sabato 2 novembre 2019

Cile - Anatomia di una protesta

di Gabriella Saba


C'è un episodio che racconta più di altri le proteste in Cile e le sue cause. È la telefonata intercettata e apparsa sui media in cui la primera dama Cecilia Morel si sfoga con un'amica per quelle marce e le violenze, l'ostilità di tante gente che non si spiega, non capisce. “È come se ci fosse una invasione di alieni”, dice con voce rotta, e la frase pur nella tragedia degli eventi diventa meme, la signora irrisa, eletta a simbolo dello scollamento tra chi governa il Cile e la realtà. Alieni? Gente che scende in strada a protestare contro il miserabile stipendio minimo di 301milapesos (425 dollari) e una pensione media che si aggira intorno ai 260 dollari grazie alla legge sulle Afp, le  assicurazioni obbligatorie varate da Pinochet e appena ritoccate dai governi democratici, che spremono il lavoratore e arricchiscono le assicurazioni in cambio di pensioni risibili? Quelle che in tutto il mondo avevamo salutato come un successo, salvo capire dopo un po' che non funzionavano, che non si vive con quelle cifre?

Eppure, con quel discorso pieno di terrore Cecilia Morel esprime i sentimenti della sua classe, quella distanza siderale che separa in Cile un pugno di ricchissimi che fanno parte del governo o lo controllano e il resto del paese. Lontani nei quartieri raffinati alle pendici delle Ande, sospesi in atmosfere rarefatte e vagamente irreali che fanno somigliare il mondo sotto a un formicaio di miserie umane e di fatica e delinquenza, le élite cilene anziché seguire il passo del Paese lo hanno fermato, mummificati in quell'idea obsoleta di sistema (ricchi e poveri, bianchi e indigeni) contro cui la gente è scesa in piazza. “Non sono mai stato nel Centro”, ammettono con tranquillità molti di loro. “È troppo pericoloso, capitano certe cose”. Il Centro è il cuore della città, quello in cui c'è la Moneda e alcune delle principali università, uffici e palazzi delle istituzioni, non è pericoloso affatto ma è off limits per le famiglie dai cognomi europei e bianche come latte, perché ci sono troppi indigeni e meticci e insomma il popolo e una certa qual piccola borghesia e negozi ordinari e ristoranti a poco prezzo che si contendono i clienti a colpi di offerte su completos e coca-cola. È dalla plaza Italia a cui le proteste di questi giorni hanno dato fama internazionale e che divide in due la città che comincia il Centro: andando verso l'alto si allunga Providencia e la città bene, sempre più chic a mano a mano che si sale; dall'altra parte c'è il Centro, che è più scaciato e popolare mentre avanzi verso la Moneda e dopo che la superi.

Alameda, @Javier Godoy Fajardo
Nel Cile privatizzato da Pinochet e appena modificato dei governi democratici, le differenze di classe sono drammatiche e l'ascensore sociale ha perso credibilità. Tutto è privato, tutto costa e tanto, istruzione e salute. Le scuole private sono carissime, quelle pubbliche offrono una preparazione scarsa che non garantisce il punteggio minimo necessario per accedere alle università, tutte a pagamento e che si dividono in due gruppi: quelle sovvenzionate e statali in cui occorre oltre alla retta anche il punteggio alto e quelle private a scopo di lucro in cui basta pagare e che assicurano in genere una preparazione scadente e un titolo che vale poco in cambio di rette per cui le famiglie si indebitano. Per inciso: il costo di una università parte da 3.500 dollari all'anno, ma per quelle più prestigiose come la Universidad Católica si arriva a mille dollari al mese. 

Anche la salute è privata, curarsi costa molto e le due assicurazioni di Isapre e Fonasa salassano i cileni. La divisione è fisica e architettonica. Nei cosiddetti quartieri alti gli spazi sono dilatati, i giardini immensi, i mall lussuosi e la Univerdidad de los Andes, la più cara e la più esclusiva, appare all'improvviso alla fine della salita di San Carlos de Apoquindo come una cittadina in mezzo al verde in cui si aggirano studenti che sembrano svedesi per quanto sono chiari, un segno di opulenza e classe. I quartieri bene si chiamano Lo Curro, La Dehesa, Lo Barnechea, sono i quartieri alti, il Barrio Alto mentre i cileni bene sono chiamati cuicos: i discendenti ricchi degli europei che arrivarono qui a ondate nel corso dei secoli, i baschi spagnoli ma anche i tedeschi e i francesi, gli inglesi. Cuicos è la parola che ho sentito pronunciare più volte nei miei tre anni cileni. A volte con disprezzo, spesso con invidia. Cuico non si diventa, è un marchio di razza, ma è il sogno di molti meticci avere un giorno il nipotino biondo perché quella tua figlia che massacrandoti con tre lavori sei riuscito a mandare alla Catolica chissà che non sposi un cuico e ti regali quel salto di classe e il nipotino quasi bianco a furia di incroci, con gli occhi azzurri come alla Dehesa. Per inciso, non tutti i bianchi sono cuicos ma un meticcio non può naturalmente essere cuico, e ci sono cuicos di sinistra che però non vivono in quei quartieri così in alto.

Alameda, @Javier Godoy Fajardo
Per molto tempo il sogno americano del salto di censo e classe è stato un drive formidabile che ha motivato i cileni a qualunque sacrificio, poi a mano a mano si è sgonfiato, e insomma molta gente ha smesso di crederci. Quelle decine di carte di credito che assicurano l'accesso alla spesa anche ai più poveri attraverso pagamenti dilazionati all'infinito si è capito che sono una fregatura, insomma il sistema ha deluso e mostrato la corda: a furia di comprare la gente si indebita fino alla morte. “Quante rate?”, mi aveva chiesto la cassiera di un centro commerciale di Santiago mentre le consegnavo la maglietta da venti euro, il mio primo acquisto in Cile. Avevo pensato fosse una battuta, e invece era normale pagare a quel modo, ero io strana con i miei pesos in mano. Nel suo saggio di culto Cile actual. Anatomia de un mito, il sociologo comunista Tomás Moulian spiega con arguzia come l'accesso al credito abbia dato ai cileni un senso di identità, l'essere “comprante” ha preso il posto dell'essere sociale, con un senso politico. 

sabato 26 ottobre 2019

Cile - L’Ottobre nero del Cile: una protesta che viene da lontano

di Alessandro Guida e Raffaele Nocera*

I media cileni non hanno fatto in tempo a etichettarlo come il «18 de octubre negro» che gli eventi dello scorso venerdì sono stati già superati dallo tsunami dei giorni successivi. Di fronte a una rivolta sociale sicuramente disorganica, almeno in una fase iniziale, ma non per questo meno “rumorosa”, il governo ha in una prima fase tentato di strumentalizzare le circostanze, criminalizzando i manifestanti, ma nel giro di poco tempo ha perso completamente il controllo della situazione e, a conferma di un’estrema debolezza, ne ha delegato la gestione ai militari.

Si è così fatto ricorso dapprima alla Ley de Seguridad Interior del Estado, emanata alla fine degli anni ‘50 e poi riformata in piena dittatura civico-militare; poi si è dichiarato lo “stato di emergenza” per disturbi all’ordine pubblico nella capitale e successivamente in altre zone del paese.
A ciò ha fatto seguito il coprifuoco, misura che, alla pari delle precedenti, non veniva adottata dai tempi del dittatore Augusto Pinochet. Infine, in preda al panico, il presidente Sebastián Piñera ha sospeso il provvedimento che aveva dato il la alle manifestazioni di dissenso, ossia l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana, vanto del paese e già tra le più care del continente (e di tante altre capitali del mondo). 

Azioni che, tuttavia, non hanno fatto altro che provocare un’estensione e una radicalizzazione della protesta. Le dichiarazioni del leader del centrodestra relative alla presenza di un vero e proprio stato di guerra interna – che hanno richiamato alla memoria quel passato dittatoriale in cui la necessità di combattere il “nemico interno” venne addotta a giustificazione delle più atroci violazioni dei diritti umani che il Cile abbia mai conosciuto – hanno chiuso il cerchio, rappresentando l’ultimo atto di una settimana piena di disastrosi errori politici alla Moneda.

In molti, fra gli osservatori, anche in Italia, si sono detti sorpresi da questa “improvvisa” esplosione sociale e dalla successiva reazione dello Stato, autoritaria e antidemocratica, che ha riportato i militari nelle strade del paese dopo oltre trent’anni, causando un numero imprecisato di morti (che le autorità stimano in 18 ma che secondo fonti indipendenti sarebbero più del doppio), centinaia di feriti e migliaia di arresti in pochi giorni. Per non parlare dei saccheggi e delle devastazioni delle stazioni della metropolitana e di edifici pubblici e privati. 

Com’è possibile, si è affermato, che in quello che, da qualche decennio a questa parte, viene presentato come l’esempio stesso di transizione democratica perfettamente riuscita, possano accadere cose di questo tipo? Del resto si tratta di un paese modello, stabile politicamente e fra i più avanzati economicamente dell’America Latina, si è detto e scritto. 

E, se realmente è così che stanno le cose, da dove viene questa “inattesa” esplosione di rabbia collettiva? Si tratta, forse, del prodotto di qualche trama “sovversiva” internazionale, o della destabilizzazione ordita dai “claudicanti” (e non numerosi) governi della “sinistra radicale” latinoamericana, nei palazzi del potere all’Avana o a Caracas, con la connivenza di frange estreme locali?

In realtà, se si guarda agli ultimi decenni di storia cilena e, in modo particolare, al modo in cui si è prodotto il lento, graduale e incompiuto (ebbene sì, incompiuto) processo di transizione dai 17 anni di feroce dittatura pinochetista alla democrazia, il quadro assume contorni ben diversi e gli accadimenti odierni ci appaiono, non soltanto meno sorprendenti, ma addirittura per certi versi prevedibili. La visione “positiva” della transizione cilena che si è affermata nel corso degli anni è stata favorita, infatti, soprattutto da fattori di carattere macroeconomico. 

I risultati a lungo termine di quella che alcuni autori hanno definito la «rivoluzione capitalista del Cile», iniziata dalla dittatura a metà degli anni Settanta con la «politica di shock» avviata dal regime su impulso dei Chicago boys, sono stati, invero, indiscutibili: smantellamento del settore pubblico, privatizzazioni, razionalizzazione industriale con conseguente mobilità della forza lavoro, sostegno agli investimenti, svalutazione del peso rispetto al dollaro per favorire le esportazioni, controllo da parte della Banca centrale dei tassi d’interesse e così via, avevano permesso al regime autoritario cileno di consegnare alle forze democratiche un paese con i conti sostanzialmente in regola. 

Non a caso, fra il 1990 e il 2009, il Prodotto Interno Lordo cileno crebbe mediamente ad un ritmo del 5%, i salari reali lievitarono a loro volta in maniera vigorosa, così come aumentò vertiginosamente il volume delle esportazioni (addirittura del 102% solo fra il 1990 ed il 1997). In breve, il Cile venne presentato come la manifestazione concreta della possibilità di coniugare, e con successo, democrazia e libero mercato. 

Non è un caso se, nel corso degli anni Novanta, si giunse a parlare di «modello cileno di sviluppo», del Cile come un esempio, come un possibile riferimento per i paesi della regione e anche per le nazioni appartenenti ad altre “periferie” del pianeta . 

A questa sostenuta crescita economica, senza precedenti nella storia nazionale, che avrebbe portato alla definizione del paese in questione in termini di «giaguaro dell’America Latina», corrispose, peraltro, in quegli anni, un notevole attivismo sul piano internazionale, finalizzato a rompere l’isolamento politico ed economico in cui era stato confinato il vecchio regime per i crimini commessi e a proiettare all’esterno una nuova immagine del paese. 

Basti ricordare che, già alla metà degli anni Novanta, il Cile entrò a far parte dell’Asia-pacific economic cooperation, per poi aderire, poco dopo, all'Organizzazione mondiale del commercio; praticamente nello stesso periodo iniziò a partecipare attivamente ai lavori delle Nazioni Unite. 
Nondimeno, il Cile è stato il secondo paese latinoamericano, dopo il Messico (ma il primo dell’America meridionale) a firmare un Accordo di Associazione Economica con l’Unione Europea (entrato in vigore nel 2003), nonché la prima nazione occidentale a siglare un trattato di libero commercio con la Cina (2005), con accordi analoghi anche con Canada, Messico, Stati Uniti, Corea del Sud.

In realtà, ad analisi un po’ più attente e, se vogliamo, “disinteressate”, sono emerse tutte le profonde contraddizioni di questa transición pactada, e, più in generale, dell’evoluzione del processo politico ed economico cileno post-dittatoriale. 

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!