martedì 10 luglio 2018

Nicaragua - L’ultima rivoluzione tradita

Foto Kaos en la red

di Bianca Segovia (*)

Cosa succede in Nicaragua oggi, dopo 11 anni dal ritorno al potere attraverso libere elezioni del FSLN1, è qualcosa che addolora e fa riflettere, tocca profondamente nelle viscere e nel cuore.
Ho vissuto con gioia due periodi della mia vita abbastanza lunghi per farmi portare scolpite nella pelle e nell’anima il calore e l’amore verso i e le nicaraguensi e la loro terra fertile, i vulcani che sono sempre pronti a far scoppiare un’allerta gialla.
Questa volta un nuovo Cerro Negro2 è comparso spingendo la crosta terrestre per emergere con il suo rumore viscerale attraverso una rottura e una detonazione forte.
I lapilli di lava hanno rischiarato il cielo e la colata incontrollata ha preso strada senza più barriere.

Che cosa è successo da metà aprile 2018?
 
Ci si trova spesso in una posizione scomoda a criticare governi che si autoproclamano socialisti, rivoluzionari, apertamente di sinistra come nella vecchia Europa non esistono più.
Ho imparato a conoscere lo spirito indomito, ribelle e rivoluzionario che si porta dentro la maggioranza delle persone che ha vissuto una travagliata storia recente come quella dell’ultima rivoluzione del ‘900, quella nicaraguense. Anche qui in Italia, separata da un oceano e da vari chilometri di terra, sento l’esigenza di prendere posizione: non si può avere paura di schierarsi contro l’autoritarismo, il familismo, il militarismo e l’affarismo di un governo che di sandinista ha mantenuto solo un nome come fosse un logo, distanziandosi anni luce dal sandinismo storico e dalle sue origini.
Chi non difende Daniel e la Murillo non si colloca automaticamente a favore delle destre come vorrebbe far credere lo stesso partitismo verticista. Non sostenere l’Orteguismo viene naturale.
Fin dal mio arrivo in terra nicaraguense oltre alle parole del nicañol3 legate a frutta, piatti squisiti, modi di dire, ho imparato il termine Danielismo.
L’accentramento nelle mani di un leader di un intero partito è un fenomeno comune.
La declinazione nicaraguense di questo fenomeno è costituita dal Danielismo o Orteguismo.
Nelle conversazioni con le persone incontrate nei miei viaggi questo fenomeno si palesava nel giro di un tempo molto breve. Ad un certo punto arriva una citazione “come dice Daniel” oppure l’altra variante “come dice la compagna Rosario Murillo”.
Anche dopo 6 litri di birra, anche in contesti amicali o di chiacchiere che con il Presidente Comandante non avevano nulla a che fare; queste citazioni come se piovesse non diminuiscono neppure quando le bottiglie vuote che si accumulano sul tavolo crescono, nemmeno i vapori dell’alcool fanno desistere lo snocciolamento del rosario. L’impressione è di trovarsi ad ascoltare un comunicato ufficiale del “19 digital”4
La figura della prima dama è stata centrale nell’instaurarsi dell’Orteguismo. Rosario Murillo, la moglie di Daniel, anch’essa nelle fila del FSLN fin dagli anni della lotta armata contro Somoza, recentemente ha giocato un ruolo decisivo, seppur non ufficiale, nel partito FSLN con un’ascesa verticale e dirigenziale al di fuori di qualsiasi traiettoria politica classica. Un partito trasformato in un piccolo feudo famigliare in cui non si ammette nessuna posizione che non si rispecchi nella linea della coppia presidenziale: non sono ammesse correnti interne né personalità con un pensiero critico e indipendente.
La pulizia dentro al partito era già compiuta, la strada spianata, il controllo dei media ufficiali è stato consegnato ai figli della coppia. Un familismo e nepotismo per antonomasia.
Comandanti storici e storiche si sono via a via sganciati/e e allontanati/e, menti brillanti e critiche purgate perché pericolose. Anche questa una storia già vista.
Fortunatamente in Nicaragua parlare della politica attuale e passata è facile con chiunque, c’è molta voglia di dialogare, di discutere, di esporre un’opinione e di sicuro ci si imbatte in persone con un pensiero critico e non allineato: tanti sandinisti e sandiniste non danielisti/e si preoccupano di andare oltre agli slogan e frasi ufficiali dei comunicati o delle varie campagne politiche.

lunedì 9 luglio 2018

Messico - Convocazione Incontro delle reti d’appoggio al CIG e CompARTE "Per la vita e la libertà"

Luglio 2018

Agli individui, gruppi, collettivi e organizzazioni delle Reti d’Appoggio al CIG:
Alla Sexta Nazionale e Internazionale:

Considerando che:

Primo e unico:
Il gran finale
Vossia arriva al grande stadio. “Monumentale”, “colosso”, meraviglia architettonica”, “il gigante di cemento”, qualificativi consimili si ripetono nelle voci degli speaker che, nonostante le diverse realtà che esprimono, concordano nel mettere in risalto la superba costruzione.

Per arrivare al grandioso edificio, vossia ha dovuto farsi strada tra macerie, cadaveri, sporcizia. I più in là negli anni raccontano che non è stato sempre così: che prima, intorno alla gran sede sportiva si ergevano case, quartieri, negozi, edifici, fiumi e ruscelli di gente che uno schivava finché andava quasi a sbattere il naso contro al gigantesco portone, che si apriva solo ogni tanto, e nella cui insegna si leggeva: “Benvenuto al Gioco Supremo”. Sì, “benvenuto”, in maschile, come se ciò che avveniva dentro fosse cosa soltanto da uomini; come prima i sanitari, le cantine, la sezione di macchine e attrezzi dei negozi specializzati… e, ovvio, il calcio.

Tuttavia, a volo d’uccello l’immagine vista potrebbe benissimo essere un facsimile di un universo che si contrae, lasciando alla sua periferia morte e distruzione. Sì, come se il Grande Stadio fosse il buco nero che assorbe la vita attorno a sé e che, sempre insaziabile, erutta e defeca corpi senza vita, sangue, merda.

Da una certa distanza, si può apprezzare l’immobile nella sua totalità, sebbene ora le sue erronee disposizioni architettoniche, le sue falle strutturali nei calcestruzzi e nelle strutture, le sue decorazioni cangianti secondo il gusto della squadra vincitrice di turno, appaiano coperte da una tramoggia che abbonda di richiami all’unità, la fede, la speranza e, ovvio, la carità. Come se così si ratificasse la somiglianza tra culti religiosi, politici e sportivi.

Vossia non sa molto di architettura, ma sente fastidio per questa insistenza quasi oscena su una scenografia che non coincide con la realtà. Colori e suoni che proclamano la fine di un’era e il passaggio al domani anelato, la terra promessa, il riposo che non promette più nemmeno la morte (si dice vossia mentre ricapitola le proprie conoscenze, le persone scomparse, assassinate, “esportate” in altri inferni, e i cui nomi si diluiscono in statistice e promesse di giustizia e verità). 

Come nella religione, la politica e gli sport, ci sono gli specialisti. Mentre vossia non sa molto di nulla. La infastidiscono gli incensi, i salmi e le lodi che popolano quei mondi. 

Vossia non si sente capace di descrivere l’edificio, perché vossia bazzica altri mondi, e i suoi lunghi e tediosi cammini percorrono quello che, dai superbi palchi dell’edificio, si potrebbe chiamare il “sottosuolo”. Sì, la strada, la metro, il bus collettivo, il veicolo in abbonamento o pagato a carico di altri abbonamenti (un debito sempre posposto e sempre crescente), le strade sterrate, i sentieri sperduti che portano alla milpa, alla scuola, al mercato, al tianguis, al lavoro, agli sbattimenti, al diavolo.

Vossia si inquieta, sì, ma l’ottimismo dentro al grande stadio è maggioritario, travolgente, s-o-p-r-a-f-f-a-t-t-o-r-e, e tracima fino a fuori.

Come in quella canzone che vossia ricorda vagamente, lo spettacolo che è già finito, ha unito “il nobile e il villano, il proboviro e il verme”. In quei momenti l’uguaglianza è stata regina e signora, non importa che al fischio finale ciascuno sia tornato al suo posto. Basta l’oblio che ciascuno è quel che è. Di nuovo, “e con la nausea / torna il povero alla sua povertà, /torna il ricco alla sua ricchezza /e il signor curato alle sue messe/ si son svegliati il bene e il male/ la volpe povera torna al portone, /la volpe ricca torna al roseto, /e l’avaro alle divise”* (*Citazione di “Fiesta” di J.M. Serrat, N.d.T.). 

E il fatto è che, come vossia sa dallo strepito e dalle immagini, la partita è finita. Il gran finale tanto atteso e temuto si è consumato, e la squadra vincitrice riceve, con falsa modestia, il clamore degli spettatori. “Il rispettabile pubblico”, dicono portavoce e cronisti. Sì, così si riferiscono a chi ha partecipato attivamente con grida, cori, urrà, insulti e diatribe, dai gradoni, come spettatori a cui soltanto nel gran finale è permesso simulare che sono di fronte al pallone e che il loro grido è il calcio che dirige la sfera “in fondo al sacco”.

Quante volte lo ha sentito vossia? Molte, val la pena contarle? Le sconfitte reiterate, la promessa che alla prossima sì, che l’arbitro, che il campo, che il clima, che la luce, che la linea, che la strategia e la tattica, che eccetera. Almeno l’illusione attuale allevia questa storia di sconfitte… a cui dopo si aggiungerà la prevista disillusione.

Nei dintorni del recinto, una mano maliziosa ha tracciato, sul superbo muro che circonda lo stadio, un motto: “MANCA LA REALTA’”. E non paga della sua eresia, la mano ha aggiunto tratti e colori alle lettere, tanto variegati e creativi che non sembrano nemmeno dipinti. Non è più un graffito, ma un’iscrizione fatta a scalpello, che macchia il cemento. 

Un’orma indelebile nell’apatica superficie del muro. E, per colmo, l’ultimo tratto della “A” finale ha aperto una crepa che si allarga fino al basamento. Un cartello, rotto e scolorito, con l’immagine di una felice coppia eterosessuale, con un paio di figli, bambino e bambina, e l’intestazione “La Famiglia Felice”, cerca invano di occultare la fenditura che, forse per un effetto ottico, sembra graffiare anche la felice immagine della famiglia felice.

Ma neppure il frastuono interno che fa vibrare le pareti dello stadio riesce a nascondere la crepa.

Dentro, sebbene la partita sia terminata, la moltitudine non abbandona lo stadio. Anche se ben presto sarà di nuovo espulsa verso la valle di rovine, la moltitudine imbellettata fa eco delle proprie grida e scambia aneddoti: chi ha gridato più forte, chi ha fatto lo scherzo migliore (si dice “meme”), chi ha divulgato la bugia di maggior successo (il numero di “like” determina il grado di verità), chi lo sapeva fin da subito, chi non ha mai dubitato. Nelle tribune, alcuni, alcune, alcunei, scambiano analisi: che “hai visto che gli avversari hanno cambiato casacca a fine primo tempo e ora festeggiano la vittoria coloro che hanno iniziato l’incontro con la casacca della squadra opposta?”; che “l’arbitro (il sempiterno “arbitro venduto”) ora sì che ha fatto il suo dovere perché la vittoria della squadra ripulisce ed eleva tutto”. 

Alcuni, alcune, alcunei, più scettici, vedono con sconcerto che, tra coloro i quali celebrano il trionfo, ci sono quelli che hanno giocato e giocano in squadre rivali. Cercano di capire, ma non riescono. O capiscono, ma non è ora di capire, ma di festeggiare. Perché sia chiaro, una lavagna gigante lampeggia con lo slogan visuale di moda: “Proibito Pensare”. La notte ha posposto il suo arrivo, pensa vossia. 

Ma si rende conto che sono i riflettori e i fuochi d’artificio che simulano chiarore. Chiaro, un chiarore selettivo. Perché là, in quell’angolo, alcuni gradoni sono crollati e le squadre di soccorso non accorrono, occupate come sono nel festeggiamento. La gente non si chiede quanti morti, ma di quale squadra erano tifosi. Più in là, in quell’altro angolo oscuro, una donna è stata aggredita, violentata, sequestrata, assassinata, fatta sparire. Ma, suvvia, è solo una donna, o un’anziana, o una giovane, o una bambina. I media, sempre in sintonia con quel che succede, non chiedono il nome della vittima, ma se aveva addosso la maglietta di una squadra o dell’altra. Ma non è tempo di amarezze, bensì di festa, di brindisi, di f-i-n-e-d-e-l-l-a-s-t-o-r-i-a caro mio, dell’inizio di un nuovo campionato. Fuori l’oscurità sembra il colophon pittorico per la zona devastata. Sì, pensa vossia, come uno scenario di guerra.

La confusione richiama la sua attenzione. Vossia cerca di prendere le distanze per comprendere l’impatto di questo gran trionfo della sua squadra preferita… mh… era la sua squadra preferita? Non ha più importanza, il trionfatore è sempre stato e sarà sempre la squadra favorita dalle maggioranze. E, chiaramente, tutti sapevano che il trionfo era inevitabile, e nelle tribune si susseguono le spiegazioni logiche: “sì, non era possibile alcun altro risultato, solo quello della coppa ubriacante che incorona i colori della squadra favorita”.

Vossia cerca, senza riuscirci, di far suo l’entusiasmo che inonda le tribune, i palchi, e sembra arrivare fino al punto più alto della costruzione, dove ciò che si intuisce è un lussuoso appartamento, che riflette nei suoi vetri polarizzati le luci, le grida e le immagini.

Vossia percorre le tribune con difficoltà, la gente gremisce i corridoi e le scale. Cerca qualcosa o qualcuno che non la faccia sentire straniero, cammina come un extraterrestre o un viaggiatore del tempo che sia atterrato in un calendario e una geografia sconosciuti.

Si ferma un po’ dove due persone di una certa età guardano con attenzione una specie di tavola. No, non si tratta di scacchi. Ora che vossia si è sufficientemente avvicinato, vede che si tratta di un rompicapo con soltanto alcuni pezzi inseriti e con la figura finale neanche abbozzata.

  Una persona sta dicendo all’altra: “Be’, no, non mi sembra finzione. Dopo tutto, il pensiero critico deve partire da un’ipotesi, per quanto possa sembrare campata per aria. Ma non deve abbandonare il rigore per confrontarla e verificare se procede, o se bisogna cercare altri appigli”. E, prendendo uno dei pezzi del rompicapo, questa persona lo mostra e dice: “per esempio, può darsi, a volte, che il piccolo aiuti a comprendere il grande. Come se in questa piccola parte potessimo divinare o intuire la figura completata”. Vossia non ascolta ciò che segue, perché i gruppi vicini gridano contro questa strana coppia e zittiscono le loro parole. 

Qualcuno le ha passato un volantino. “Desaparecida”, si legge, e un’immagine di una donna la cui età vossia non può determinare. Un’anziana, una donna matura, una giovane, una bambina? Il vento le strappa di mano il volantino e il suo volo si confonde con le serpentine e i coriandoli che annebbiano la vista. 

E parlando di bambine…

Una bambina, piccola, di pelle oscura, dai vestiti stravaganti da quanto sono colorati e adornati, guarda lo stadio, le tribune, le luci multicolori, i sorrisi di vincitori e vinti, allegri i primi, maliziosi i secondi.

La bambina ha un dubbio. Si intuisce dall’espressione del suo viso, dal suo sguardo inquieto.

Vossia si sente generoso, alla fin fine vossia ha vinto… mh… ha vinto? Be’, non importa. 

Vossia si sente generoso e, sollecito, chiede alla bambina cosa cerca.

La bambina le risponde: “il pallone”. E, senza girarsi a guardarla, continua a setacciare con lo sguardo la gran costruzione.

Il pallone?”, chiede vossia come se la domanda venisse da un altro tempo, da un altro mondo.

La bambina sospira e aggiunge: “be’, magari lo ha il padrone”.

“Il padrone?”

Sì, il padrone del pallone, e dello stadio, e del trofeo, e delle squadre, e di tutto questo”, dice la bambina mentre con le sue manine cerca di abbracciare la realtà concentrata nel grande stadio.

Vossia cerca di trovare le parole per dire alla bambina che quelle domande non fanno al caso, o cosa, a secondo, ma allora vossia ricorda… o per meglio dire non ricorda di aver visto il pallone. Nella sua mente appare un’immagine sfocata, crede che a inizio partita, ci fosse la sfera con le sue toppe marchiate dai “nostri amabili patrocinatori”. Non sa collocarlo nemmeno nei gol segnati.

Ma lì c’è la lavagna del punteggio, e la lavagna segna la realtà che importa: il tale ha vinto, il tale ha perso. Nessun segnapunti indica chi è il padrone né del segnapunti stesso né tantomeno del pallone, delle squadre, delle tribune, delle “videocamere e microfoni”.

Inoltre, il segnapunti non è un segnapunti qualsiasi. E’ il più moderno che esiste ed è costato una fortuna. Include il VAR per aiutare i suoi impiegati a sommare o conteggiare punti alla lavagna, e per le ripetizioni istantanee o reiterate di quando “insieme abbiamo fatto la storia”. E il segnapunti non segna i gol, ma le grida. Vince chi grida di più, e allora chi ha bisogno del pallone?

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!