mercoledì 2 luglio 2025

Messico - 3 Post Scriptum 3 II.- P.S. DI RAZZE ED ALTRE DIFFERENZE.


3 POST SCRIPTUM 3

II.- POST SCRIPTUM DI RAZZE ED ALTREDIFFERENZE.
Un continente,
tanti colori.

Se dovessi colorare ogni area geografica di un colore diverso, quale sceglieresti?

Diciamo che, nel continente americano scegli il giallo, al limite dell’arancione. È un colore molto di moda nel nord di quel continente. Molto in linea con l’ICE gringo le cui truppe nascondono il volto per non mostrare che la loro pelle a volte è dello stesso colore dei perseguitati. “Beaners” o “frijoleros” è il termine dispregiativo che usano per descrivere le loro vittime, con questo doppio riferimento a ciò che mangiano e al colore della pelle. Usavano anche il termine “cafecitos” (“brownies“).

Il colore della pelle e le identità culturali sono, per chi detiene il potere e i suoi sicari, una risorsa per identificare il nemico da eliminare. L’esercito messicano (oggi così adorato dai progressisti che ieri lo criticavano) quando invase il territorio zapatista nel 1995 – frutto del tradimento di Ernesto Zedillo Ponce de León nel febbraio di quell’anno – attaccò le comunità (come fa oggi la cosiddetta Forza di Reazione Immediata Pakal del governo dello stato del Chiapas) per rubare i pochi beni degli indigeni. Durante l’invasione, gridavano: “Fottuti indios pozoleros!”.

Il paradosso è che, quando disertavano, i soldati attraversavano le stesse comunità che avevano saccheggiato implorando un po’ di… pozol.

Ma non lasciatevi distrarre dai ricordi politicamente scorretti di oggi. Stiamo parlando del colore della pelle.

C’è di più: per esempio, la lingua. Per Trump è chiaro che i “frijoleros” non solo parlano un inglese molto diverso, ma hanno anche creato una propria lingua.

Nel gennaio del 1994, quando decine di migliaia di agenti federali arrivarono in Chiapas per “abbattere i trasgressori della legge”, un ufficiale che disertò quando capì chi stavano cercando ci raccontò che chiesero all’alto comando come identificassero “gli zapatisti”. I generali risposero: “Sono bassi, di pelle scura, parlano male o per niente spagnolo e i loro costumi ricordano molto quelli di un museo o di un laboratorio artigianale”. I soldati si guardarono l’un l’altro. Milioni di persone corrispondevano a quella descrizione.

Riporto alla mente questo ricordo perché è il criterio “criminale” che l’ICE gringo utilizza per trattenere, picchiare, imprigionare e deportare i migranti.

Importa se il detenuto ha i documenti? No, ciò che conta è il colore della sua pelle, il suo slang, il suo gergo e la sua parlata (qui diciamo “il modo”), i suoi baffi, i suoi vestiti cadenti e il fatto che davanti a un hamburger e dei tacos scelga… tacos (“con coriandolo, cipolla, pomodoro e tanta salsa, per favore”). Se fa anche parte del movimento LGBTIQ+, beh, è un criminale con tutte le aggravanti del caso.

Nei primi anni della rivolta, nelle caserme dell’esercito federale fecero tutto il possibile per convincere le truppe ad attaccare gli zapatisti. Per esempio, presentarono spettacoli teatrali (una valida risorsa didattica) in cui il defunto SupMarcos era gay, omosessuale, checca, frocio, queer, mayate, mordi-cuscini o come si chiamano ora. Tutti volevano interpretare il ruolo del defunto perché, comunque fosse, quell’uomo era bello.

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Iniziamo con il colore della pelle, poi con la cultura, la lingua, l’altezza, il cibo, l’abbigliamento, l’identità sessuale ed affettiva, ecc. Ora aggiungi il suo status, legale o meno, essere di un’altra geografia come luogo di nascita o quello dei suoi antenati. Migrante, o di genitori, nonni o bisnonni migranti. Ecco il profilo del criminale da perseguire.

Ora, osserva qualsiasi geografia e identifica le persone che corrispondono a questo profilo “scientifico” (che metterebbe in imbarazzo qualsiasi serie TV americana in cui la polizia è sempre brillante, carina e, soprattutto, incorruttibile e rispettosa della legge) e vedrai che sono milioni.

Senza andare troppo oltre, il gabinetto di Trump include discendenti di migranti in posizioni chiave. Marco Rubio, Segretario di Stato, non ha un cognome molto anglosassone ed è figlio di migranti cubani. Kristy Noem, Segretario della Sicurezza Interna, è di origine norvegese. Senza (ancora) un incarico nel gabinetto c’è il senatore di estrema destra Ted Cruz, il cui padre è cubano e il cui nome è Rafael. Lori Chavez, Segretario del Lavoro, è di origine messicana. Trump è discendente di migranti e sua moglie è slovena di nascita.

Dato che è difficile fare distinzioni usando questi criteri, affrontiamo l’argomento spesso ripetuto: sono criminali. In realtà, ciò che non viene detto è che sono considerati “potenziali criminali”.

Lasciamo perdere il fatto che diversi membri di quel governo sono stati accusati di abusi sessuali e abuso di droga. Non è provato. Quindi concentriamoci su coloro che sono stati condannati, cioè processati e dichiarati colpevoli. Lo vedi? Sì, Donald Trump.

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Per quanto riguarda l’immigrazione, i cosiddetti, pretenziosamente, Stati Nazionali, di loro iniziativa e in seguito in coincidenza con la posizione della polizia statunitense, stanno facendo lo stesso. A sud degli Stati Uniti, il Messico ha attuato un’operazione criminale contro l’immigrazione dall’America Centrale e, attraverso di essa, da altri Paesi. L’Istituto Nazionale per le Migrazioni è una replica, in termini di illegalità, brutalità, arbitrarietà e violenza, della Polizia di Frontiera statunitense e dell’ICE. E il razzismo nella società non è da meno. Naturalmente, con le sue differenze. Negli Stati Uniti vengono picchiati, imprigionati e deportati. In Messico, vengono venduti ai cartelli, estorti, imprigionati, fatti sparire, assassinati… e bruciati vivi.

Nel Salvador, Bukele (formatosi alla scuola quadri dell’FMLN fattosi partito) li rinchiude e ne trasmette in televisione le condizioni. Questo non gli impedisce di intascare la sua parte dalla criminalità organizzata.

La storia si ripete negli altri paesi che hanno le loro fondamenta e la loro storia in quei colori scuri. Nel Cile progressista (sì) e nell’Argentina di Milei, la gente del luogo, il popolo Mapuche, è stato vessata per secoli (sebbene ne sia uscito vittorioso 10, 100, mille volte). Nel Brasile progressista, un etnocidio “silenzioso” è in atto in Amazzonia. Geografie come Ecuador, Bolivia, Perù e Colombia reprimono come meglio possono le proteste e le ribellioni degli indigeni, che sono del colore della terra.

Eppure, nelle vetrine del progressismo (che, paradossalmente, insiste nel rivendicare il passato), alcuni manichini “indigeni” a volte ostentano i loro abiti eleganti, aspirando, come servitù, a vedere il loro colore tollerato ai piani alti della piramide. Ovvero, come bigiotteria a buon mercato e sostituibile.

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Gli Stati Nazionali nascono dal saccheggio delle risorse. Ma non solo delle risorse, ma anche di identità, differenze e particolarità. Lo Stato Nazionale, con il mito della cittadinanza, impone omogeneità ed egemonizza. Bandiera, stemma, inno, forze armate, squadre sportive nazionali, storia e lingua ufficiali, valuta, struttura giuridica e amministrazione della giustizia contribuiscono tutti a soppiantare, attraverso l’imposizione violenta, differenze di colore, razza, lingua, genere e, si badi bene, posizione sociale, storia e cultura.

È “cittadino” il nero, il marrone, il giallo, il rosso e il bianco. Lo è l’alto e il basso; il grasso e il magro; l’uomo, la donna e loa otroa; il meticcio e l’indigeno; il padrone e il dipendente; il ricco e il povero.

In questo senso, il popolo originario espropriato del suo territorio è uguale a chi esegue l’ordine di sfratto e al funzionario “indigeno” che ha avallato il furto. La donna vittima di violenza è uguale a chi la fa sparire, la uccide o la aggredisce. La persona transgender è uguale al poliziotto che “eccede” nel compimento del suo dovere. La commessa di na caffetteria è uguale a Carlos Slim. E così via.

E queste “cittadinanze” si sostengono in una nazionalità che, a sua volta, supporta le argomentazioni a favore di genocidi, crimini di ogni portata e guerre… per eliminare i prescindibili.

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Se ci sono colori diversi in alto, in cima alla piramide, e sotto, alla base che sostiene il peso della ricchezza di chi sta sopra, qual è la differenza? Il posto nella piramide.

Con tutte le loro differenze, peculiarità e colori, coloro che stanno alla base di questa struttura hanno in comune che sono sacrificabili. E, proprio per questo, le guerre (in tutte le loro forme) servono a liberarsene.

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In ogni angolo di questo pianeta, anche il più remoto, c’è una piramide media, grande o piccola. Si considera eterna, potente e indistruttibile.

Finché qualcuno non dice “basta”, diventa collettivo organizzato e la abbatte al grido di…

¡A la chingada el pirámide!
اللعنة على الهرم
jebem ti piramidu
γαμώ την πυραμίδα
Fuck the pyramid
scheiß auf die Pyramide
fanculo la pirámide
putain la pyramide
merda á pirámide
мамка му, пирамидата
屌個金字塔
a la xingada la pirámide
ser*u na pyramidu
他妈的金字塔
피라미드 엿먹어
kneppe pyramiden
do kelu pyramídu
kurat püramiidist
vittu pyramidi
joder pe pirámide rehe
לעזאזל עם הפירמידה
neuk de pirámide
baszd meg a piramis
tada leis an pirimid
fokkið við pýramídanum
ピラミッドなんてクソくらえ
pîramîdê qelandin
Pyramidem in malam rem!
Ssexsi lpiramid
xijtlasojtla nopa pirámide
knulle pyramiden
لعنت به هرم
pieprzyć piramidę
foda-se a pirámide
pirámide nisqawan joder
la dracu’ cu piramida
к черту пирамиду
је*и пирамиду
knulla pyramiden
piramiti siktir et
до біса піраміду
piramideari madarikatua
shaya iphiramidi

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Ma, al suo posto creiamo un’altra piramide?

O qualcosa di diverso?

Forse in un incontro di alcune parti del tutto si potrà insinuare una risposta.

Dalle montagne del Sudest Messicano.

El Capitán

Giugno 2025

Testo originale: https://enlacezapatista.ezln.org.mx/2025/06/30/3-posdatas-3-ii-posdata-de-razas-y-otras-diferencias-un-continente-muchos-colores/

Traduzione Maribel - Bergamo

domenica 29 giugno 2025

Messico - 3 Post scriptum 3. I.-P.S. GLOBALIZZATO.

 

3 Post scriptum 3.

I.-P.S. GLOBALIZZATO.

Un pianeta, molte guerre.

Nota: Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della Sesta Dichiarazione e il quinto anniversario della Dichiarazione per la Vita. Con la VI abbiamo chiaramente espresso la nostra posizione anticapitalista e la nostra distanza critica dalla politica istituzionale. Attraverso la Dichiarazione per la Vita, cerchiamo di ampliare l’invito ad una condivisione di resistenze e ribellioni. Per i nostri compagni della Sexta e della Dichiarazione per la Vita, questi sono stati anni difficili; tuttavia, abbiamo perseverato, senza arrenderci, senza svenderci e senza cedere. La tormenta non è più un cattivo presagio; è una realtà presente. Pertanto, i seguenti poscritti riaffermano il nostro impegno, il nostro affetto e il nostro rispetto per coloro che, pur essendo differenti e diversi, condividono una vocazione e un destino secondo i propri modi, tempi e geografie.

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Tutte le guerre sono straniere finché non bussano alla tua porta. Ma la Tormenta non bussa prima. Quando la senti, non hai più porta, né muri, né tetto, né finestre. Non c’è più casa. Non c’è più vita. Quando se ne va, rimane solo l’odore dell’incubo mortale.

Presto arriverà poi la puzza di gasolio e benzina delle macchine, il rumore con cui si costruisce ciò che è stato distrutto. “Ascolta”, dice la bestia dorata, “quel suono annuncia l’arrivo del progresso”.

Così, fino alla prossima guerra.

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La guerra è la patria del caos, del disordine, dell’arbitrarietà e della disumanizzazione. La guerra è la patria del denaro.

L’uso di missili, droni e velivoli controllati dall’Intelligenza Artificiale non è “l’umanizzazione” della guerra. Piuttosto, è un calcolo economico. Una macchina è più redditizia di un essere umano. Sono più costose, è vero. Ma, insomma, è un investimento a medio termine. La loro capacità distruttiva è maggiore. E non ci sono problemi poi con rimorsi di coscienza, veterani con disabilità fisiche e mentali, cause legali, proteste, “body bags” e processi inutili in tribunali internazionali.

Così sarà finché lo spargimento di sangue dell’aggressore non tornerà a essere redditizio.

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È solito calcolare quante persone potrebbero essere sfamate con i soldi spesi in guerre predatorie. Ma, oltre ad essere inutile, fare appello alla sensibilità e all’empatia del Capitale, non è corretto.

Ciò che va quantificato è quanto profitto genereranno il centro commerciale e l’area turistica costruiti su un cumulo di cadaveri nascosti sotto le macerie (nascoste, a loro volta, sotto gli hotel e i centri ricreativi). Solo così potremo comprendere la vera natura di una guerra.

Le fondamenta della civiltà moderna non si costruiscono con il cemento, ma con carne, ossa e sangue, tanto sangue.

Il sistema distrugge, poi vende la sostituzione. Alle città distrutte seguirà un paesaggio di condomini, grattacieli scintillanti, centri commerciali e campi da golf così intelligenti che persino Trump vincerà, mentre Netanyahu terrà conferenze sui diritti umani, Putin organizzerà corse di orsi siberiani e Xi Jinping venderà i biglietti. Un’insegna raffigurante la moneta splenderà in cima alla piramide che riunisce il culto del denaro.

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Nelle ultime guerre, l’arrogante Europa di sopra ha svolto il ruolo di testa di ponte. Ciò è in linea con il suo ruolo di zona ricreativa e di intrattenimento del Capitale. Il cosiddetto “eurocentrismo” fa ormai parte di un passato nostalgico e stantio. Il corso di questa Europa viene deciso dai consigli di amministrazione degli azionisti e dalle lobby delle grandi aziende. Il capo di Amazon celebra le sue nozze nella piscina della sua casa di campagna (Venezia) e la NATO è la succursale di distribuzione e cliente dei beni più redditizi: le armi.

I governi degli Stati Nazionali di quel continente abbassano il volto pudicamente di fronte al “Padre Padrone”, dal quale sognano di emanciparsi arruolandosi nell’esercito del Capitale. Non più nel futuro, ma adesso (come in Ucraina) il Capitale fornisce le armi, l’Europa fornisce i morti presenti e futuri, Putin fornisce gli ologrammi di un mix di zarismo e URSS, e Xi Jinping affina la sua proposta alternativa di piramide sociale.

Lì vicino, non la prole di Trump, ma gli eredi delle grandi aziende sognano una vacanza in una Palestina libera… dai palestinesi. Netanyahu, o un suo equivalente, sarà il cortese anfitrione che, dopo cena, intratterrà i visitatori con aneddoti su bambini, donne, uomini, anziani, ospedali e scuole uccisi dalle bombe e morti di fame. “Ho risparmiato milioni usando i centri di distribuzione alimentare come riserve di caccia”, si vanterà servendo lo Zibdieh. I commensali applaudiranno.

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La guerra è la prima opzione del Capitale per sbarazzarsi dell’eliminabile. Religione, correttezza o scorrettezza politica (che ormai non ha più importanza), discorsi infuocati e storie eroiche inventate dall’Intelligenza Artificiale, cessate il fuoco con esplosioni e spari come sottofondo musicale, tregue dettate dalle società di brokeraggio e dai prezzi del petrolio: tutto questo è solo la scenografia.

I vari dei fingono di essere impegnati ad impartire morte e distruzione da entrambe le parti. E il vero dio, che può tutto ed è ovunque, il Capitale, rimane discreto. O forse no, il cinismo è ormai una virtù. Dietro tutto questo si cela la cosa più importante: il bilancio delle grandi aziende e delle banche.

Il diritto internazionale sui conflitti militari è obsoleto da decenni. Nelle guerra moderna l’ONU è solo un riferimento per le celebrazioni scolastiche. Le sue risoluzioni non vanno oltre la dichiarazione di una concorrente ad un concorso di bellezza: “Desidero la pace nel mondo”.

Gli eserciti del Capitale sono l’equivalente dei servizi di consegna a domicilio. Ed alcuni, geograficamente distanti dal luogo di consegna, lo valutano così: “5 stelle per Netanyahu”. Nella corsa al premio di “fattorino dell’anno”, Trump, Putin e Netanyahu primeggiano, certo. Ma il sistema avrà sempre la possibilità di scegliere altri… o altre (non dimentichiamo la parità di genere).

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Attraverso i mass media, compresi i social media, le geografie lontane dal territorio aggredito assumono il ruolo di spettatori. Come se fosse una partita sportiva scelgono il loro favorito, schierandosi. Applaudono una parte e fischiano l’altra. Gioiscono per i successi e si rattristano per i fallimenti dei contendenti. Nelle tribune dei commentatori gli esperti abbelliscono lo spettacolo. “Geopolitica”, la chiamano. E anelano a un cambio di dominatore, non a cambiare il rapporto di cui sono vittime.

Dimenticano forse che il mondo non è uno stadio. Assomiglia piuttosto a un gigantesco Colosseo dove le future vittime applaudono mentre aspettano il loro turno. Non sono gladiatori in sala d’attesa; sono le prede che cadranno preda delle macchine da guerra. Nel frattempo, bot con tutti gli avatar e i soprannomi più ingegnosi guidano gli applausi, i boati e le acclamazioni; e, al loro momento, il suono di lacrime e lamenti.

Dal suo palco d’onore, il Capitale riceve gli applausi del pubblico e ascolta ciò che gli spettatori gridano con mute parole: “Ave Caesar, morituri te salutant” [“Ave Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano”].

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Tuttavia…

Un giorno, sulle rovine della storia, giacerà il cadavere di un sistema che si credeva eterno e onnipresente. Prima di quell’alba, parlare di pace è solo sarcasmo per le vittime. Ma quel giorno, il sole d’Oriente contemplerà, sorpreso, una Palestina viva. E libera, perché solo liberi si può vivere.

Perché c’è chi dice “NO”.

C’è chi non vuole cambiare padrone, ma piuttosto non averne uno.

C’è chi resiste, si ribella… e si rivela.

Dalle montagne del Sudest Messicano.

El Capitán

Giugno 2025

 

Traduzione Maribel 

Testo originale: https://enlacezapatista.ezln.org.mx/2025/06/28/3-postdatas-3-i-pd-globalizada-un-planeta-muchas-guerras/

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!