziona come un nuovo totem che non è più utile per i lavoratori”, poiché delimita il capitalismo al campo delle “leggi” dell’economia, un punto condiviso da molto tempo da tutti i riformismi. Il terzo aspetto che mi sembra importante è il fatto di considerare lo Stato-nazione come la forma di potere propria della civilizzazione capitalista. Una breve parentesi: Öcalan dice “civilizzazione” capitalista perché la considera nella sua integralità, includendo tutte le variabili articolate, dall’economia e la cultura fino alla geopolitica e la società. Di conseguenza, dice che la lotta anti-statale è più importante che la lotta di classe; e questo è una specie di pugno in faccia per chi di noi si è formato su Marx. Per questa ragione, afferma che è più rivoluzionario il lavoratore che resiste all’essere proletario, che lotta contro lo status di lavoratore, perché “questa lotta sarebbe socialmente più significativa ed etica”.
Nelle pagine finali di questo volume, afferma che “in realtà i conflitti sorgono tra gruppi sociali; tra la società statale e le società democratiche”. In breve, lo Stato è uno dei nodi da sciogliere, non lo spazio di arrivo della lotta sociale.
Va oltre. Öcalan sostiene che Stato e potere sono cose diverse, che “il potere contiene lo Stato, ma è molto più che lo Stato”. Su questo punto avverte che il pensiero antisistemico ha la necessità di investigare a fondo le forme dello Stato e in particolare lo Stato-nazione, questioni che Marx non ha potuto o non ha voluto affrontare. Respinge la presa dello Stato perché corrompe i rivoluzionari e pensa che la crisi del movimento antisistemico non può essere separata dall’opzione statale. Respinge anche il concetto di egemonia. “L’essenza della civilizzazione statale -scrive – è l’egemonia sulla società”. Però l’egemonia implica il potere e questo presuppone dominio, “che non può esistere senza l’uso della forza”.
Va oltre. Öcalan sostiene che Stato e potere sono cose diverse, che “il potere contiene lo Stato, ma è molto più che lo Stato”. Su questo punto avverte che il pensiero antisistemico ha la necessità di investigare a fondo le forme dello Stato e in particolare lo Stato-nazione, questioni che Marx non ha potuto o non ha voluto affrontare. Respinge la presa dello Stato perché corrompe i rivoluzionari e pensa che la crisi del movimento antisistemico non può essere separata dall’opzione statale. Respinge anche il concetto di egemonia. “L’essenza della civilizzazione statale -scrive – è l’egemonia sulla società”. Però l’egemonia implica il potere e questo presuppone dominio, “che non può esistere senza l’uso della forza”.
È molto interessante che giunga a questa conclusione in netta opposizione a pensatori come Gramsci, [concetto ] recuperato da una sfilza di intellettuali progressisti che fanno equilibrismi teorici per separare potere e dominio. I monopoli del potere (Stati), così come i monopoli economici (privati e statali) si impongono sulla società e la soffocano. Per questo bisogna allontanarsi da queste forme di relazione sociale. Nelle Conclusioni Öcalan scrive: “Alla fine si è capito che detenere il potere era quanto di più reazionario ci fosse nel capitalismo, contro l’uguaglianza, la libertà e la democrazia, ma già si era prodotta un’importante battuta d’arresto, era la stessa ossessione storica per il potere di cui aveva sofferto il cristianesimo”. Un pensiero critico, anticapitalista, anti-statale e anti-patriarcale centrato sul Medio Oriente, formulato dalla resistenza a suoi potenti nemici.
È impossibile vincere con le armi del nemico, ci dice Öcalan. Tuttavia, questa semplice convinzione non può essere accettata, semplicemente, come verità rivelata: ogni generazione dovrà scoprire le sue verità sulla base della propria esperienza. Per doloroso che sia.
Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo El capitalismo es poder, no economía
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo