di Alessandro Guida e Raffaele Nocera*
I media cileni non hanno fatto in tempo a etichettarlo come il «18 de octubre negro»
che gli eventi dello scorso venerdì sono stati già superati dallo
tsunami dei giorni successivi. Di fronte a una rivolta sociale
sicuramente disorganica, almeno in una fase iniziale, ma non per questo
meno “rumorosa”, il governo ha in una prima fase tentato di
strumentalizzare le circostanze, criminalizzando i manifestanti, ma nel
giro di poco tempo ha perso completamente il controllo della situazione
e, a conferma di un’estrema debolezza, ne ha delegato la gestione ai
militari.
Si è così fatto ricorso dapprima alla Ley de Seguridad Interior del Estado,
emanata alla fine degli anni ‘50 e poi riformata in piena dittatura
civico-militare; poi si è dichiarato lo “stato di emergenza” per
disturbi all’ordine pubblico nella capitale e successivamente in altre
zone del paese.
A ciò ha fatto seguito il coprifuoco, misura che, alla
pari delle precedenti, non veniva adottata dai tempi del dittatore
Augusto Pinochet. Infine, in preda al panico, il presidente Sebastián
Piñera ha sospeso il provvedimento che aveva dato il la alle
manifestazioni di dissenso, ossia l’aumento del prezzo del biglietto
della metropolitana, vanto del paese e già tra le più care del
continente (e di tante altre capitali del mondo).
Azioni che, tuttavia,
non hanno fatto altro che provocare un’estensione e una radicalizzazione
della protesta. Le dichiarazioni del leader del centrodestra relative
alla presenza di un vero e proprio stato di guerra interna – che hanno
richiamato alla memoria quel passato dittatoriale in cui la necessità di
combattere il “nemico interno” venne addotta a giustificazione delle
più atroci violazioni dei diritti umani che il Cile abbia mai conosciuto
– hanno chiuso il cerchio, rappresentando l’ultimo atto di una
settimana piena di disastrosi errori politici alla Moneda.
In molti, fra gli osservatori, anche in Italia, si sono detti sorpresi
da questa “improvvisa” esplosione sociale e dalla successiva reazione
dello Stato, autoritaria e antidemocratica, che ha riportato i militari
nelle strade del paese dopo oltre trent’anni, causando un numero
imprecisato di morti (che le autorità stimano in 18 ma che secondo fonti
indipendenti sarebbero più del doppio), centinaia di feriti e migliaia
di arresti in pochi giorni. Per non parlare dei saccheggi e delle
devastazioni delle stazioni della metropolitana e di edifici pubblici e
privati.
Com’è possibile, si è affermato, che in quello che, da qualche
decennio a questa parte, viene presentato come l’esempio stesso di
transizione democratica perfettamente riuscita, possano accadere cose di
questo tipo? Del resto si tratta di un paese modello, stabile
politicamente e fra i più avanzati economicamente dell’America Latina,
si è detto e scritto.
E, se realmente è così che stanno le cose, da dove
viene questa “inattesa” esplosione di rabbia collettiva? Si tratta,
forse, del prodotto di qualche trama “sovversiva” internazionale, o
della destabilizzazione ordita dai “claudicanti” (e non numerosi)
governi della “sinistra radicale” latinoamericana, nei palazzi del
potere all’Avana o a Caracas, con la connivenza di frange estreme
locali?
In realtà, se si guarda agli ultimi decenni di storia cilena e, in modo
particolare, al modo in cui si è prodotto il lento, graduale e
incompiuto (ebbene sì, incompiuto) processo di transizione dai 17 anni
di feroce dittatura pinochetista alla democrazia, il quadro assume
contorni ben diversi e gli accadimenti odierni ci appaiono, non soltanto
meno sorprendenti, ma addirittura per certi versi prevedibili. La
visione “positiva” della transizione cilena che si è affermata nel corso
degli anni è stata favorita, infatti, soprattutto da fattori di
carattere macroeconomico.
I risultati a lungo termine di quella che
alcuni autori hanno definito la «rivoluzione capitalista del Cile»,
iniziata dalla dittatura a metà degli anni Settanta con la «politica di
shock» avviata dal regime su impulso dei Chicago boys, sono stati,
invero, indiscutibili: smantellamento del settore pubblico,
privatizzazioni, razionalizzazione industriale con conseguente mobilità
della forza lavoro, sostegno agli investimenti, svalutazione del peso
rispetto al dollaro per favorire le esportazioni, controllo da parte
della Banca centrale dei tassi d’interesse e così via, avevano permesso
al regime autoritario cileno di consegnare alle forze democratiche un
paese con i conti sostanzialmente in regola.
Non a caso, fra il 1990 e
il 2009, il Prodotto Interno Lordo cileno crebbe mediamente ad un ritmo
del 5%, i salari reali lievitarono a loro volta in maniera vigorosa,
così come aumentò vertiginosamente il volume delle esportazioni
(addirittura del 102% solo fra il 1990 ed il 1997). In breve, il Cile
venne presentato come la manifestazione concreta della possibilità di
coniugare, e con successo, democrazia e libero mercato.
Non è un caso
se, nel corso degli anni Novanta, si giunse a parlare di «modello cileno
di sviluppo», del Cile come un esempio, come un possibile riferimento
per i paesi della regione e anche per le nazioni appartenenti ad altre
“periferie” del pianeta .
A questa sostenuta crescita economica, senza
precedenti nella storia nazionale, che avrebbe portato alla definizione
del paese in questione in termini di «giaguaro dell’America Latina»,
corrispose, peraltro, in quegli anni, un notevole attivismo sul piano
internazionale, finalizzato a rompere l’isolamento politico ed economico
in cui era stato confinato il vecchio regime per i crimini commessi e a
proiettare all’esterno una nuova immagine del paese.
Basti ricordare
che, già alla metà degli anni Novanta, il Cile entrò a far parte
dell’Asia-pacific economic cooperation, per poi aderire, poco dopo, all'Organizzazione mondiale del commercio; praticamente nello stesso
periodo iniziò a partecipare attivamente ai lavori delle Nazioni Unite.
Nondimeno, il Cile è stato il secondo paese latinoamericano, dopo il
Messico (ma il primo dell’America meridionale) a firmare un Accordo di
Associazione Economica con l’Unione Europea (entrato in vigore nel
2003), nonché la prima nazione occidentale a siglare un trattato di
libero commercio con la Cina (2005), con accordi analoghi anche con
Canada, Messico, Stati Uniti, Corea del Sud.
In realtà, ad analisi un po’ più attente e, se vogliamo,
“disinteressate”, sono emerse tutte le profonde contraddizioni di questa
transición pactada, e, più in generale, dell’evoluzione del
processo politico ed economico cileno post-dittatoriale.