mercoledì 28 ottobre 2009

Angolagate: dalla Francia all'Angola i trafficanti d'armi


In Francia la notizia è sulle prime pagine dei giornali: il figlio dell'ex presidente francese Francois Mitterand e l'ex ministro degli Interni Charles Pasqua (nella foto) sono stati condannati per il ruolo ricoperto nel traffico illegale di armi con l'Angola.

Le condanne sono state per Jean-Christophe Mitterrand a due anni di reclusione con la condizionale e al pagamento di 375 mila euro e per Charles Pasqua la condanna è stata di 3 anni, di cui due sospesi, e al pagamento di 100 mila euro.

Il processo si basava sull'accusa di aver accettato delle tangenti per favorire la vendita di armi all'Angola, nel periodo 1993-98, andando contro la legislazione francese.

Oltre ai due nel processo erano imputati il miliardario russo-israeliano Arkady Gaydamak e l'uomo d'affari francese Pierre Falcone. Per loro la condanna è stata in contumacia a sei anni di prigione per aver organizzato il traffico di armi.

Nella sentenza si afferma che Gaydamak e Falcone sono colpevoli di aver comprato carri armati, elicotteri e munizioni per artiglieria per un valore di 800 milioni di dollari e di averli rivenduti in Angola, durante la guerra civile, attraverso una società francese e la sua filiale nell'Europa dell'Est.

Pasqua subito dopo la sentenza ha chiesto che venga tolto il segreto su tutte le operazioni di vendita d'armi, affermando che anche altri componenti del Governo erano non solo al corrente di questa ma anche di altre operazioni del genere e non disdegnavano di trarne profitto.

Da Le Monde

Articolo sulla sentenza

Articolo sulle dichiarazioni di Pasqua

Nigeria - Il Mend annuncia un cessate al fuoco

Si annuncia l'apertura dei negoziati


La pace nella regione petrolifera del Delta del Niger, nel sud della Nigeria, non sembra essere stata mai così vicina. Il Mend, Movimento per l'Emancipazione del Delta del Niger, principale gruppo armato della regione, ha annunciato a partire da ieri un cessate il fuoco a tempo indefinito, per permettere di avviare dei negoziati con il governo federale di Abuja.


In un comunicato il Mend si dice «pronto a impegnarsi in un dialogo serio con qualsiasi gruppo o individuo con l'obbiettivo di una pace durevole nel Delta del Niger».
Il gruppo armato, le cui azioni, riprese con forza nel 2006, hanno provocato un calo di circa un terzo della produzione di petrolio in Nigeria, accusa il governo federale di non ridistribuire in modo equo i ricavi delle risorse petrolifere della regione.

La trattativa e il dialogo con le autorità federali è portata avanti da un team di cui fanno parte nomi eccellenti, tra cui anche il Premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka.
Venerdì 23 ottobre, fonti non confermate parlavano di un incontro già avvenuto tra il team di mediatori e il presidente Umaru Yar'Adua, che aveva incontrato a sua volta una settimana fa uno dei principali leader del movimento, Henry Okah.

Processato per alto tradimento e il traffico di armi, dopo il suo arresto in Angola, Okah, è stato rilasciato lo scorso luglio, dopo due anni di prigione, per aver accettato l'amnistia offerta in giugno dal presidente nigeriano. Con il provvedimento, scaduto lo scorso 4 ottobre, il Mend sembra aver perso i principali comandanti militari, oltre a migliaia di militanti. 15 mila secondo le stime del governo di Abuja.
Fino allo scorso 20 ottobre, il governo non ha mai fatto riferimento ad un tavolo di confronto politico con le comunità che vivono nella regione, messe in ginocchio dai disastri ambientali provocati dalle multinazionali del petrolio.

La svolta è arrivata proprio lunedì scorso: Emmanuel Egbogah, consigliere per le risorse petrolifere del presidente Yar'Adua, ha annunciato lo stanziamento del 10% dei proventi petroliferi del paese, in favore dello sviluppo delle regioni del Delta. La mossa del Mend, sembra essere la diretta conseguenza della proposta.

Tratto da:

martedì 27 ottobre 2009

La paura delle masse

Decentramento produttivo, conflitto sociale e lotte ambientali nel sud della Cina


Il diario di bordo di Paolo Do - Hong Kong (Cina)

La città di Guangzhou nel sud della Cina non é solo famosa per il suo cielo color rame dovuto all’inquinamento, ma è anche il centro più importante della regione del Guandong. Una regione che quest`anno ha visto per la prima volta grandi industrie cinesi delocalizzare la produzione nel vicino Vietnam, complice la crisi e la fine degli incentivi fiscali che hanno trasformato in questi anni il Delta del Pearl River nella vera fabbrica del mondo.

Ma il Guandong é anche una regione che ha vissuto, come molte altre in Cina, numerose proteste tanto dei lavoratori migranti dentro le fabbriche così come quelle di interi villaggi organizzati contro espropriazioni, inquinamento e discriminazioni. Vere e proprie proteste ‘di massa’. Questo tipo di proteste dilaganti in tutta la Cina nei suoi ultimi anni di sviluppo economico, hanno di fatto modificato la stessa ideologia e retorica comunista.

Se fino a poco tempo fa il termine ‘massa’ indicava per Beijin l’ideologia della modernità, sviluppo socialista e vera società comunista, nel 60esimo anniversario della repubblica popolare cinese sempre più il significato di questo aggettivo, “di massa”, sta assumendo una connotazione negativa. Nei recenti anni questo nome in Cina è stato (malgrado il volere del partito) di fatto sempre più associato a conflitti e proteste di larga scala, incidenti e rivolte (davvero) di massa.

Da eroe a stupido ignorante. Laddove il termine ‘massa’ viene associato con la parola conflitto sociale, nella opinione pubblica grazie ai media ufficiali esso ha acquisito una connotazione negativa. Mentre per Mao Zedong era proprio la massa il vero eroe della rivoluzione, oggi nella nuova sintassi dei media espressione della retorica comunista cinese l’aggettivo ‘di massa’ viene esplicitamente usato per demonizzare e screditare le lotte, per sottolineare l`ignoranza e meschinità di chi si rivolta, per invocare pericolo e giustificare la repressione.

Perù - Attacco agli indios

Il pretesto è il massacro di Bagua, ma dietro ci sono gli interessi di governo e multinazionali di gas e petrolio, contro i quali gli indigeni amazzonici si sono scatenati in defesa della madre terra

di Stella Spinelli - PeaceReporter

Il Ministro della Giustizia vuole sterminare l’Associazione interetnica per lo sviluppo della Selva peruviana (Aidesep), la principale associazione indigena dell’Amazzonia peruviana. Lo affermano gli stessi attivisti dell’Aidesep, che denunciano l’intenzione governativa durante una riunione urgente di fronte a tutte le altre organizzazione in difesa dei diritti indios del paese.

In un comunicato, l’Aidesep fa sapere che è venuta a conoscenza dell’azione ministeriale "per sciogliere l’organizzazione" attraverso una notifica dal fiscal provinciale, che non specifica le ragioni. Fonti della Procuraduría del dicastero della Giustizia hanno spiegato che il provvedimento risale all’11 giugno scorso, con la motivazione che l’Aidesep avrebbe attentato all’ordine pubblico e al buon costume. Ma cos’è che ha scatenato le ire del ministro Aurelio Pastor contro questa federazione di 65 organizzazioni, nata nel 1980 e ora rappresentativa di 1350 comunità indigene?

Tutto è iniziato nella primavera di quest’anno, quando il braccio di ferro governo-indigeni è arrivato all’estremo, fino a spingere il presidente di Aidesep, Alberto Pizando, a dichiarare "l’insurrezione anti-governativa amazzonica". Da quel momento, le popolazioni native decisero di appellarsi alle loro leggi ancestrali disconoscendo l’ordinamento giuridico nazionale vigente e bloccando l’ingresso di qualsiasi forza esterna nel loro territorio. Il tutto in segno di protesta contro la nuova Legge forestale sulla fauna silvestre e contro la Legge sulle risorse idriche, entrambe deleterie per gli indiani e per la salvaguardia dell’ambiente, in particolare per la selvaggia estrazione del petrolio e del gas da parte delle multinazionali, le sanguisughe della pachamama. Una linea dura, quella scelta dagli indigeni, davanti alla quale però il governo di Alan Garcia non chinò la testa. Anzi. Il 5 giugno a Bagua, la tregedia. Durante uno dei blocchi stradali e fluviali organizzati dall’Adesep nel cuore dell’Amazzonia, la polizia represse con violenza. Risultato: 45 morti e 93 feriti. Un massacro.

Che non è servito a far prendere al governo una posizione ragionevole. Anzi, il ministro della Giustizia non tardò a scaricare la responsabilità del bagno di sangue sugli indigeni, che si precipitarono a rispedire le accuse al mittente. Fu così che Pastor ha iniziato una vera e propria caccia al leader indigeno. Prima contro Pizango, che è stato costretto a espatriare rifugiandosi in Nicaragua, nonostante il mandato di cattura internazionale che sta pendendo sulla sua testa e su quella di altri quattro attivisti del direttivo di Aidesep. Una persecuzione che sta martoriando tutti i capi della federazione. Sono 89 le persone coinvolte in processi per quanto accadde a Bagua, dove per reazione gli indigeni tennero sequestrati degli agenti di polizia. E tutto questo nonostante la Aidesep partecipi a quattro tavole di lavoro con funzionari governativi e rappresentanti della società civile proprio per stabilire un nuovo giro di discussioni con le comunità indios riguardo a Bagua.

A commentare a PeaceReporter quanto sta accadendo è Mauro Morbello, responsabile di Terre des Hommes-Italia in Perù. "Il malessere delle popolazioni indigene del Perù, non solo di quelle della selva amazzonica, ma anche dell’altopiano andino, non è nuovo ed è motivato da uno storico abbandono in cui i vari governi peruviani hanno lasciato queste popolazioni da secoli. Questo malessere si è però trasformato in rabbia e la rabbia, alla fine in violenza anche cieca e incontenibile, con la rivolta organizzata dalla Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana (Aidesep) lo scorso mese di giugno contro il pacchetto di leggi chiamate "Ley de la selva", fortemente volute dal governo peruviano del presidente Garcia per dare applicazione al Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti (TLC). Con queste norme, emanate senza consultare opportunamente le popolazioni interessate, il governo ha fatto un grosso favore agli investitori privati, in realtà soprattutto multinazionali straniere, che possono ora acquistare enormi appezzamenti di terreni nelle zone della foresta amazzonica dove da sempre vivono comunità indigene. Si tratta di aree ricche di materie prime, dal leganame al petrolio, a tantissimi altri prodotti minerari. Grazie a questo pacchetto di norme, ora l`investitore può comprare, cioè ottenere la proprietà delle terre e non più, come prima, solo una concessione temporanea con l`autorizzazione delle associazioni indigene della località. Ancora: l`acquirente può ora effettuare l`acquisto non più dovendo ottenere il consenso dei 2/3 della popolazione residente, ma solo con il voto del 50 percento più uno dei partecipanti all`incontro destinato alla presa della decisione di vendita delle terre. Oltre alla riduzione del quorum, già di per sè lesiva degli interessi collettivi delle popolazioni indigene, questo meccanismo si presta evidentemente ad abusi, non potendosi escludere ad esempio che siano convocati all`incontro solo gruppi accondiscendenti con gli interessi degli investitori interessati all`acquisto. Il pacchetto prevede infine un aumento delle dimensioni delle terre prima previste solo in concessione ed ora acquistabili, portato da 10.000 a 40.000 ettari".

Quindi Bagua: "Dopo di fatti di Bagua - aggiunge Morbello - il governo ha cercato in tutti i modi prima di screditare le organizzazioni indigene effettivamente rappresentative degli interessi più profondi delle popolazioni locali, in primo luogo Aidesep, promuovendo una campagna pubblicitaria terribile, sui giornali e in televisione, mostrando poliziotti morti e tumefatti dalle torture degli indigeni che li avevano fatti prigionieri negli scontri di Bagua. A causa del rifiuto dell`opinione pubblica e delle reazioni internazionali a una campagna di così basso stampo, è cambiata la strategia. Da un lato hanno accusato i leaders di AIDESEP e in primo luogo Pizango di insurrezione e quindi di attentare contro la sicurezza dello Stato, dall`altro hanno cercato di trovare accordi con i gruppi indigeni organizzati offrendo promesse di soluzione delle controversie a medio termine, irrealizzabili, ma che ottenevano il risultato di sbloccare nell`immediato le situazioni. Poi cercando di inserire nuove figure di rappresentanza indigena, con personaggi sconosciuti ai più, che sminuissero di fronte all`opinione pubblica il ruolo di Aidesep che parallelamente veniva perseguita in termini istituzionali, non solo prevedendo azioni nei confronti dei dirigenti, Pizango ed altri, ma iniziando ad aprire verifiche giudiziali ed extra giudiziali, anche di tipo fiscale, sull’uso delle risorse e criminalizzando anche i finanziatori, soprattutto organismi della società civile europea, che a loro volta venivano intimiditi in varie forme, compreso il rischio di non poter più operare in Perù. Da qui l’intenzione di sciogliere Aidesep".

Honduras: Dobbiamo identificare le fonti di "energia" dei golpisti. Guardiamo verso la frontiera con il Guatemala.


di Ricardo Salgado

Il presidente costituzionale del Honduras, José Manuel Zelaya, si trova prigioniero nell’Ambasciata del Brasile da un mese. I golpisti mantengono un accerchiamento senza precedenti argomentando che sono pronti per arrestarlo per i suoi innumerevoli crimini e delitti. Questi stessi che l’accusano dicono che stanno dialogando con la migliore volontà per raggiungere la pace nel paese. Sono gli stessi che hanno montato una fraudolenta giornata elettorale prevista fra poco più di un mese.

Il ’dittatorino’ non è né assomiglia a un Pinochet. I Pinochet di questo golpe stanno da un’altra parte; nell’ombra, a muovere i fili del sistema. Emergono le figure di un Vice cancelliere Martha Lorena Alvarado de Casco, membro attivo dell’Opus Dei e figlia di un golpista che agiva negli anni sessanta, Andrés Alvarado Puerto. Emerge anche l’ottantennale figura di Rafael Pineda Ponce, opportunista di professione che ha cominciato i suoi percorsi negli anni settanta, ed ora è un illustre proprietario di case con un figlio aspirante a continuare la tradizione familiare, ma tutti loro sono solo i lacchè che portano avanti questa mostruosità.

Se analizziamo la fauna del regime, ci rendiamo conto che la base teorica su cui si è sostenuto questo golpe non sta nel governo di facto. La faccia visibile di questo gruppo è costituita unicamente da opportunisti, corrotti e mercenari. La stessa Marcia Facussé di Viileda non ha la capacità per portare a termine, e tanto meno mantenere questa aberrazione.

Ora dobbiamo cercare quale sia la fonte di vita per il mantenimento di questo "robusto" regime in azione ed in sperpero di risorse per reprimere il popolo e sfidare l’inutile comunità internazionale.

La risposta dobbiamo cercarla, senza dubbio, nelle frontiere del Honduras con i paesi vicini, specialmente con il Guatemala. Le transnazionali patrocinatrici del golpe, alle quali non importa quante vite debbano sacrificare per mantenere i loro privilegi, si sono sottratte dalla temuta condanna della rottura dell’ordine costituzionale, e si mantengono attive muovendo migliaia di container attraverso le nostre frontiere.

La frontiera con la Guatemala è particolarmente attiva con più di 400 container al giorno che entrano con sostentamento per il regime. Promuovono un commercio interno che genera entrate per il regime nella forma di imposte sulle vendite; imposta sul reddito ed altre entrate che mantengono l’ossigeno a livello ottimale. Guardando bene la crisi economica colpisce il popolo, ma il governo spurio mantiene il vigore, e dichiara con cinismo che ha riserve per mantenersi fino a marzo. Riserve di che? Chi gliele dà?

Dobbiamo entrare in una fase di più disciplina nella lotta e conoscere questi attori chiave della crisi. È nostro obbligo indirizzare la nostra attenzione verso una lotta più estesa che richiede di una ferma posizione da parte nostra. Una posizione che pianifichi, coordini ed esegua veramente azioni che colpiscano l’economia fascista. Non parliamo di movimento guerrigliero. Capiamo i livelli di frustrazione che causano il cinismo e l’impunità con cui agiscono i golpisti sotto agli occhi e alla tolleranza della OEA ed altri sgorbi che non sono capaci di frenare l’offensiva anti democratica imperiale. La lotta armata è una tappa alla quale non vorremmo arrivare, ma la destra ci chiude le opzioni. Tuttavia, in questo momento il coraggio deve portarci alla ricerca di livelli superiori di organizzazione.

In questo momento dobbiamo orientare i nostri sforzi a trasmettere informazione al nostro popolo; a fare consapevolezza; a ridefinire le azioni di resistenza pacifica. Deve essere evidente che non è la stessa cosa resistenza pacifica o passiva. Non è nostra intenzione passare ad essere parte del paesaggio golpista.

Dobbiamo coordinare azioni che limitino, colpiscano, ostacolino l’attività economica golpista. Gli impresari locali si sono mossi con efficienza per ottenere appoggio deciso e costante della borghesia locale, specialmente quella guatemalteca. La messa a fuoco del nostro movimento deve cercare la disciplina di quelli che lottano in resistenza.

Fino ad ora non abbiamo organizzato grandi campagne di boicottaggio all’acquisto di prodotti provenienti dalle imprese che appoggiano il golpe. Abbiamo accusato il gruppo INTUR, ma non abbiamo una campagna sistematica, coordinata, permanente contro il consumo di fast food (comida chatarra). E che facciamo con i prodotti di Miguel Facussé (tutte le Naturas per esempio), o quelli di Unilever (shampoo, alimenti e molto altro). Tutti loro pagano imposte che danno ai criminali. Questi sono solo esempi. Ci sono molti esempi di cose che vengono importate nei container menzionati.

Che cosa succede col consumo di birre, coca cola, pepsi cola ed altro? Possiamo prescindere da questi prodotti? Dare l’esempio? Perché non lavoriamo nella direzione di definire l’enorme lista di cose che mantengono il regime, e cominciamo a costruire consapevolezza sulla necessità di colpire economicamente questi usurpatori?

Dobbiamo essere molto creativi. Cercare tutte le maniere possibili per frenare il flusso di mercanzie. In azioni non armate, concrete, nelle zone di frontiera possiamo portare le transnazionali a riconsiderare le loro azioni antidemocratiche. Dobbiamo essere molto realistici, non c’è soluzione rapida per questa faccenda. Quelli che hanno promosso il golpe lo hanno fatto con il proposito di interrompere il processo di ricostituzione della patria che era incominciato. Loro non demorderanno da quell’impegno. Non rinunceranno alle posizioni che raggiunto con la forza. E non importa loro continuare a mantenere attivi tutti i metodi repressivi su cui possono contare.

La lotta sicuramente ci indicherà quello che dobbiamo fare. Per adesso è imperativo che tutti noi che scriviamo facciamo sforzi seri per ampliare il nostro ambito di influenza. Che più gente abbia accesso alle nostre opinioni; organizziamo il nostro sforzo; cerchiamo le maniere di appoggiare effettivamente il frente nacional de resistencia. Dobbiamo unificare criteri, ed orientare al nostro popolo.

C’è molto da fare e noi abbiamo la capacità di unirci con forza e decisione a questo processo liberatore.

Non ho il minimo dubbio che se organizziamo tutto questo immenso gruppo dei pensatori, il nostro impatto verso la costruzione di una patria nuova sarà molto maggiore e concreto.

Insieme siamo invincibili, abbiamo solo il bisogno di convincerci della verità di queste parole.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!