martedì 15 maggio 2018

Argentina - Il ritorno dei corsari della finanza



di Francesco Gesualdi*

Sentiamo spesso parlare di finanziarizzazione dell’economia senza capirne a fondo il significato. Ma ciò che sta attraversando l’Argentina è un tipico esempio di economia sacrificata sull’altare della finanza che dà ragione delle parole scritte da Papa Francesco nel libro curato da Zanzucchi: «Quando si verifica il crollo di una finanza staccata dall’economia reale, tanti pagano le conseguenze e tra i tanti soprattutto i poveri e quanti poveri diventano, mentre i ricchi in un modo o nell’altro spesso se la cavano.»

L’Argentina è tornata all’onore delle cronache perché la sua situazione economica  sembra averla  riportata al 2001 quando si trovò con un tale debito estero da dover dichiarare fallimento. Allora come oggi, i segnali erano un pesos in caduta libera, la crescita del debito pubblico, un’alta inflazione, un forte debito commerciale e finanziario verso l’estero. Per uscire dalla crisi, Nestor Kirchner, che rimase al potere dal 2003 al 2010, aveva puntato su una politica articolata che comprendeva la ristrutturazione del debito pubblico,  la limitazione del movimento dei capitali, una politica monetaria e creditizia che favorisse gli investimenti produttivi da parte dell’imprenditoria nazionale. E benché molti gli abbiano contestato di non avere fatto abbastanza per fare aumentare i salari e per ridurre la povertà, tutti gli riconoscono il merito di avere saputo condurre l’Argentina fuori dalla palude. 
Ma la corsa cominciò a frenare nel 2008, allorché la crisi mondiale impattò negativamente anche sull’Argentina che gradatamente tornò a confrontarsi con i suoi demoni storici: inflazione, debito pubblico e disavanzo estero. Per di più nel 2012 arrivò la tegola dei fondi avvoltoi che non riconoscendo la ristrutturazione effettuata nel 2001 pretendevano la restituzione piena del valore nominale dei titoli con l’aggiunta degli interessi e delle more. 

Una partita che è stata chiusa nel 2016 dal governo successivo con un esborso di 9 miliardi dollari a danno degli argentini.



Nel 2015, quando cessò l’era Kirchner, prima gestita dal marito, poi dalla moglie, l’Argentina non navigava in ottime acque, ma disponeva di meccanismi per evitare la totale disfatta sociale ed economica. Poi arrivò Mauricio Macrì, convinto sostenitore della teoria neoliberista secondo la quale il sereno torna da solo se si libera il mercato da tasse, lacci e lacciuoli. Detto fatto, per prima cosa tolse ogni meccanismo di difesa del pesos e lasciò che si attestasse sul valore deciso dal mercato tramite il libero incontro fra offerta e domanda. 

Era il dicembre 2015 e il pesos, in un solo giorno, si svalutò del 30 per cento per la gioia delle multinazionali dell’agroindustria e dell’industria estrattiva che essendo al tempo stessi produttori e acquirenti, hanno tutto l’interesse a fare uscire dal paese prodotti a basso prezzo che poi generano guadagni nelle fasi di rivendita successiva sotto forma di dollari riparabili nei paradisi fiscali. E per non lasciare le cose a metà, Macri tolse anche tutti i limiti alle esportazioni creando una situazione concorrenziale fra la domanda interna e quella internazionale che ebbe la peggio per la domanda interna. Il prezzo interno di soia e cereali crebbe addirittura del 150% mettendo in crisi non solo i consumatori finali, ma anche l’industria intermedia della carne. Contemporaneamente anche le importazioni vennero rimesse in totale libertà e nonostante la svalutazione del pesos, i manufatti stranieri invasero l’Argentina mettendo in crisi settori chiave del paese come l’industria tessile, meccanica e calzaturiera. La conclusione è stata che fra il 2016 e il 2017 le importazioni hanno superato di gran lunga le esportazioni generando un deficit commerciale verso l’estero per 14 miliardi di euro.

Ma le cose sono andate di male in peggio anche sul piano sociale e finanziario. Sul piano sociale il paese sta registrando una crescita della disoccupazione per licenziamenti non solo in ambito  privato, ma anche pubblico come conseguenza del dogma neoliberista che impone allo stato di ridurre la sua presenza in tutti gli ambiti, sia quello dei servizi che del sostegno sociale. E’ del dicembre 2017 una sforbiciata alle pensioni di anzianità e ai contributi a favore delle categorie svantaggiate con contemporanea soppressione delle integrazioni a luce, acqua e gas che hanno rappresentato una vera mazzata per i salari già bassi e taglieggiati da un inflazione che fra il 2016 e il 2017 è stata del 65 per cento.



La giustificazione del governo è che deve risparmiare per riportare i conti pubblici in pareggio considerato che nel 2016 ha registrato un deficit di 32 miliardi di dollari, 6,3 per cento del Pil. Un male non casuale considerato il minor gettito fiscale dovuto ai tagli di imposta sulle esportazioni e sui redditi più alti e il maggior esborso per interessi su un debito pubblico che sta crescendo, non per finanziare servizi e opere pubbliche a vantaggio della collettività, ma per ripristinare riserve in dollari che si stanno prosciugando a causa della possibilità data alle classi agiate di accumulare dollari all’estero. Un film già visto al tempo della giunta militare.

venerdì 11 maggio 2018

Ay Nicaragua, Nicaragüita

L’ultima sanguinosa repressione delle scorse settimane ha riportato l’attenzione internazionale sul Nicaragua, mettendo in luce alcune essenziali riflessioni sulle società post-rivoluzionarie del Novecento. A quasi quarant’anni dalla vittoria sandinista dell’estate del 1979, la più giovane e poetica delle rivoluzioni del secolo scorso, ci si chiede ancora come sia stato possibile che Daniel Ortega – il più “politico” tra i suoi grandi protagonisti, quello disposto ad allearsi con chiunque pur di restare al governo – sia diventato poi il simbolo di un potere cieco e corrotto, che ha di fatto privatizzato il Fronte Sandinista e le istituzioni del paese perseguitando ogni protesta sociale e molti dei suoi compagni d’un tempo, a cominciare dal vecchio poeta Ernesto Cardenal. Gli studenti hanno convocato una nuova manifestazione nazionale per il 9 maggio, dove non mancheranno di intonare, con grande disappunto del governo, Ay Nicaragua, Nicaraguita, la canzone composta dai fratelli Mejìa Godoy per la grande Campagna dell’alfabetizzazione, uno dei simboli più straordinari dei primi anni della rivoluzione. Carlos Mejia Godoy, che sostiene l’indipendenza della protesta, ha scritto: non posso essere neutrale di fronte a tanta barbarità e ignominia
Una delle foto della protesta nicaraguense diffusa attraverso le rete sociali
di Raúl Zibechi

“Come fare a non diventare fascista, perfino quando (soprattutto quando) uno crede di essere un militante rivoluzionario?”. La frase di Michel Foucault descrive alla perfezione il processo che soffre il Nicaragua.

Il governo di Daniel Ortega e Rosario Murillo ha decretato una riforma della previdenza sociale che, tra le altre cose, impone una riduzione del 5 per cento delle pensioni per riaggiustare i conti dell’Istituto Nicaraguense della Previdenza Sociale (INSS), seguendo il suggerimento del Fondo Monetario Internazionale. La situazione economica si è deteriorata in conseguenza della crisi venezuelana, però i danni li pagheranno los de abajo.

Com’è noto, la repressione ha causato tra i 25 e i 30 morti in appena quattro giorni. 

L’Articolazione Femminista Nicaraguense denuncia un tipo di repressione molto speciale, “contro i giovani universitari e la popolazione che li appoggia in maniera attiva, mettendo insieme le forze antisommossa della Polizia Nazionale con le forze paramilitari formate da giovani che si suppone siano organizzati in quella che chiamano “Gioventù Sandinista”.
La vicepresidente Rosario Murillo, moglie di Ortega, ha detto nei giorni scorsi di voler aprire un dialogo sull’aumento che colpisce i pensionati. Foto univision.com
La maggioranza dei morti sono stati colpiti dai proiettili dei poliziotti anti sommossa che proteggono i paramilitari. Il governo ha chiuso temporaneamente “i pochi mezzi di informazione indipendenti che ancora esistono nel paese”, secondo quanto denunciano le femministe che definiscono il governo di questi 11 anni “patriarcale, votato all’esclusione e misogino”.

Ciò di cui dobbiamo venire a capo è come si sia potuti arrivare a questa situazione. Come sia stato possibile che una forza politica rivoluzionaria, e dei capi che costruirono il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, si siano potuti trasformare in assassini del loro popolo.
Penso che questa crisi porti alla luce almeno quattro questioni.

La prima consiste nel ricordare che non è la prima volta che questo succede con i movimenti rivoluzionari al potere. È la storia dell’Unione Sovietica di Stalin, però è anche la terribile storia di Sendero Luminoso, della guerriglia salvadoregna che assassinò Roque Dalton a causa delle differenze politiche e che organizzò l’assassinio della comandante Ana María. Questioni scomode di cui non si vuole parlare e da cui ancora meno si vuole imparare.

La seconda è che i coniugi Ortega-Murillo hanno commesso dei crimini, senza che la sinistra egemone abbia detto una sola parola, perché per loro tutto sta nel detenere il potere, a qualunque prezzo. Quando Zoilamérica Narváez, figlia della Murillo e figliastra di Ortega denunciò il presidente per violenza sessuale, nel 1998, i partiti membri del Forum di San Paolo non alzarono la voce, né criticarono il denunciato. Quando l’attuale  vice presidente del Nicaragua, la signora degli anelli e dei gioielli, difese il suo sposo contro sua figlia per rendere più forte il suo potere, le sinistre si voltarono da un’altra parte.

L’ex vicepresidente del Nicaragua dei primi anni della rivoluzione, Sergio Ramirez, e la scrittrice femminista Gioconda Belli manifestano a Madrid contro la repressione. Foto Paolo Aguilar
La voce non si levò nemmeno quando, ancora nel 1998, fu firmato il patto di Ortega con l’esponente della destra storica Arnoldo Alemán, un patto che serviva a spartirsi il paese e a proteggere le sue ricchezze. Non ci fu alcuna denuncia contro l’alleanza con il potere economico, la corruzione scandalosa della cupola del FSLN, le minacce agli oppositori di sinistra, quelli che restano i veri sandinisti e accusano di tradimento la cricca di Ortega e Murillo.

Probabilmente, una delle analisi più lucide sulla degenerazione del governo è quella scritta da Mónica Baltodano, nella rivista Envío del gennaio 2014, e intitolata ¿Qué régimen es éste? ¿Qué mutaciones ha experimentado el FSLN hasta llegar a lo que es hoy? (Che regime è questo? Che mutazioni ha sperimentato il FSLN fino a diventare quello che è oggi?). 
La ex comandante guerrigliera (uscita dal FSNL dopo l’alleanza con la destra di Alemán, ndt) indica quattro mutazioni nell’orteghismo che spiegano l’attuale deriva.

Sostiene, in primo luogo, che è stato rafforzato “come mai prima” un regime politico ed economico contro i poveri e a favore della concentrazione della ricchezza e del potere. In secondo luogo, rileva che “s’è fatta più profonda la subordinazione del paese alla logica globale del capitale”, che usufruisce delle ricchezze naturali e della mano d’opera sottopagata in Nicaragua. La terza mutazione è che “l’attuale sistema economico-sociale ha bisogno di farla finita con le resistenze sociali e il regime di Ortega consegue questo risultato esercitando un severo controllo sociale”. E la quarta sta nella concentrazione di potere della cricca che fa capo a Ortega-Murillo.

L’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica sta promuovendo la candidatura al Nobel per il vecchio poeta Ernesto Cardenal, il primo ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario
Quello della privatizzazione del Fronte Sandinista è stato un processo che si è sviluppato “prima della creazione dell’oligarchia economico-finanziaria del Fronte”, cosa che ha permesso un controllo assoluto delle principali istituzioni del paese, per poter usare “quel potere concentrato al fine di riprodursi, consolidarsi e installarsi al vertice dello Stato per anni”. Baltodano pensa che si tratti di una simbiosi degli Ortega con il potere economico nicaraguense, tra la borghesia tradizionale e la emergente “borghesia rossonera”(dai colori della bandiera sandinista, ndt).

La terza questione che fa luce sulla crisi nicaraguense, è che essa mette a nudo la povertà etica e politica delle sinistre. Più che una povertà, una decomposizione in piena regola. Ci sono ancora “intellettuali” (“mercenari”, come dice un veterano militante comunista) che continuano a menzionare l’intervento dell’imperialismo in Nicaragua per giustificare i crimini. Non ho il minimo dubbio che gli Stati Uniti spingano i giovani nica a rovesciare Ortega. Questo non ha la minima importanza, perché non stiamo qui per giocare una partita a scacchi geopolitica ma per difendere la vita dei popoli, quella vita che il governo di Managua si impegna a distruggere.

La quarta questione è che dobbiamo lavorare duramente per rompere un dilemma di ferro: la politica come guerra, sebbene condotta con altri mezzi, come disse Clausewitz e come celebrò Lenin. La guerra consiste nella sconfitta e nell’annichilimento del nemico, con o senza armi. Credo sia lecito difenderci dai nemici, anche con le armi. Ma fondare la politica sulla guerra (con strategie, tattiche e arti militari) è un cammino che conduce la lotta per l’emancipazione verso un insondabile abisso. 

Ci siamo formati in quella tradizione, ma è ora di ripensarla.

Quando i giovani nica gridano “Ortega e Somoza, sono la medesima cosa”, è perché si è perso il nord, sull’altare del potere. Ci rimane l’esempio dei curdi e degli zapatisti, che resistono senza trasformarsi in criminali.

Fonte: la Jornada

Traduzione per Comune-info: Marco Calabria

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!