mercoledì 4 novembre 2009

La corruzione afghana e la verità coloniale

Libere elezioni



di Augusto Illuminati

Ve li ricordate i grandi organi di informazione, compresi quelli che dimostravano a piazza del Popolo in favore della libertà di stampa, tutti i giornalisti embedded che spiegavano come gli eroici pastori e contadini afghani difesi dai valorosi militari della Nato e in prima fila dai baldi ragazzi della Folgore sfidavano i talebani per esercitare il loro diritto di voto? Nulla ci fu risparmiato in quei giorni, concomitanti i funerali di Stato e il fiero cipiglio del ministro La Russa, per raccontarci a quali nobili scopi servivano le mani tagliate agli elettori, i Lince saltati in aria, i massacri collaterali dei civili: a promuovere in prima battuta la democrazia mediante libere e trasparenti elezioni, in seconda battuta ad assicurare un governo comunque efficiente e sufficientemente legittimato. Ci siamo ritrovati con una partecipazione “ufficiale” (dunque probabilmente gonfiata del doppio) inferiore al 37% e con schede contraffatte, a favore di Karzai, in misura spesso superiore ai votanti... Lo scandalo fu tale che la stessa amministrazione americana e l’Onu spinsero il loro troppo disinvolto burattino a rinunciare a una parte dei voti frodati e ad accettare il ballottaggio con il rivale Abdullah. Tacciamo, per carità di patria, il fatto che il grosso degli imbrogli si è verificato proprio nella prefettura di Herat sotto controllo italiano. Non che i nostri paracadutisti scrutinassero i voti, ma coprivano armi alla mano gli imbroglioni governativi. Dopo tutte le fandonie sulle ragioni del nostro intervento in Afghanistan (la difesa delle donne, che continuano a girare con il burqa e a incappare in una legislazione ferocemente discriminatoria, l’estirpazione delle culture di oppio, che invece sono di quantità e qualità crescenti, ecc.), ci mancava soltanto la garanzia di un processo elettorale truffaldino!

Comunque, verificato ufficialmente che le elezioni erano state truccate, si è deciso di correggere la situazione andando al ballottaggio. Ma per azzerare il pasticcio e ricominciare da capo, con l’inverno peraltro ormai avanzato e un più che probabile ulteriore calo dei votanti, si sarebbe dovuto almeno cambiare l’apparato elettorale, cioè la famosa commissione “indipendente” e “vicina a Karzai” (bella contraddizione!) che aveva certificato il primo risultato, salvo ad essere smentita e costretta alla retromarcia da Onu e Obama. Naturalmente è subito apparso chiaro che il ballottaggio sarebbe servito soltanto a dilazionare di un mese la vittoria del narcotrafficante Karzai, magari con qualche compensazione governativa ai suoi avversari. Abdullah, probabilmente per alzare il prezzo (neanche lui è un modello di fair play democratico), si è allora ritirato dal ballottaggio, spingendo i garanti della Nato in un vicolo cieco. La solita commissione elettorale “indipendente” di cui sopra ha risolto brillantemente il dilemma proclamando Karzai presidente per ritiro dell’avversario. Una soluzione da ring corrotto, di quelle finalizzate alle scommesse. Niente elezioni supplementari (buono per i 500 soldati italiani che potranno tornare a casa), Karzai un po’ acciaccato ma confermato al potere, senza però poter pretendere dal premio Nobel Obama l’invio di troppi militari aggiuntivi.

E i nostri giornali? Gli scatenati Capuozzo, Biloslavo, Olimpio e compagnia marciante? I parlamentari Pd, sempre pronti a giustificare e rifinanziare la missione “di pace”? Silenzio, qualche deprecazione, vabbè so’ afghani, che volete? Karzai è comunque il nostro figlio di puttana, il nostro pusher presentabile. E così il segretario Onu, Ban Ki-moon, i capi di governo inglese e americano hanno dato l’Ok, preoccupati per il rischio di un’altra tornata deserta e bersagliata dagli insorti. Frattini ha elogiato la maturità politica e la credibilità del Presidente illegalmente rieletto: tanto quei selvaggi non hanno una Corte Costituzionale rompicoglioni! Democrazia e trasparenza sono andate a quel paese e tutta la questione afghana è ritornata ad essere ciò che era sempre stata fuori dalla retorica dei diritti umani: uno sporco affare coloniale, con un capo tribù comprato opposto ai nazionalisti locali e tanti traffici di droga tollerati in cambio del controllo strategico del territorio e degli oleodotti. Hillary Clinton ha colto al volo l’occasione per rimangiarsi tutte le pretese obamiane di mediare fra israeliani e palestinesi suggerendo sfacciatamente che non devono esserci pre-condizioni al dialogo di pace: per esempio, il blocco delle colonie. Avanti così. Gli Usa sono incastrati nel Grande Gioco (è la geopolitica, bellezza!), Berlusconi spera di ritagliarsi qualche traffico di gas e lettoni con Putin, ma il Pd, il Pd “nuovo” e bocciofilo di Bersani, cosa ne guadagna? Quale ideale o interesse appoggia in Afghanistan? Continua a cianciare di una risolutiva conferenza internazionale sull’argomento, tanto per girare la castagna bollente a qualche sconsiderato? Incuriosisce saperlo, e non poco. E la perseguitata Repubblica, deve tacere per censura? E’ troppo impegnata a ripetere le sue dieci domande al Papi, per non farne un paio sulle nostre “missioni” di peacekeeping? Ricordiamo incidentalmente che si tratta di una guerra persa e che le ultime vicende lo confermano anche agli occhi dei generali più assatanati.

CAMBIAMENTO CLIMATICO: Un’opportunità per la biopirateria?

Colture e clima: dove vanno le multinazionali


NUOVA DELHI, 3 luglio 2009 (IPS) - Le colture geneticamente modificate (GM) in grado di sopportare particolari stress ambientali potrebbero essere una risposta al cambiamento climatico, ma con una forte azione di lobby si sta cercando di bloccare i brevetti delle tecnologie connesse, soprattutto quando derivano dalle naturali innovazioni dei metodi agricoli tradizionali.“I tratti di resistenza al clima che i giganti della biotecnologia agricola hanno brevettato sono il risultato di evoluzioni secolari nelle tecniche agricole dei contadini”, osserva Vandana Shiva, attivista per la difesa della sicurezza alimentare di fama internazionale di Nuova Delhi.

Shiva ha spiegato che i “giganti del gene” stanno accumulando “un disastro dopo l’altro”, nel guardare al cambiamento climatico come un’opportunità di profitto economico.

“Basandosi su questa nuova forma di biopirateria, l’industria biotech si presenta come il ‘salvatore del clima’, facendo credere a governi e popolazioni che, se non fosse per loro, non esisterebbero semi con capacità di resistenza al clima”, sostiene Shiva. “Con le loro vaste pretese su tutte le colture e tutti i tratti di resistenza, l’industria sta chiudendo ogni possibilità di futuro adattamento al cambio climatico”, ha aggiunto.

Shiva ha fatto il nome di quattro imprese - BASF Bayer in Germania, Syngenta in Svizzera e Monsanto e Dupont negli Usa, leader nel tentativo di accaparrarsi i geni “climate-ready”, che permettono alle colture di sopportare alluvioni, siccità, ingresso di acqua salata, temperature più calde, radiazioni ultraviolette e altri effetti previsti del cambiamento climatico.

Nel 2001, il gruppo creato da Shiva, la banca di semi di ‘Navdanya’, ha riportato un successo contro la multinazionale Usa RiceTec, che reclamava la proprietà sui tratti dei semi della sua varietà di riso basmati a chicco lungo. Dopo aver dimostrato che la varietà di RiceTec conteneva materiale genetico sviluppato dalle varietà degli agricoltori, l’Ufficio brevetti e marchi americano ha bocciato le richieste della società Usa.

Navdanya, inoltre, insieme a Greenpeace e al gruppo di agricoltori indiano Bharat Krishak Samaj (BKS), ha fatto ricorso e fatto revocare, nell’ottobre 2004, i brevetti ottenuti sulla varietà indiana di grano “Nap Hal” della Monsanto, leader mondiale dei semi GM.
Un annuncio pubblicitario della Monsanto recita: “Nove miliardi di persone da sfamare. Cambiamento climatico. Come faremo?”, per poi indicare le colture GM come la risposta. Molti paesi in via di sviluppo però hanno rifiutato sementi e colture geneticamente modificate in favore delle pratiche agricoli tradizionali, basate sulla conservazione dei semi dopo il raccolto, invece che sull’acquisto di sementi modificate dalle multinazionali.

Il mese scorso, Navdanya ha pubblicato una lista di centinaia di colture resistenti al cambio climatico salvate dalla popolazione in diversi stati dell’India, ma i cui brevetti sono stati acquisiti dalle multinazionali del gene. L’idea di diffondere la lista, come parte del rapporto “Biopirateria delle colture resistenti al clima”, era per spingere i policy-maker indiani ad includere le possibilità di tecniche agricole innovative e partecipative nel piano d’azione nazionale dell’India sul cambiamento climatico, incentrato sulla biotecnologia.

Shiva vede aprirsi qualche speranza nel fatto che i governi, a cominciare da quelli dei paesi del G77 e la Cina, abbiano cominciato a capire l’importanza di escludere le tecnologie climate-friendly dai brevetti, nei negoziati sul cambio climatico di Bonn del 1-12 giugno scorso.

La Cina e il G77 hanno proposto che “vengano immediatamente intrapresi tutti i passi necessari per escludere per legge i brevetti sulle tecnologie climate-friendly detenuti dai paesi elencati nell’Allegato II, che possono essere utilizzate per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico”.

L’Allegato II della Convenzione contiene una lista di 24 paesi sviluppati con obblighi finanziari. La proposta “no ai brevetti” è una delle tante proposte ambiziose avanzate dai paesi in via di sviluppo per superare le barriere della proprietà intellettuale per il trasferimento e l’accesso alle tecnologie compatibili con l’ambiente - environmentally-sound technologies (ESTs) - per la mitigazione e l’adattamento al clima.

Le proposte sono state presentate nel quadro di "accelerare l’innovazione nello sviluppo e trasferimento di tecnologie", uno degli elementi costitutivi del Piano d’azione di Bali (BAP) adottato dalle Parti alla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC) nel dicembre 2007.

I paesi sviluppati, in particolare Giappone, Canada, Australia, Svizzera e Stati Uniti hanno insistito per avere un forte regime di diritti di proprietà intellettuale, anche opponendosi all’utilizzo di licenze obbligatorie, previste dall’Accordo TRIPS.

Le Filippine hanno proposto che: “Vengano immediatamente intrapresi tutti i passi necessari in tutti i forum di maggiore rilevanza per escludere per legge i brevetti sulle tecnologie compatibili con l’ambiente che possano essere utilizzate per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico”.

La Bolivia ha proposto che le Parti “intraprendano tutti i passi necessari in ogni paese per escludere per legge nei paesi in via di sviluppo i brevetti sulle tecnologie compatibili con l’ambiente per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico, incluso nei paesi sviluppati, attraverso finanziamenti da parte di governi o agenzie internazionali” e “revocare nei paesi in via di sviluppo tutti i brevetti già esistenti sulle tecnologie compatibili con l’ambiente essenziali/urgenti per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico”.

La proposta boliviana prevede anche di creare immediatamente e fornire “nuovi e ulteriori fondi che siano adeguati, prevedibili e sostenibili per centri tecnologici d’eccellenza nei paesi in via di sviluppo per la ricerca e lo sviluppo soprattutto sulle tecnologie per la mitigazione e l’adattamento [al clima]”.

L’anno scorso, il Gruppo ETC di Ottava, un’organizzazione per la difesa dell’agricoltura di sussistenza, ha pubblicato un rapporto da cui emergeva che le major della biotecnologia stavano sfruttando il cambiamento climatico per potersi affermare sui mercati delle sementi.

L’ETC avvertiva, nel rapporto “Brevettare i ‘geni climatici’… e prendere in mano l’agenda del clima”, dei pericoli delle tecniche agricole nel settore pubblico attraverso l’affermazione delle corporation sul mercato dei semi, documentando circa 530 richieste per geni di piante legate al clima.

Ai negoziati di Bonn, erano evidenti i timori del suo presidente, che ha infatti proposto di creare una commissione di consulenza o ente designato per “risolvere in modo proattivo il problema dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale per assicurare sia migliori innovazioni che un migliore accesso alle tecnologie per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico”.

Honduras - Verso un nuovo soggetto politico come espressione del popolo

Inizia ad applicarsi l’Accordo Tegucigalpa-San José

Si insedia oggi, 3 novembre, la Commissione di Verifica dell’Accordo Tegucigalpa-San José, firmato lo scorso 30 ottobre dalle commissioni del presidente costituzionale dell’Honduras, Manuel Zelaya Rosales, e di quello di fatto, Roberto Micheletti.
di Giorgio Trucchi

Si rispetta in questo modo la seconda data fissata dal calendario di esecuzione degli accordi formati da 12 punti, tra i quali il possibile ripristino del presidente Zelaya da parte del Congresso Nazionale e, quindi, la restaurazione dell’ordine costituzionale nel paese.

La Commissione di Verifica sarà integrata dall’ex presidente cileno, Ricardo Lagos, dalla ministra del Lavoro degli Stati Uniti, Hilda Solís e dai rappresentanti delle due parti honduregne, Jorge Arturo Reyna, attuale ambasciatore del governo Zelaya alla ONU ed Arturo Corrales Álvarez, membro della commissione negoziatrice di Micheletti.

Senza dubbio, il punto più complicato dell’Accordo Tegucigalpa-San José continua ad essere il ripristino del presidente Zelaya da parte dei deputati, i quali fino a questo momento non si sono riuniti e sembrano intenzionati ad aspettare il risultato della consultazione fatta ai magistrati della Corte suprema di giustizia, Csj.

Questo atteggiamento, sommato alle dichiarazioni di membri della Giunta Direttiva del Congresso secondo i quali la maggioranza dei deputati sarebbero in questo momento molto occupati nello svolgimento della loro campagna elettorale, dà una chiara impressione di un’ennesima misura dilatoria per avvicinarsi il più possibile alla scadenza elettorale del 29 novembre.

In questo modo eviterebbero che il presidente Zelaya, una volta ritornato alla Presidenza, seppur con le mani legate dal contenuto dell’accordo, possa sviluppare una campagne che benefici un candidato diverso da quelli dei due partiti tradizionali, il Partito Nazionale ed il Partito Liberale.

Per la commissione negoziatrice del presidente Zelaya, che durante la giornata di ieri, 2 novembre, ha invitato la stampa nazionale ed internazionale a una conferenza stampa insieme ai membri del gabinetto di governo, “non esistono ancora elementi per dire che ci si trova di fronte a una nuova tattica dilatoria – ha detto l’avvocato Rodil Rivera, membro della commissione negoziatrice –.

Venerdì scorso abbiamo consegnato l’accordo firmato alla Segreteria del Congresso e speriamo che entro domani (oggi per chi legge) la giunta direttiva convochi i deputati a una riunione straordinaria e che il 5 novembre si ripristini il presidente Zelaya.

In questo modo si rispetterebbe il punto 5 dell’accordo e anche quello che prevede entro questa data la creazione di un Governo di Unità e Riconciliazione Nazionale, che necessariamente deve essere presieduto dal Presidente costituzionale dell’Honduras.

Noi sappiamo che questo accordo è riconosciuto a livello mondiale – ha continuato Rivera rispondendo ad una domanda della Lista Informativa “Nicaragua y más” – e che è stato firmato tra le parti basandosi sulla buona fede. Ciò vuole dire che noi, una delle parti firmatarie, e la stessa comunità internazionale abbiamo la speranza che venga rispettato in tutti i suoi punti", ha concluso.

Ripristino ed elezioni

Le forti aspettative generatesi nella popolazione dall’inizio di questo processo sono direttamente vincolate alle elezioni generali e alla possibile partecipazione della Candidatura Indipendente Popolare.

Secondo il dirigente sindacale e membro del Fronte nazionale contro il colpo di Stato, Juan Barahona, "Il ripristino del presidente Zelaya aiuterebbe a lenire in parte la crisi che esiste nel paese e permetterebbe alla Candidatura Indipendente di partecipare al processo elettorale.

Una decisione negativa da parte del Congresso acutizzerebbe invece la crisi e ci condurrebbe verso un futuro totalmente incerto e molto pericoloso. La nostra percezione è che nel Congresso ci sia la volontà di dilatare i tempi e di volere ripristinare il Presidente legittimo a pochi giorni o subito dopo le elezioni. La gente non perdonerebbe mai ai deputati questo comportamento.

Ad ogni modo – ha spiegato Barahona – la Resistenza continua con il suo progetto. Il ripristino del presidente Zelaya è diventato un atto simbolico per creare un precedente in tutta l’America Latina, tuttavia noi andiamo molto più in là. Dopo il ripristino dell’ordine democratico nel paese inizieremo il cammino verso un’Assemblea Costituente, affinché la popolazione si trasformi in depositaria di potere", ha concluso.

In questo contesto così complicato ed in continua trasformazione, è evidente che uno dei punti più importanti sarà la capacità della popolazione, che per oltre 4 mesi si è coraggiosamente espressa contro il colpo di Stato, di tradurre questa esperienza arricchente in un processo di conformazione di un nuovo soggetto politico, capace in futuro di aprirsi un importante spazio tra i partiti tradizionali, espressione dei poteri economici e politici che dominano il paese.

In questo senso, la Candidatura Indipendente Popolare ha chiarito che la Resistenza deve necessariamente rimanere come tale, senza tentare di trasformarsi in partito politico, come avanguardia, quindi, di questo sforzo di partecipazione elettorale per rompere lo schema politico tradizionale.

È per questo motivo che fino a questo momento la Candidatura Indipendente Popolare mantiene aperta la possibilità di una sua partecipazione alle elezioni del 29 novembre, a patto però che si restauri l’ordine istituzionale nel paese.

La consultazione permanente con la base sarà inoltre decisiva per determinare la partecipazione o meno alle elezioni.

© (Testo e foto Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua)

Mozambico, elezioni

Intervista a Mia Couto



Mia Couto è certamente il più noto scrittore mozambicano e fra i più apprezzati scrittori viventi di lingua portoghese (il suo Terra Sonnambula ha vinto numerosi premi africani e intercontinentali). Figlio di portoghesi, ha lottato come mozambicano per l'indipendenza dalla madrepatria e negli anni '80 è stato direttore dell'agenzia nazionale di informazione, prima di tornare alla professione per cui ha studiato, quella di biologo, che oggi esercita in uno studio nel centro di Maputo e dal quale mi risponde mentre mi sbrodolo del te' che mi ha offerto.

Nei suoi libri, il passato “non smette mai di passare”, continuamente elaborato e ricostruito dal presente. Che rapporto ha il Mozambico col suo tormentato passato?
Beh, una relazione degna di questo tormento. Il Mozambico è un caso unico: il passato è ancora più recente del presente. Succede alle cose molto giovani e ansiose di crescere : in fondo il paese ha appena trentatrè anni, tanti ne sono passati dall'indipendenza. Io sono più vecchio di lui! Come per avanzare rapidamente nel tempo, è in atto un esercizio di oblio collettivo di quello che più ha distinto la nostra storia: le guerre. Prima quella contro il Portogallo, poi quella civile. Entrambe oggi sono state trasportate “al di là della memoria”: se si chiede a un mozambicano di ricordare quei tempi, preferirà cambiare argomento. Ma l'esercizio dell'oblio è sempre una gravidanza di bugie. Possiamo dimenticare il passato, ma non dimenticare che stiamo dimenticando.


A cosa è funzionale questo colpo di spugna sul passato?
Come tutte le ricostruzioni storiche, agli interessi sociali dominanti. Sembra che il ricordo della guerra sia a loro apannaggio esclusivo.

Qual'è il ruolo del processo elettorale in questa fase della vita del paese?
Le elezioni sono sempre un passo verso un comune sentire e un comune denominatore : il Mozambico. In generale il ruolo storico del governo seguito al colonialismo, quello della Frelimo, è stato quello di mettere l'identità nazionale mozambicana sopra a tutte le altre, di concretizzare un progetto di nazione comune contemporaneamente a tutte quelle preesistenti, di natura etnica- il che non significa in conflitto tra loro. Aggiungo, in conflitto non lo sono tuttora. Ecco perchè vanno a vuoto i tentativi di certi politici di dare un colore partitario alle etnie.

Lei è anche professore. Come vede i giovani mozambicani?

Mi sembra che siano stanchi di essere visti e trattati dal mondo intero come vittime. Rispetto alla generazione dei loro padri, hanno decisamente rinunciato all'abitudine di incolpare il colonialismo di tutti i mali del presente;semmai hanno una visione abbastanza globale da cercare la radice di problemi locali nei sistemi mondiali.

E' ottimista sul futuro del Mozambico?
Ci vuole tempo. Nessuno, a cominciare da noi stessi, dovrebbe pretendere che risolviamo in pochi anni questioni- come lo shock della guerra- che in Europa hanno richiesto decenni.

A proposito di Europa, lei è uno dei pochi scrittori africani che continuano a vivere in Africa...

Una volta, a una conferenza di scrittori africani,io ero l'unico che viveva ancora in Africa... e anche l'unico bianco. Le due cose fanno parte dello stesso paradosso, ovviamente. Io non ho scelto di portare l'occidente nel sangue, ma posso scegliere dove vivere. Non ho bisogno di scoprire l'Europa per sapere che voglio vivere in Africa.

martedì 3 novembre 2009

Bil'in manifesta in solidarietà con il militante imprigionato : « Siamo tutti Adeeb Abu Rahmah »




dal Comitato Popolare di Bil’in

Adeeb Abu Rahma è stato arrestato il 10 luglio scorso ed è ancora in prigione. Il motivo del suo arresto è di essere membro organizzatore delle manifestazioni del villaggio. Oggi i manifestanti hanno indossato delle maschere con il viso di Adeeb e hanno chiesto la sua liberazione.

Organizzata dal Comitato popolare, la manifestazione ha preso il via dopo la preghiera del venerdì. Accompagnati dai militanti pacifisti internazionali e israeliani, gli abitanti del villaggio hanno sventolato delle bandiere palestinesi condannando l’occupazione, la politica razzista di costruzione del Muro e delle colonie, la confisca delle terre, i check-points, gli arresti e gli assassini dei palestinesi.

Questa manifestazione settimanale è stata organizzata su richiesta del Comitato Popolare per la liberazione di Adeeb Abu Rahma e anche per protesta contro i tentativi di eliminare la resistenza del villaggio. I manifestanti hanno sfilato con delle maschere che riproducevano il volto di Adeeb e hanno ripetuto « Siamo tutti Adeeb Abu Rahma ».

Adeeb Abu Rahma è militante e membro del Comitato popolare di Bil’in. E’ in prigione dalla manifestazione del 10 luglio. Non è accusato di aver commesso atti violenti, ma di aver incitato alla violenza, cioè gli si contesta di essere organizzatore delle manifestazioni. In un primo tempo, il giudice aveva deciso che Adeeb dovesse essere liberato con la condizionale, ma il procuratore militare aveva in seguito fatto appello affinché restasse in galera fino alla fine della procedura giudiziaria. Da allora, la difesa ha richiesto per quattro volte che questa decisione fosse cassata, ma invano. Adeeb è il solo responsabile, materialmente, di una famiglia di undici persone.

Il suo arresto si è verificato quando lo Stato maggiore dell’esercito israeliano ha lanciato una campagna di intimidazione in concomitanza con l’avvio del processo intentato dal Comitato di Bil’in contro due imprese canadesi responsabili della costruzione di immobili nella colonia di Modiin Illit. In quasi cinque anni di lotta del villaggio, sono stati arrestati 75 abitanti e 27 durante questa campagna di invasione. Le forze israeliane invadono regolarmente le case per arrestare i membri del Comitato e i più giovani accusandoli di lanciare pietre contro i soldati. Sedici sono detenuti, nove di loro sono minorenni.

Per ricordare, il 23 giugno scorso, sono iniziate le udienze di fronte al tribunale canadese per il processo intentato dal villaggio contro le due imprese registrate in Canada (Green Park International e Green Mount International). Il villaggio chiede che la costruzione delle colonie sulla terra del villaggio sia riconosciuta come crimine contro l’umanità in virtù del diritto federale canadese che include la carta internazionale dei diritti dell’uomo. Alcune persone imprigionate durante quest’ondata di arresti hanno dichiarato di essere state interrogate in merito a questi processi.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!