mercoledì 2 settembre 2009

Turchia: Pkk; curdi in piazza chiedono pace "onorevole"


Migliaia di curdi si sono radunati ieri 1 settembre in una delle principali piazze di Diyarbakir, la maggiore città curda della Turchia nel sud-est del paese, per chiedere una pace "onorevole" in attesa delle riforme sociali ed economiche promesse dal governo del premier Reçep Tayyip Erdogan per porre fine al conflitto curdo.

Alla manifestazione, organizzata dal filo-curdo Partito per una Società Democratica (Dtp, guidato da Ahmet Türk), hanno partecipato circa 20'000 persone affluite in città da tutta la regione. La gente ha ballato danze e intonato canti tradizionali mentre tanti manifestanti innalzavano striscioni e manifesti con su scritto "Sì ad una pace onorevole" e "la soluzione della questione curda non può essere rinviata". Ma si sono viste anche tante gigantografie con il volto del leader curdo imprigionato Abdullah Ocalan.

La manifestazione, organizzata nel giorno in cui i curdi festeggiano la loro Giornata della pace, viene a poche settimane dall'avvio, da parte del governo, di un'iniziativa tesa a trovare una soluzione alla questione curda, ovvero la lotta separatista dei curdi che ha provocato la morte di circa 40 mila persone negli ultimi 25 anni. Nel piano di pacificazione del governo sarebbero comprese misure a favore dell'uso pubblico della lingua curda e piani di investimento per la creazione di posti di lavoro nelle più povere regioni della Turchia a maggioranza curda.

Ieri, intanto, il ministro degli interni Besir Atalay ha annunciato che il governo presenterà al parlamento un piano d'azione in proposito ai primi di ottobre ma ha escluso che verrà concessa un'amnistia per i ribelli del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) considerati a tutti gli effetti terroristi non solo da Ankara ma anche dagli Usa e dall'Ue. I vertici del Pkk, da parte loro, hanno reso noto di aver esteso la tregua unilaterale decretata mesi fa (ma non riconosciuta dalle autorità turche) che adesso scadrà alla fine del mese sacro del Ramadan, il 22 settembre prossimo.

Guerra al narcotraffico

La strategia del governo messicano tende al fallimento: i morti aumentano, droga e soldi continuano a fluire, la società paga il prezzo.


di Matteo Dean

La chiamano 'guerra contro il narcotraffico'. È stata lanciata così, in pompa magna, davanti alle centinaia di telecamere dei mezzi di comunicazione che riprendevano il neo presidente messicano, Felipe Calderon, in uno dei suoi primi discorsi pubblici, verso la fine di dicembre 2006. E da allora, colui che si era presentato alle elezioni – vinte grazie ad alcune irregolarità – come il “presidente del lavoro” (inteso come posti di lavoro), divenne il presidente della 'guerra al narco', della battaglia 'epocale' contro i potentissimi cartelli messicani della droga. Sin da quei primi mesi, lo slogan ottenne il successo desiderato: nonostante la scarsa legittimità di cui godeva Calderon, la nuova impresa dello Stato contro la criminalità organizzata che “insanguina le nostre terre e offre droga ai nostri figli” sembrava ottenere quel consenso non pienamente ottenuto alle urne. Ed allora il via ufficiale alla crociata anti-criminalità: 70.000 soldati utilizzati in funzione di polizia, nuove leggi che permettono maggiore agilità 'giuridica' e libertà operativa per le forze di polizia e per gli inquirenti, firma dell'Iniziativa Merida, piano strategico che prevede il finanziamento per circa 1.4000 milioni di dollari in tre anni da parte del governo americano per la 'lotta al narcotraffico', ecc..

Ad oggi, 32 mesi dopo il lancio delle operazioni, il bilancio è tragico: oltre 13.000 morti, con un aumento del 100% tra il 2008 e il 2009, visto che si è passati da una media di 10,2 morti al giorno dello scorso anno a ben 20,1 di quest'anno. E, purtroppo, non vi sono segnali di una controtendenza a questa vertiginosa crescita. Certo, si dice, i morti sono tutti narcotrafficanti, grandi e piccoli, che si uccidono tra loro, nella battaglia campale che si è scatenata da quando il governo messicano, lanciando la sua 'guerra', ha tagliato la testa a praticamente tutti i grandi cartelli della droga. Una guerra interna, si dice, che “dimostra l'efficacia dell'attuale politica dello Stato”, dicono presso il plenipotenziario Ministero della Pubblica Sicurezza (SSP, l'acronimo in spagnolo). Quel che è vero, però, è che gli scontri tra le bande di narcotrafficanti non avvengono nelle ore notturne, i luoghi isolati e lontani dagli occhi della popolazione. Al contrario, le sparatorie ormai si realizzano nei centri cittadini delle grandi città, da Guadalajara a Monterrey (rispettivamente la seconda e la terza città più grande del paese), da Ciudad Juarez a Tijuana, da Acapulco e Città del Messico. Ed allora le cifre potrebbero aumentare, perché molte volte le cronache giornalistiche riportano l'esistenza di vittime 'civili', tra i passanti, tra i comuni cittadini costretti ad assistere impotenti a questo scontro senza precedenti. Ma purtroppo, di queste vittime, ancora non c'è una statistica ufficiale che, pur riducendo le vite in semplici numeri, riesca comunque ad offrire un panorama anche di questo genere d'impatto sulla società. Dall'altra parte, poche sono anche le informazioni relative alle morti, pure copiose, tra le forze dell'ordine, attaccate ormai con quotidiana regolarità dalla potente macchina militare del narcotraffico. Il governo lo ha ammesso ormai da diversi mesi: “I cartelli sono militarmente superiori a noi, in quanto a volume di fuoco e capacità distruttiva”. Detto in altre parole: i narcotrafficanti hanno più uomini – si calcola che in tutto il giro d'affari ci lavorino circa 2 milioni e mezzo di persone – ed armi più potenti – da bazooka a missili terra-aria. Insomma, la guerra è vera e non risparmia colpi.

Ma se la campagna presidenziale – perché ormai, tra critiche ed opinioni contrarie, sembra che solo Calderon ed il suo staff continuino a credere nell'attuale strategia – sembra destinata ad aumentare ulteriormente il numero di morti nel paese, sorge da più parti la domanda rispetto il reale obiettivo di tanta “violenza legittima”. Perché è pur vero che molti – ma non tutti: esemplare il caso di Joaquín 'el Chapo' Guzman – dei grandi capos della droga son finiti dietro alle sbarre, ma è questo forse l'unico risultato concreto ottenuto: sull'altro versante, infatti, ormai non si contano i municipi commissariati, le cui polizie locali sono state sostituite dall'esercito; non si conta il numero di armi presenti nel paese; non si contano i giovani – e meno giovani – che oggi, disoccupati e in crisi perenne da ben prima della temibile 'crisi economica', entrano a far parte dell'affare-narcotraffico. Così come, infine, è difficile oggi distinguere con chiarezza le reali operazioni anti-criminalità da quelle contro le organizzazioni sociali, più o meno civili.

La presenza dell'esercito nello stato di Guerrero, per esempio, incluso nelle vie della rinomata Acapulco, ha già prodotto scontri a fuoco, di una certa rilevanza, tra le forze armate e gruppi armati appartenenti alle diverse sigle guerrigliere presenti nel territorio. In altre zone del paese, Oaxaca e Chiapas per esempio, ma anche nel nord della repubblica, sono ormai all'ordine del giorno le denunce di organizzazioni sociali - assolutamente non guerrigliere, ma semplicemente radio comunitarie, contadini, comunità indigene, studenti, ecc. - rispetto ai presunti abusi ed alle violazioni ai diritti umani realizzate dalle truppe dell'esercito nelle vesti della pubblica sicurezza. In questo senso, non solo sono allarmanti le denunce, ma ancor più inquietante risulta essere la risoluzione della Suprema Corte di Giustizia della Nazione (SCJN) emessa a principio di agosto rispetto all'immunità di cui godono le truppe. Dice la risoluzione: i militari colpevoli di violazioni al codice penale saranno giudicati dagli organi di giustizia militari. Un colpo tremendo, soprattutto per tutti coloro – tra cui diversi settori della classe politica rappresentata in Parlamento – che pongono il dubbio sulla reale legittimità nell'uso delle forze armate in funzioni di polizia.

Il dibattito rispetto l'immunità dei militari non è sterile. Al contrario, si genera a partire da fatti concreti: omicidi 'involontari', magari a qualche posto di blocco dove un'automobile innocente non si è fermata all'alt pronunciato dall'esercito; arresti arbitrari, incursioni senza mandato in case e spazi privati; torture ed abusi fisici agli interrogati; alcune sparizioni sospette. Ma la polemica, come suole accadere, si accende solamente quando l'ombra del dubbio è segnalata dalle voci 'importanti'. La consegna dei finanziamenti previsti dall'Iniziativa Merida, infatti, è condizionata dal rispetto dei diritti umani nella lotta al narcotraffico. La legge emessa in aprile di quest'anno dal Congresso statunitense, infatti, vincolava il 15% del finanziamento ad uno studio in fase di realizzazione che certifichi tale rispetto. Il presidente Calderon nega gli abusi. Il Ministero della Difesa ne ammette una decina e conferma che la giustizia militare sta facendo il suo corso. Ma le organizzazioni sociali hanno altri dati: Amnesty International, Human Rights Watch ed altre documentano decine e decine di casi, in tutto il paese.

Rosario Ibarra, oggi senatrice della Repubblica, ma da oltre trent'anni attenta e testarda lottatrice per la consegna delle centinaia di desaparecidos della cosiddetta 'guerra sporca' degli anni '70, tra cui il figlio Jesus Ibarra, avverte che la presenza di tanti soldati nelle strade messicane potrebbe avere anche altre finalità: “Giustificano tutto con la lotta al narcotraffico, ma la gente continua a morire e pochi sono gli arresti”. Aggiunge: “Cercano di abituare la popolazione alla presenza militare per le strade. Fanno in modo che la gente esiga questa presenza, con l'illusione di risolvere il problema dell'insicurezza”. E conclude: “In realtà temo che il prossimo passo ci saranno gli escuadrones de la muerte”(l'ipotesi, purtroppo, si starebbe confermando). Carlos Montemayor, scrittore ed analista politico, coincide nell'analisi: “È evidente che la situazione è scappata al controllo del governo”. In quest'ottica e nel contesto dell'attuale crisi economica – che ha portato all'aumento 'ufficiale' nel numero di poveri in Messico: 53,1 milioni, secondo l'INEGI, l'istituto nazionale di statistiche -, spiega, “si stanno chiudendo le valvole di sfogo naturali alla pressione sociale crescente, ovvero emigrazione (il Messico espelleva, sino all'altr'anno, quasi un milione di persone verso gli USA) e il lavoro informale (o lavoro 'nero', di cui farebbe parte il 48% della Popolazione Economicamente Attiva)”. Quel che resta, conclude “è che la gente senza lavoro andrà ad ingrossare le fila del narcotraffico”. È evidente dunque che, come spiega Johan Galtung, “le ragioni per le quali la gente accetta di lavorare per i cartelli è che desidera uscire dalla miseria” e quindi “ si devono offrire valide alternative economiche alla popolazione”. Ma il governo messicano non ci sente per quell'orecchio e continua ad inviare soldati nelle 'zone calde' del conflitto. Continua Galtung: “Per il governo il problema non è la miseria, ma il narcotraffico, perché questo offre un'alternativa alla miseria di milioni” e di conseguenza ottiene tendenzialmente maggiore consenso. L'attuale militarizzazione del paese, dunque, potrebbe essere letta in un'ottica che comprenda il lungo termine. L'opinione di Galtung, largamente condivisa da Montemayor, è che “il governo teme il 2010, per l'effetto simbolico che produrrà”. Il prossimo anno, infatti, si celebreranno due importanti anniversari: i duecento anni dell'Indipendenza (1810) e i primi cent'anni della Rivoluzione (1910). Secondo i più queste due date “obbligheranno i messicani a chiedersi se gli obiettivi di quei due momenti storici sono stati raggiunti”. In altre parole, nel 2010 i messicani dovranno dire se il Messico è oggi veramente indipendente e veramente democratico. Secondo Galtung il governo messicano teme realmente una rivolta generalizzata nel paese. Le condizioni vi sarebbero tutte e dunque “la presenza dei militari nel territorio, nella società, risponde anche ad altre necessità: abituare la gente alla presenza militare; lanciare un segnale chiaro a chiunque abbia in mente di ribellarsi, 'siamo pronti'; e infine abituare gli stessi militari a stare per le strade, in mezzo alla gente”. Se tutto ciò fosse vero, dunque, rimane una sola domanda a cui rispondere: “La guerra che il governo messicano realizza contro chi è? Contro le bande di narcotrafficanti o contro la popolazione?”.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!