Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono
eterne. A Cochabamba, quasi vent’anni dopo la rivolta che ha insegnato a
difendere la proprietà collettiva dell’acqua al mondo intero, l’accesso
alla fonte primaria della vita è tornato a essere non un diritto ma un
privilegio per pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Ci sono i
planes maestros ma, racconta Oscar Olivera, sono stati
progettati da tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la
Bechtel nel Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta
per conto dello Stato boliviano. La sola via resta auto-organizzarsi.
Non si tratta di un’opzione necessariamente “minoritaria”: in undici
paesi dell’América Latina sono stati censiti oltre 50 mila sistemi
comunitari, molto diversi tra loro, che provvedono all’accesso per oltre
30 milioni di persone. L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci
del passato che parlano al futuro, è la prima materia di cui abbiamo
bisogno, per fortuna la più abbondante che c’è nel pianeta, una materia
viva che possiamo desiderare ma non possedere. E men che mai vendere.
L’acqua è la comunità, la vita insieme
di Marco Calabria
Tu hai la sorte
di portare l’aquilone del mattino
alla terra dei pesci
e alla guerra degli uomini.
Ti prego
acqua benedetta ombra di nuvole
anche se l’avido secolo ti fa infuriare
corri leggera sulla mia mano
non farmi mai naufragare.
(Roberto Roversi)
Ci sono voci del passato che parlano al futuro, ha scritto una volta
Eduardo Galeano a proposito della prima grande rivolta contro le
multinazionali del terzo millennio. Nelle
migliaia di occasioni in cui gli è stato chiesto di raccontarla, Oscar
Olivera, il più noto dei portavoce di quella rivolta, la Guerra
dell’Acqua dell’anno Duemila, non ha mai trascurato di precisare quale
fosse il più potente dei nemici che la gente di Cochabamba aveva dovuto
affrontare per vincere. Non erano le multinazionali cui
il governo boliviano del presidente-generale Hugo Banzer aveva affidato
per quarant’anni la gestione delle risorse idriche cittadine. E non
erano neanche il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o gli
squadroni dell’esercito. Il vero nemico da vincere era la paura.
La paura di ribellarsi, di finire schiacciati, di non poter essere
all’altezza di una battaglia che sembrava impensabile e che sarebbe
invece stata essenziale per il mondo intero.
Lo spazio e il tempo in cui si dispiegava, e dunque si rendeva visibile, quella ribellione è stato quello in cui un’intera
città, in quegli anni la terza della Bolivia, ha scoperto la sua
potenza, il potere di sconfiggere avversari talmente minacciosi che ci
voleva un bel coraggio anche solo per nominarli. Non
sarebbe accaduto, però, senza altri spazi e altri tempi, meno visibili
ma più lunghi e profondi, in cui affondavano le radici e le ragioni
della rivolta. Si tratta di quelli degli usos y costumbres
di una gestione comunitaria dell’acqua che esisteva da secoli e che c’è
ancora. Per comprenderne la portata e la natura, proviamo a fare un bel
salto in lungo, fino a un giorno di febbraio del 2017. Arriviamo alla Escuela 21 de Septiembre,
il giorno dell’equinozio di primavera nell’emisfero sud, che si trova a
soli quaranta minuti dalla piazza centrale di Cochabamba, il luogo più
simbolico delle battaglie di strada del Duemila. La campanella della
ricreazione è suonata ma, nella città che ha vinto una “guerra”, i bambini non hanno acqua per bere né per lavarsi.
Sono ben seicento figli e nipoti delle centinaia di migliaia di persone
che hanno lottato diciassette anni prima, quando – per garantire i
profitti del colosso statunitense Bechtel, dell’italiana Edison e della
spagnola Abengoa, – si voleva impedire alla gente perfino di raccogliere
l’acqua piovana.
Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono eterne. Eterna
semmai, in una città cresciuta in una valle andina che ha sete da
sempre, potrebbe essere la risonanza delle voci del passato di cui parlava Galeano, quando diventa lotta per difendere l’ispirazione e la sostanza della vittoria del Duemila.
È stato così che nel febbraio scorso un piccolo gruppo di persone ha
deciso di far da sé, recuperando la cultura che la “modernità” dei tubi,
dei rubinetti e del cloro avevano provato a cancellare. L’acqua è
infine arrivata alla scuola 21 de septiembre, è venuta dal
cielo e ha una gestione comunitaria. Per costruire in un solo mese, e
con le proprie mani, un sistema di raccolta dell’acqua piovana con due
cisterne della capacità di 52mila litri ciascuna, i papà e le mamme, i
maestri e le maestre – con l’aiuto generoso di qualche volontario, tra
cui lo stesso Olivera -, hanno utilizzato i tetti e il campo sportivo.
Hanno dovuto tener conto della media della piovosità, della topografia
della zona e dello spazio disponibile. Sono stati giorni di lavoro molto
duro ma anche di un ricco scambio di saperi, di profonda condivisione e
di allegria. Soprattutto quando, durante le pause tra le lezioni, i
bambini uscivano all’aperto e facevano un sacco di domande.
Da dove viene l’acqua?
A distanza di qualche mese, Oscar commenta quella piccola grande impresa così: «Vedi, magari sembrerà strano, ma io penso
che una delle cose più importanti sia proprio il fatto che i bambini e
gli insegnanti non hanno fatto ricorso ad alcun ente dello Stato.
Dalle istituzioni, forse un giorno sarebbe anche potuta arrivare
dell’acqua ma i ragazzini non avrebbero mai potuto conoscerne la
provenienza». Sta tutta qui la diversità della relazione
con le risorse naturali di certe cosmovisioni in cui ci si può ancora
imbattere con frequenza, in particolar modo tra gli indigeni, nel
continente sudamericano. A Napoli o a Los Angeles, difficilmente si
darebbe un qualche rilievo al fatto di sapere da dove arriva l’acqua. Va
da sé che la tentazione di considerarla una merce trova terreno fertile
e meno resistenza. Abbiamo chiesto a Oscar chi è che oggi provvede a
far funzionare le cose. «Della raccolta dalle cisterne e della
distribuzione si occupa la custode della scuola, è molto facile farlo»,
ha detto. Con i suoi compagni, sta ancora istruendo la custode stessa e
alcuni dei genitori sui piccoli lavori di manutenzione ma, «appena
possibile, dobbiamo fare un corso anche con i bambini. Hanno tra i
quattro e i dodici anni, devono poter cominciare a comprendere la
visione andina dell’acqua, il suo essere un bene comune, il valore della
reciprocità. Dobbiamo restituire loro non solo la possibilità di vivere
dell’acqua ma di conviverci», precisa.
La mancanza dell’acqua alla scuola del quartiere Sivingani non è
naturalmente un fatto isolato. A Cochabamba, quasi settecentomila
abitanti, secondo stime del 2012, l’accesso alla fonte primaria della
vita è tornato presto a essere non un diritto ma un privilegio per
pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Già nel 2009 si
rilevava che il Servizio municipale per l’acqua potabile e le fognature
(SEMAPA) distribuiva acqua potabile solo alla metà della popolazione (54
per cento), quasi tutta residente nel centro e nel nord della città,
dove vivono le persone più facoltose (Ledo, 2009). Gran parte della zona
sud e dell’area più periferica del Dipartimento, il conurbano, vengono
di fatto escluse quasi completamente dal servizio pubblico. Sono le aree
abitate dalla gente povera, assai poco appetibili per il business delle
costruzioni, quelle che subiscono anche i maggiori danni dai fenomeni
climatici estremi, siccità e inondazioni, che anche a Cochabamba si sono
intensificati in modo repentino negli ultimi anni. I pozzi si seccano,
l’acqua diventa insalubre. E servono soldi.
Gli abitanti devono arrangiarsi da soli o ricorrere ai camion, che
per lo più vendono acqua la cui qualità è molto dubbia a prezzi
elevatissimi. Un ottimo articolo di Lucia Linsalata, realizzato per la
campagna internazionale “Labradorxas de Agua”, lanciata nello scorso
aprile, fornisce dati di grande interesse. Segnala, ad esempio, che
nelle periferie urbane del sud di Cochabamba un metro cubo di acqua, né
di qualità elevata né igienicamente sicura, arriva a costare tre dollari
statunitensi. Nella zona nord, quella dove vive la classe cittadina
media e alta, una famiglia che la riceve attraverso il Servizio
municipale la paga sei volte meno. La gente del nord est, inoltre, paga
in media per l’acqua appena l’1 per cento delle sue entrate, quella
della zona sud il 10. Piuttosto sorprendente, no? Più si spende, meno acqua si ha: una
famiglia media della zona sud, composta di sette-otto persone, ha
accesso e consuma appena 120 litri di acqua al giorno, 30 in meno di
quanti ne usa una sola persona delle zone residenziali del nordest e
meno della metà del consumo medio pro capite in Italia: 245 litri al
giorno, nel 2017, secondo l’Istat.
Oscar Olivera
Lo Stato come la Bechtel
Possibile che le istituzioni, proprio in una città cui, quando si
parla di acqua, guarda tutto il mondo siano così latitanti? «Esistono i
cosiddetti planes maestros ma sono stati progettati da
tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la Bechtel nel
Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta per conto
dello Stato», è la risposta secca di Oscar. «La
giunta cittadina, attraverso SEMAPA, continua a ingannare la
popolazione con le promesse di un rifornimento che non arriva mai e le
tariffe non tengono in alcun conto il consumo delle famiglie»,
aggiunge. Ad aggravare la situazione, c’è il fatto che in questo
momento la giunta di Cochabamba è in mano alle forze politiche che si
oppongono al governo nazionale di Evo Morales. «C’è
un sabotaggio reciproco tra i partiti e, come sempre, a pagarne le
conseguenze è la gente che soffre la sete da sessanta anni», conclude con amarezza.
Essendo stati testimoni diretti, in un viaggio in Bolivia di molti
anni fa, della rottura dei rapporti con il presidente indigeno appena
eletto, quando Olivera, il più prestigioso degli esponenti della Coordinadora del agua y de la vida di Cochabamba,
fu uno dei pochissimi leader delle lotte a sottrarsi alla cooptazione
governativa, non possiamo esimerci dal chiedergli un aggiornamento del
giudizio sulle politiche per l’acqua del governo Morales. La risposta è
ancora durissima: «Il governo di
Evo è stato quasi ‘partorito’ dalla Guerra dell’Acqua. Se la nostra
ribellione popolare non avesse vinto contro le multinazionali, non credo
che Morales e il MAS sarebbero andati al governo nel 2006. Purtroppo,
abbiamo dovuto capire subito che avrebbe voltato le spalle alla gente,
per quel riguarda l’acqua, ignorando l’Agenda che
avevamo presentato alla fine del 2005. Questo governo ha abbandonato le
imprese pubbliche e i sistemi comunitari, l’acqua non arriva a pesare
nemmeno per il 2 per cento sul bilancio dello Stato. Tutto quel che si
sta facendo adesso è finanziato dalla cosiddetta “cooperazione
internazionale”, che dona sì milioni di euro e dollari ma i piani e le
soluzioni sono stabiliti solo dal governo e dalla burocrazia della
cooperazione. Non esiste alcuna possibilità di partecipazione della
popolazione all’elaborazione di quei piani».
Abbandonati dallo Stato, e
ripetutamente delusi dalle promesse di estensione della rete idrica
municipale da parte di SEMAPA, gli abitanti della zona Sud ancora una
volta non hanno scelta. La sola via per portare l’acqua nelle loro case,
tutelare la salute delle famiglie e migliorarne le già molto precarie
condizioni di vita, ribadendo insieme il diritto ad affermare la propria
dignità, è auto-organizzarsi. Una pratica comunitaria
molto radicata nella tradizione delle culture contadine indigene andine
ma anche in quella dei tanti ex minatori migrati nella regione
cochabambina alla ricerca di un clima e di una terra meno duri di quelli
di altre zone della Bolivia. Così, da oltre vent’anni, in quest’area
marginalizzata di una valle tutt’altro che verde, tra mille e una
difficoltà, si scavano tenacemente pozzi e si cercano finanziamenti per
farlo, si mettono insieme le piccole somme disponibili e le immense
fatiche di un lavoro collettivo. Spesso il lavoro è gestito con turni
obbligatori ma logica è quella del bene comune e della cooperazione. In
questo senso, il lavoro astratto di tipo capitalista è veramente
lontano. Così come, malgrado le
difficoltà e le contraddizioni non manchino, si può tranquillamente
affermare che nei sistemi comunitari l’acqua sia ben lontana dall’essere
considerata una merce.
Centinaia di sistemi comunitari
Aiuta molto, come abbiamo visto
nel caso della scuola, la capacità di recuperare antiche conoscenze e
saperi organizzativi che non si sono mai perduti a queste latitudini.
Non solo, stiamo parlando di popolazioni segnate spesso da una
significativa storia di autonomia politica, anche nella gestione e nella
distribuzione delle poche risorse disponibili. È
questa la ricetta essenziale che ha fatto del sistema comunitario della
zona sud di Cochabamba una delle esperienze più rilevanti di gestione
dell’acqua in territori urbani a livello planetario. Una gestione
comune, molto differente sia da quelle statali che da quelle private,
che però difficilmente si può definire un modello, vista la complessità e
la varietà di situazioni diverse che riesce a far convivere. Secondo la rilevazione di Labradorxs de Agua,
sono almeno duecento i sistemi che compongono la rete delle zona Sud,
alcuni raccolgono poche decine di famiglie, altri ne contano quasi
mille. Tutti fanno tesoro, in un modo o in un altro, delle conoscenze
pratiche derivanti dagli usos y costumbres locali della valle
cochabambina. A quei duecento sistemi, peraltro, ne vanno aggiunti quasi
altrettanti censiti nelle aree periurbane (Tiquipaya, Sacaba,
Colcapiruha, Quillacollo) e un ulteriore numero, imprecisabile ma certo
largamente superiore, disperso nelle aree rurali più distanti dalla
città di Cochabamba.
Abbiamo usato il verbo “disperdere” non in modo casuale. Per
approfondire un concetto complesso quanto interessante, essenziale alla
comprensione della relazione tra potere, politica e vita quotidiana in
diverse zone della Bolivia, rimandiamo a “Disperdere il potere”,
(Zibechi, 2007), grande racconto della “Guerra del Gas” di El Alto,
capitale aymara, cresciuta fino a 900 mila abitanti ai margini
settentrionali di La Paz. Qui, ci limitiamo a segnalare che, malgrado
l’infinita varietà della trama di esperienze comunitarie che si è
disegnata nei secoli nel territorio che oggi si chiama “Bolivia”, ciò
che le unisce davvero, insieme a forme molto originali di legame tra le
persone, restano la tendenza all’auto-gestione e al controllo esercitati
spesso senza deleghe dalla stessa popolazione. D’altra
parte, per chi non resistesse alla tentazione di uno sguardo tanto
“europeo” da sfiorare la prospettiva di una nuova colonialità, per poi
giungere a frettolose conclusioni tendenti a incasellare la realtà
comunitaria di cui si parla come un esempio di “esperienze minoritarie”,
sarà utile ricordare qualche altro numero. Secondo la Rivista Aqua Vitae,
n.12 del 2010, in undici paesi dell’América Latina sono stati censiti
oltre 50 mila sistemi comunitari che provvedono all’accesso all’acqua
per oltre 30 milioni di persone. Dai 16 mila della Colombia (ne
usufruiscono 12 milioni di persone) ai 1.456 del Cile (un milione e
mezzo i beneficiari), dai 12 mila del Perù (oltre 8 milioni di persone)
ai 2.500 del Paraguay (1.200.000 persone). In Bolivia il censimento si
ferma a 4.500 sistemi (con 2.250.000 abitanti coinvolti).
Numeri significativi a scala continentale che, naturalmente, non
raccontano la complessità di situazioni tanto diversificate e quasi
sempre esposte a grandi fragilità derivanti dalle inevitabili
contraddizioni interne e dalle grandi pressioni esterne esercitate dalle
economie e dalle politiche degli Stati in cui si trovano. Per quel
riguarda la stessa Cochabamba, Olivera non è ottimista sul futuro
immediato: «Buona parte della popolazione è in questo momento troppo
frammentata e disorganizzata, così finisce per subire la subordinazione
all’apparato dello Stato. Non è immaginabile a tempi brevi la
riproposizione di un tentativo di imporre un’agenda dal basso. Però la
gente resta indignata per le ingiustizie e per la mancanza d’acqua.
Verrà un momento di articolazione rapida e forte che certamente darà
vita a un nuovo poderoso movimento. I piccoli spazi che restano aperti
in alcune comunità e in altre esperienze come la scuola di cui abbiamo
parlato riveleranno allora tutta l’importanza strategica necessaria alla
nuova ribellione che saprà crescere. La gente tornerà a prendere decisioni e deciderà di lottare».
Chi decide? Le istituzioni costituenti o i processi della vita di ogni giorno?
Il tema delle decisioni, così rilevante nell’auspicio espresso da
Oscar, contiene una delle domande chiave sulla gestione comunitaria
dell’acqua: dove si prendono le decisioni? Per
chiunque abbia una qualche esperienza di partecipazione ai movimenti
sociali, la risposta sale alle labbra quasi spontanea: in assemblea. Filemón Escobar, ex presidente dell’Associazione Agua 22 de Abril,
venuto a mancare nel giugno scorso, dopo essere stato anche uno storico
leader sindacale dei minatori e un esponente politico di grande
rilevanza sulla scena politica boliviana (è stato a lungo anche mentore
politico di Evo Morales), aveva le idee molto chiare: “Un’associazione
comunitaria è un’organizzazione dove la popolazione, riunita in
assemblea, è la massima autorità”. Certo, l’assemblea
è non solo lo spazio pubblico in cui un sistema comunitario dell’acqua
nasce, ma anche quello in cui si definiscono i termini, le tariffe da
pagare e gli accordi di gestione, insomma le “regole” stesse del sistema.
Eppure, anche in questo caso, non
sembra superfluo segnalare che a Cochabamba le regole di funzionamento
variano da assemblea ad assemblea e da quartiere a quartiere. Una nuova
testimonianza di quanto possa essere improprio parlare di modelli. Non solo. La
rilevante questione dei “momenti decisionali” offre forse lo spunto per
un invito a non concentrare l’attenzione nel disegno delle “istituzioni
costituenti” comunitarie, definizione già in sé piuttosto avventurosa,
ma a tenere uno sguardo aperto sulle diverse esperienze di lotta
quotidiana. Lotte “genuinamente” auto-prodotte tra mille
imprevedibili avversità, ma spesso capaci di costruire e consolidare
relazioni sociali diverse tra uomini e donne per soddisfare le
differenti necessità di riproduzione collettiva della vita. In altre
parole, la comunità non si
istituisce, né si sancisce in un dato evento o momento formale. Non si
fonda come una società o un’associazione ma è il risultato di un lungo
processo di scelte e decisioni, individuali e collettive, per garantire
l’accesso comune a quel che desideriamo o di cui abbiamo bisogno.
L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci del passato che parlano
al futuro, è la prima materia di cui abbiamo bisogno, per fortuna la
più abbondante che c’è nel pianeta, una materia viva che possiamo
desiderare ma non possedere. E men che mai vendere. L’acqua è la
comunità, la vita insieme.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E WEB
Roberto Roversi (1995). Versi tratti da Poetare d’Acqua. Centro Antartide, Bologna
Galeano Eduardo (2010). Carta
leída en la ceremonia de apertura de la Conferencia Mundial de los
Pueblos sobre el Cambio Climático y los Derechos de la Madre Tierra.
Oscar Olivera, Raquel Gutierrez e altri (2008). Nosotros somos la Coordinadora Fundacion Abril. Cochabamba
Ledo Carmen (2009), El agua es nuestra de cada dia. Retos e iniciativas de una Cochabamba incluyente y solidaria UMSS-CE-PLAG, Bolivia
Linsalata Lucia (2017), Agua en común. Labradorxs de Agua. Fundación Abril, Cochabamba
Zibechi Raúl (2007). Disperdere il potere. Carta-IntraMoenia Roma-Napoli
*Questo articolo fa parte del 15° Rapporto sui Diritti globali Apocalisse umanitaria (Ediesse).