giovedì 1 ottobre 2009

17 città russe rischiano la chiusura. E il trasloco

Baikalsk, una tipica "monocittà" siberiana

Il quotidiano economico russo Vedomosti (”notiziario”) ha pubblicato un documento elaborato dal governo federale che riguarda il problema delle cosiddette “monocittà”, centri urbani che dipendono in modo vitale da un’unica azienda industriale o mineraria. Il documento, messo a punto dal ministero per lo sviluppo regionale, vede forse per la prima volta la questione in un’ottica abbastanza drammatica: vi si parla di almeno 400 centri che rientrano nella categoria delle monocittà (due i parametri che definiscono una monocittà: avere almeno il 25 per cento della popolazione attiva cittadina impiegata in un’unica azienda, oppure avere almeno il 50 per cento del reddito lordo cittadino prodotto da un’unica azienda) e di almeno 17 città “che potrebbero collassare in qualunque momento” senza un adeguato intervento statale, dato lo stato di crisi grave in cui versano le rispettive aziende.

Non si tratta di un problema marginale. Le 400 città esaminate dal ministero ospitano quasi un quarto della popolazione globale della Russia e, prima della crisi economica che imperversa da un anno a questa parte, creavano il 40 per cento del Pil nazionale; inoltre sono quasi tutte collocate in regioni lontane e poco ospitali della Siberia e del “Grande Nord” russo – eredità dei vari tentativi dei pianificatori sovietici di portare lo sviluppo in queste regioni attraverso la creazione di grandi impianti industriali o lo sfruttamento delle risorse minerarie locali – e dunque sono prive di una rete di comunicazioni ravvicinate con altre città o anche solo di un hinterland agricolo. Se l’industria intorno a cui sono state costruite va in crisi, è il collasso. Casi del genere si sono già verificati in passato, soprattutto negli anni ‘90, e hanno creato un clima di allarme e timore nella popolazione, che in effetti da allora ha iniziato a diminuire a un ritmo più sostenuto rispetto al resto del paese. Chi poteva trovare una sistemazione altrove, insomma, se ne è andato fin che era in tempo, e così regioni industrialmente importanti come quelle di Sverdlovsk e Irkutsk in Siberia, o il distretto di Khanty-Mansiisk, hanno visto ridursi in modo impressionante la popolazione già prima della crisi: e con il calo drastico della popolazione sono anche diminuiti i posti di lavoro non industriali, nella scuola e negli altri servizi pubblici, nel commercio e via dicendo.

Il ministero rivela che oltre 250 città sono state messe nell’elenco dei centri da tenere sotto monitoraggio per intervenire con apposite misure di sostegno prima che scivolino verso situazioni di crisi; per una sessantina di questi centri si prevede in effetti un brusco peggioramento delle condizioni già nei due anni a venire, mentre per altri 17, come si detto all’inizio, la crisi è già in atto in modo devastante e “richiede una risposta urgentissima”. Quale possa essere questa risposta, è presto detto: se non c’è modo di ripristinare a brevissimo termine una fonte di reddito, la popolazione deve essere trasferita altrove e la città abbandonata e chiusa. Il governo ha già deciso questa misura per due cittadine della repubblica autonoma di Komi precipitate in “una situazione economicamente insostenibile”. Gli impianti industriali intorno ai quali si reggevano sono vecchi, “usano tecnologie che hanno 40 anni e più” e per giunta “sono collocate a grande distanza dai mercati” cui è destinata la loro produzione: inevitabile la loro chiusura, che significa anche fine delle forniture di elettricità e riscaldamento, e fine della più gran parte degli introiti che i municipi utilizzano per pagare i dipendenti pubblici…

Dove andrà a finire la popolazione “traslocata” ? Fortunatamente si tratta di “solo” poche migliaia di persone – per ora – e quindi il loro trasferimento avverrà su base familiare o di piccoli gruppi, in varie località: ma se il problema arriverà a porsi per centri più grandi, le cose diventeranno ovviamente molto, molto più complicate. Quanto alle monocittà che sono a rischio ma non ancora in situazione catastrofica, il governo le include in quattro categorie: quelle che sono abbastanza grandi da poter vivere comunque, quelle che hanno un potenziale economico “unico” in Russia, quelle che sono comunque vicine alle maggiori vie di comunicazione e quelle che possono essere “reindirizzate verso uno sviluppo agricolo”. Il documento del governo, infine – ma è forse la parte più importante – indica che a finanziare le misure di sostegno o di riconversione di queste monocittà saranno chiamate in primo luogo proprio le aziende, che finora “hanno considerato che i guadagni erano i loro e le perdite erano dello stato”.

di Astrit Dakli

Lacrime di Camara


Il capo della giunta militare al potere cerca di smarcarsi dalla strage compiuta lunedì dalle forze dell’ordine, che hanno sparato contro una manifestazione dell’opposizione: 157 morti, 1200 feriti. Unanime condanna della comunità internazionale. Rimane alta la tensione.

La giunta militare al potere in Guinea dal 23 dicembre dello scorso anno non si smentisce. Ha dichiarato oggi e domani giornate di lutto nazionale - lutto che essa stessa ha provocato, nonostante le patetiche smentite del capitano Moussa Dadis Camara, capo della giunta - e contemporaneamente vietato ogni «raduno di carattere sovversivo». L'obiettivo a breve è fare in modo che il 2 ottobre, festa dell'indipendenza (dalla Francia, 1958), trascorra senza altre tensioni.

Lunedì scorso, nella capitale Conakry, le forze dell'ordine hanno sparato su una manifestazione dell'opposizione uccidendo 157 persone e ferendone 1.200. Queste sono le cifre riferite dall'organizzazione guineana di difesa dei diritti dell'uomo. I manifestanti protestavano contro la ventilata candidatura alle presidenziali del 31 gennaio 2010 del capitano Camara, il quale dopo aver sbandierato per mesi che avrebbe restituito il potere ai civili aveva di recente manifestato l'intenzione di candidarsi. Intenzione che è stata subito stigmatizzata dalla comunità internazionale.

Va ricordato che i militari si sono impadroniti delle leve di comando nove mesi fa, poco dopo l'annuncio della morte del presidente Lansana Conté, alla guida del paese dell'Africa occidentale per 24 anni. Oltre alle presidenziali, dovrebbe svolgersi, il 26 marzo 2010, anche le elezioni per il rinnovo del parlamento.

Il capitano Camara ha ribadito anche stamani di non sentirsi responsabile di quanto accaduto perché non sarebbe nelle condizioni di controllare pienamente l'esercito. «Dire che io controllo l'esercito - ha affermato - è pura demagogia».

Mamadi Kaba, una della voci della società civile guineana, ha dichiarato all'agenzia France Presse che la popolazione è intenzionata a continuare la resistenza e che anche i prossimi giorni saranno difficili. Secondo Kaba, «in seno all'esercito, c'è una milizia al soldo di Camara, determinata a uccidere e pronta a commettere crimini ancora più gravi di quelli di lunedì».

Sul piano internazionale non si è fatta attendere la condanna delle violenze: dall'Unione africana all'Unione europea, dalle Nazioni Unite alla Comunità economica dell'Africa occidentale (Cedeao), da Parigi a Washington a Londra. La Francia ha sospeso la cooperazione militare e ha annunciato il riesame del suo aiuto bilaterale. Quanto all'Unione europea, aveva già congelato il proprio aiuto allo sviluppo dopo il colpo di stato dello scorso dicembre. La Guinea è grande poco meno dell'Italia e ha 10 milioni di abitanti con un reddito pro-capite di 1.100 dollari l'anno.

tratto da Nigrizia - 30/9/2009

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!