giovedì 10 dicembre 2009

Copenhagen - Ormai... ci siamo




La Conferenza mondiale sul clima ha preso avvio a Copenhagen, confermando già in questi primi giorni la totale arretratezza istituzionale nell’approccio alla crisi globale che stiamo tutti subendo.

Tatticismi della diplomazia, esternazioni di capi di stato e spamming disinformativo degli uffici delle grandi corporations del carbone e del petrolio, tolgono letteralmente l’aria ad un vero dibattito pubblico che voglia affrontare il nodo della precarietà ambientale legato al modello di sviluppo dominante.

E’ in questo quadro che migliaia di attivisti stanno confluendo a Copenhagen, e tra questi anche la rete “see you in Copenhagen”. Il primo obiettivo era per noi raccogliere adesioni all’andata collettiva nella capitale danese, attorno a chiare posizioni politiche sintetizzate nel nostro primo documento: oggi possiamo dire che oltre duecento attivisti italiani della rete saranno a Copenhagen per partecipare in molte forme alle mobilitazioni e al dibattito. Il secondo obiettivo era riuscire ad autorganizzare ed autogestire la nostra presenza creando un luogo collettivo e condiviso, dove affrontare insieme non solo i problemi logistici legati alla nostra permanenza per tutte le giornate di iniziativa, ma anche dove poter impostare un confronto continuo tra di noi e un luogo, l’assemblea degli aderenti alla rete, dove discutere e scegliere quotidianamente come muoverci e perché. Anche questo è stato raggiunto e oggi possiamo annunciare che la rete “see you in Copenhagen” autogestirà uno spazio proprio, che si aggiunge quindi ai tanti spazi di realtà europee e mondiali creati in questi giorni.

Annunciamo per Venerdì 11 dicembre la prima assemblea generale della rete che si terrà all’interno di questo luogo condiviso ed autogestito (per info 004525326245). La rete “see you in Copenhagen” ha inoltre autoprodotto un proprio foglio di comunicazione in inglese che sintetizza il dibattito che ha costituito questa realtà collettiva, e il tipo di approccio con cui stiamo a Copenhagen.

Un modo di essere presenti e di partecipare il nostro, che fa da presupposto ad ogni azione che compiremo: vogliamo con umiltà essere parte, dal dibattito delle ong al Clima Forum fino alle iniziative del CJA, senza rinunciare alla necessità di valutare, di vedere con i nostri occhi, di stare ad ascoltare e di conoscere e capire. Questo per noi vale in ogni situazione, dagli incontri di discussione alle azioni di piazza. Crediamo che sia profondamente necessario intraprendere una nuova, grande battaglia globale sulla crisi climatica ed ambientale, che per noi è così centrale da rappresentare ogni livello di crisi, dalla finanza al lavoro, dalle migrazioni alle guerre, che il sistema capitalistico sta producendo, ma proprio per questo non ci interessano ne tattiche né rituali, né affermazioni identitarie precostituite né posizioni ideologiche che hanno già la risposta per tutto. Per quanto riguarda le azioni di lotta, cercheremo di partecipare a tutto ciò che è capace di indicare, anche radicalmente, la necessità di un mondo migliore, e invece cercheremo di non essere parte di ciò che esprime solo frustrazione e autorappresentazione.

La situazione che viviamo è indice di un cambio epocale, dell’affermazione di una situazione globale e geopolitica completamente mutata, e anche solo per capire chi comanda, al di là di un generico “capitale”, bisogna abbandonare gli schemi e saper guardare alla realtà.

Riteniamo interessante poter seguire in qualche forma il dibattito e lo scontro tra diverse posizioni che avviene all’interno della conferenza ufficiale, non per gli esiti di quest’ultima, ma per le implicazioni e per costruire nuove chiavi di lettura sulla crisi. Come è importante per noi poter ascoltare alcuni incontri del Clima Forum proposti da varie ong. Ed infine partecipare alle forme di mobilitazione e discussione del CJA, già previste o decise in loco.

Il 12 dicembre parteciperemo alla grande manifestazione di apertura della settimana di mobilitazione, all’interno dello spezzone del CJA, raccogliemdo l’appello che questa realtà ha rivolto a tutti. Ogni giornata per noi si concluderà con la nostra assemblea nel nostro spazio autogestito.

Brasile, Parana - Coltivando semi per un futuro migliore

Al posto di sementi transgeniche un Centro di Agroecologia


Nello stesso terreno in cui la Syngenta sperimentava illegalmente sementi transgeniche, contaminando il vicino parco di Iguaçù, nasce oggi il primo Centro di Ricerca sull’Agroecologia, gestito da Via Campesina e dal Mst, in collaborazione con lo Stato del Paranà. Verranno create qui le nuove soluzioni per i contadini di tutto il Paese che vogliono liberarsi dalle catene dell’agronegozio e praticare una agricoltura sostenibile.

di Carolina Bonelli, da Cascavel, Paranà, Brasile

«Dopo 30 anni di lotta, il Movimento Sem Terra costruisce oggi una tappa fondamentale che sarà ricordata nella storia» così João Pedro Stédile, membro della Direzione nazionale e fondatore del Mst, commenta emozionato l’inaugurazione, avvenuta sabato scorso, 5 dicembre, a S.ta Tereza do Oeste, nell’estremo ovest del Paranà (Sud del Brasile), del Centro di Ricerca in Agroecologia Valdir Mota de Oliveira e del monumento Keno Vive, in omaggio al militante Sem Terra e di Via Campesina ucciso nel 2007 dalle milizie private della multinazionale svizzera Syngenta.

Presenti all’inaugurazione, oltre a Stédile, il Governatore dello Stato del Paranà, Roberto Requião, il Segretario Statale dell’Agricultura, Walter Bianchini, deputati statali e tecnici dell’Istituto de Agronomia del Paranà (Iapar), e ovviamente migliaia di contadini, accampati e assentati dei movimenti sociali Via Campesina e Sem Terra, numerosi giovani studenti delle scuole e degli istituti tecnici agricoli della regione, studenti, ricercatori e professori dell’Unioeste (Università Statale della regione Ovest del Paranà), impegnata con numerosi progetti di ricerca e cooperazione a fianco dei movimenti contadini.

Presenti anche numerosi soldati della Policia Militar, per proteggere la cerimonia dalle proteste dei “ruralisti”, latifondisti, grandi proprietari e difensori del transgenico, che a poca distanza dall’evento hanno organizzato picchetti e striscioni contro l’Mst e contro un governo “amico di un movimento criminale”.

Da luogo di morte a luogo di vita

«Ricordiamoci che questo era un luogo di morte, pieno di veleno e di transgenico. Oggi si trasforma in uno spazio di vita, di agricoltura ecologica – esclama dal palco il Reverendo Carlos Alberto Tomé da Silva, aprendo la cerimonia ufficiale di inaugurazione – È una conquista di tutti, dei movimenti sociali, di Via Campesina, del Mst, degli abitanti di questa regione e dello Stato intero».

Il 21 ottobre del 2007, Valdir Mota de Oliveira, detto Keno, viene ucciso dalla sicurezza privata della Syngenta, durante un’azione di protesta del movimento all’interno del Centro Sperimentale della multinazionale, occupato e ribattezzato dall’Mst “Accampamento Terra Livre”. Il movimento denunciava la realizzazione di esperimenti con sementi di mais transgenico in una zona definita di “amortecimento”, una fascia di territorio in protezione del Parco Nazionale di Iguaçu, esperimenti illegali e vietati dalla Legge nazionale di Biosicurezza. Negli scontri, oltre al militante, rimane ucciso anche un vigilante della Syngenta.

La grande ripercussione di questi fatti sull’opinione pubblica e la sistematica lotta e pressione dei movimenti, fa sì che nell’ottobre del 2008 la Syngenta ceda 127 ettari della proprietà al Governo dello Stato del Paranà, che a sua volta lo cede in uso allo Iapar.

Dalla collaborazione tra questo istituto e i movimenti sociali, nasce il Centro de Ensino e Pesquisa em Agroecologia Valdir Mota de Oliveira: «insieme al Mst, alle Università della regione, faremo un lavoro di ricerca molto importante per l’agricoltura e per i piccoli contadini di tutto il Brasile», dichiara un rappresentante dello Iapar, a cui fa coro Bianchini, segretario dell’Agricultura: «è importante capire che le alternative tecnologiche e i saperi ecologici che verranno costruiti all’interno di questo Centro, creeranno le condizioni per gli agricoltori brasiliani di essere indipendenti dall’agronegozio e dalle grandi multinazionali che vendono fertilizzanti chimici e sementi geneticamente modificate. Le risoluzioni create qui con una metodologia orizzontale e partecipata verranno distribuite per tutto il Brasile e in particolare negli assentamenti dei Sem Terra». Esperimenti, quindi, non solo diretti verso un’agricoltura in tutela dell’ambiente e che produca alimenti sani, ma anche verso un’agricoltura socialmente sostenibile, che appoggi i piccoli proprietari di terra e gli assentati della Riforma Agraria, nel processo di rivalorizzazione del proprio ruolo cruciale di produttori di sovranità alimentare e di riscatto culturale dei propri saperi indeboliti e marginalizzati dalla crociata della Rivoluzione Verde degli anni 60 e 70.

Agroecologia VS Agronegozio

I dati del Censo Agropecuario del 2006 dell’Istituto brasiliano di Geografia e Statistica (Ibge) parlano chiaro: l’agricultura familiare brasiliana, occupando appena il 24,3% dei terreni agricoli del paese, è responsabile per la produzione del 87% di mandioca, 70% di fagioli, 46% di mais, 38% di caffè, 34% di riso, 21% di grano, 58% di latte, per il 59% di allevamento suino, 30% bovino e 50% di pollame, impiegando il 75% della manodopera rurale. Chi produce la ricchezza agricola e il sostentamento alimentare del paese?

Ma questa agricoltura familiare nella maggior parte dei casi è solo un ingranaggio integrato nelle logiche delle grandi multinazionali produttrici di fertilizzanti chimici e sementi migliorate e transgeniche, come la Bayer, la Pioneer, la Monsanto. Sempre dai dati dell’Ibge del 2006 risulta che in Brasile solo l’1,75% degli stabilimenti agricoli coltivano prodotti organici.

Negli stessi assentamenti del Mst, le famiglie che producono senza l’impiego di veleno e di sementi migliorate costituiscono una percentuale scarsissima. «Non si sa più coltivare, nella maggioranza dei casi negli assentamenti troviamo cittadini delle favelas e non contadini – dichiara Eugenio Neto Guerreiro dos Santos, tecnico dell’Emater (Istituto Paranaense di assistenza tecnica e cooperazione rurale) di Quedas de Iguaçù e responsabile dell’assistenza tecnica alle 30 famiglie di produttori agroecologici dell’assentamento dell’Mst di Palmital, dove vivono oltre mille famiglie – Troviamo persone imperniate dei valori della Rivoluzione Verde: produttività, immediatismo, guadagno economico. Vogliono estrarre il più possibile dalla terra, senza prendersi cura di lei».

«La nostra lotta oggi non è più solo contro il latifondo, ma contro la dittatura dell’agronegozio, che ordina di piantare senza rispetto per l’ambiente e per i lavoratori rurali – dichiara Stédile – È un modello irresponsabile, fondato su una tecnologia straniera che si basa sulla monocultura, resa possibile solo da un alto indice di meccanizzazione e dal massiccio uso di agrotossici, con la conseguente espulsione dei contadini dal campo, e il loro ammassamento nelle favelas delle grandi città, dove dimenticano i loro saperi e generano figli che non ricordano più cosa sia un campo».

Questo modello di produzione agricola ha fatto sì che il Brasile risultasse campione al mondo per presenza di veleno da agro tossico negli alimenti, con conseguenze pericolose in termini di salute dei propri cittadini.

«Pochi governatori nel mondo stanno assumendo concretamente la responsabilità di creare un terreno fertile per la diffusione di un’agricoltura sostenibile, come si erano impegnati con la firma dell’Agenda 21 – afferma Felipe Farà, del Centro Paranaense di Riferimento in Agroecologia (Cpra) di Curitiba – Sono orgoglioso di poter dire che vivo in uno dei pochi Stati che lo stanno facendo, il Paranà, e la creazione di questo Centro lo dimostra».

Roberto Requião, giunto direttamente dentro al Centro della Via Campesina in elicottero, esordisce all’inaugurazione con un invito ufficiale: «I ruralisti che si stanno ammassando qui fuori per protestare contro l’apertura di questo spazio di ricerca, mandino qui, insieme ai figli dei sem terra, agli studenti delle scuole rurali, delle Università, mandino qui i propri figli per imparare che cos’è l’agricoltura! Oggi è un giorno senza rancore, è un giorno di pace e di vittoria dell’agricoltura sostenibile!». Il governatore ha ricordato come sia stata necessaria la morte di Keno e di Fabio per creare questo spazio di agroecologia al servizio dei figli dei produttori rurali di oggi, per insegnare loro a ritrovare “la strada contro la schiavitù e la dipendenza dalle multinazionali”, persa dai propri genitori.

Requião ha condannato l’asservimento al capitale finanziario e al blocco ruralista avvenuto principalmente nel secondo mandato di Lula, concretizzatosi nella liberalizzazione del transgenico (soia, miglio e riso) nel Paese e ha invitato il suo “amico presidente” a prendere in considerazione la posizione di migliaia di contadini impegnati quotidianamente nella costruzione di un’agricoltura sostenibile.

Nuovi cammini

Il Centro de Ensino e Pesquisa Valmir Motta de Oliveira sarà anche un Centro di produzione di sementi agroecologiche, che verranno distribuite senza royalties agli agricoltori che ne faranno richiesta.

Questa funzione sociale del centro è stata inaugurata sempre il 5 dicembre, attraverso la distribuzione gratuita di centinaia di sacchi di semi di mais bio ai contadini presenti.

Il contrabbando di sementi transgeniche e di fertilizzanti tossici è un altro aspetto legato all’agronegozio che è stato ricordato durante l’inaugurazione del Centro.

«La proposta della Via Campesina è di chiedere alle Nazioni Unite la creazione presso la Corte d’Appello de L’Aia di una Camera per giudicare le imprese che compiono atti contro l’ambiente – ha dichiarato Stédile – e Via Campesina insieme a Mst già porteranno presso questa Camera il primo caso di crimine ambientale, denunciando la Syngenta!»

Oltre il Bosforo

A Dyarbakir, in viaggio con la solidarietà



I viaggi, soprattutto i veri viaggi, sono incontri: di volti, di luoghi, di parole, di attese….

La Turchia è lontana, il Kurdistan ancora di più.

Gli aeroporti sono veramente “non luoghi”: tutti uguali, le stesse luci, la stessa lontananza da ogni rapporto possibile. E, tra un “non luogo” e l’altro, il tempo non ha alcun rapporto con lo spazio.

Gli unici momenti di sapore e profumo di vita sono gli incontri con gli altri compagni: altri luoghi, altre storie, altre vite che sanno di pensieri e di azioni condivise in altri tempi e altre giovinezze.

E, improvvisamente, sei a Diyabakir: hotel, stanza, cena allegra e ricca di risate. Adesso, davvero, si può cominciare.

Giovedì, 19 novembre – Tribunale di Diyarbakir

Al mattino, con il sole, si entra in tribunale. Formalità e accoglienza inaspettata: ci fanno accomodare nella sala degli avvocati. Gentilissimo, il segretario dell’Ordine, ci offre ripetutamente cay. Si informa su di noi. Ci presenta una giovane avvocata responsabile dell’associazione dei “diritti umani”.

Veniamo a scoprire più processi a carico di minori e giovani.

La confusione nel tribunale è da mercato: il processo al bambino (per il quale siamo venuti) è spostato alle ore 14.00.

Chiacchiere, sorrisi, curiosità. Improvvisamente, in un giovedì qualunque, siamo entrati nella vita processata. Fuori dalla stanza degli avvocati siamo travolti da un fiume in piena di parenti e amici di giovani e studenti sotto processo e in carcere.

E così, ci confrontiamo con “propaganda sovversiva”, “attività sovversiva”, giovani in galera. “Sostegno al terrorismo”, “interruzione di pubblico ufficio” per gli studenti che hanno lottato.

Parenti, mamme, padri, occhi curiosi e appassionati.

Non sembra loro vero che siamo qui ad ascoltare. Un vero incontro con la vita, la protesta, l’affetto. Parole di tortura su ragazzi e ragazze in carcere.

A proposito di “ascolto” : la vita si presenta in storie che hanno parole, volti, relazioni, speranze. E storie assurde di ordinaria repressione.

Poi vengono liberati due ragazzi, e sono abbracci, baci, sorrisi e sguardi importanti come tutti gli attimi di vera vicinanza.

Le donne, apparentemente sempre in secondo piano, ma subito ricche di affetto e sorelle delle donne del nostro gruppo. E’ chiaro che rappresentiamo l’occasione per essere “riconosciuti” e vivi al di là delle porte di casa e della stessa Turchia. Così, succede di essere importanti per il solo fatto di esserci.

Poi il gruppo si riunisce per mettere insieme pensieri e parole.

E le nostre avvocate tentano di mettere un po’ d’ordine nei nostri pensieri e nelle nostre conoscenze.

Dopo un brevissimo intervallo, per tirarci su con un raggio di sole caldo, rientriamo nel bunker del tribunale.

Facce giovani e occhi puliti di studenti in lotta, e presenti al processo dei loro compagni.

Ci dicono che non hanno paura, che hanno già pagato, ma che continueranno……

E noi ascoltiamo …..questo orgoglio di vita e di futuro…

Entriamo nell’aula del processo: giudici, avvocati, uno schieramento di polizia, tanti parenti, tanti amici, padri, madri, sorelle. Sono contenti che siamo qui, e ci lasciano i pochi posti a disposizione. Vale davvero esserci, per una volta.

Poi, nel silenzio, la voce dell’imputato….e tanti volti seri in apprensione e affetto. Le donne con occhi profondi e pieni d’amore.

Sono presenti generazioni diverse….donne con il velo e senza velo: grandi famiglie, grandi contrasti, un mondo in movimento.

Tutto si svolge in un silenzio irreale: una sospensione della vita vera e, probabilmente, anche della verità.

La maggioranza degli avvocati sono donne: un senso suo ce l’ha!

Due giudici dormono, uno lotta con il sonno, l’altro conduce il processo con una rapidità degna di miglior causa.

Al termine, il desiderio si fa assoluzione: applausi, urla, pianti, abbracci. Noi ci sentiamo portafortuna.

Poi la tristezza: si è capito male. Tutti in galera.

E’ proprio vero!

Ci sono tante organizzazioni, gruppi, ma la vita continua a scorrere apparentemente casuale: un gruppo di stranieri in un tribunale diventa un’occasione per parole, incontri, impegni.

Una cosa è la politica, una cosa la vita, i volti, gli incontri, una stretta di mano.

E che impressione l’aula con soldati e poliziotti schierati.

Infine, entriamo per un ulteriore processo, sempre contro studenti universitari. Brevissimo. Tutto rinviato a gennaio, con gli studenti che restano in galera (perderanno, intanto, l’anno scolastico e la possibilità di studiare).

I ragazzi escono ammanettati, e sono teneri e commossi, i saluti silenziosi, con le mani che parlano di amicizia e condivisione, e di giovinezza orgogliosa.

La giornata si conclude all’ IHD, l’associazione per i diritti umani. Una sede bella, pulita, tutti loro molto gentili. Quindi l’incontro con Hatip Dicle , un deputato che ha passato dieci anni in galera.

Ascoltiamo parole di prudenza, impegno, indipendentismo, federalismo.

Ascoltiamo attenti e ci guadagniamo l’impegno per sabato a fianco delle famiglie degli “scomparsi”.

Poi, nel buio della sera, cerchiamo di mettere un po’ di distanza da questo turbine di vita, e si va al bazar: bellissimo, un pezzo di Lucca in terra di Turchia. Qualche compera, e il cuore e la mente pieni di volti, di storie, di nostalgia di futuro.

Piccole note:

1. Il 4 aprile 2009 molti giovani si sono radunati ad Amara, nel distretto di Urfa, per festeggiare il compleanno di Abdullah Ocalan, esternando la loro solidarietà con un lungo applauso. I militari hanno sciolto la manifestazione sparando sulla folla. Sono stati uccisi due ragazzi: uno di essi era studente dell’Università di Diyarbakir.

Due giorni dopo, all’Università, si è svolta una manifestazione di protesta, e la polizia, nuovamente, è intervenuta, con la scusa che i giovani portavano delle kefie; ne sono stati arrestati una trentina.

Oggi, molti di essi sono ancora detenuti.

2. Il Tribunale che giudicava questi giovani kurdi è la Corte d’ Assise, competente per i processi associativi contro lo Stato: è costituita da tre giudici che, diversamente dal passato, non sono dei militari.

L’accusa è, quindi, di associazione terroristica e propaganda sovversiva.

3. Mehmet Aydin, di venti anni, oggi è stato liberato, non cosi’ i suoi compagni, Talat Ucar,Yoldas Firat, Mahsum Akbas, Cihan Olmez, Oktay Olmez, Cihan Bahadir, che sono rimasti in carcere dopo che i loro processi sono stati rinviati.

La stessa Corte giudica anche i minorenni. Oggi erano in tre: Gengiz Gaysac, Kutbettin Yel, Vedat Demir. Di questi, solo Gengiz Gaysac era in libertà ed oggi ne è stato liberato anche un secondo. E’ rimasto in carcere Kutbettin Yel e il suo processo sarà definito il 31 dicembre.

Questi ragazzi erano in carcere dal febbraio scorso.

4. La condizione dei minori, in Turchia, è fuori da tutti i parametri europei, soprattutto per quelli accusati di reati politici: mentre per i detenuti comuni esiste un carcere separato, per i minori, accusati di sovversione, il carcere è lo stesso che per gli adulti; al limite, e in casi eccezionali, vengono messi in una cella unica. Attualmente occupano una cella in 32.

Il processo è svolto dagli stessi giudici dei maggiorenni e le pene sono applicate con i medesimi criteri, senza considerare le condizioni di vita e familiari.

Il rappresentante del coordinamento di diverse associazioni, una piattaforma che risponde al nome di “Appello per la giustizia minorile”, ha riferito che al vaglio del governo c’è ora una proposta di legge alla quale hanno chiesto di inserire delle modifiche sulla procedura del processo e sulle condizioni di detenzione. Oggi sono circa 3.000 i minori sotto processo e 270 sono quelli incarcerati. Questi dati li desume l’Associazione, poiché i dati del Ministero della Giustizia non distinguono i minorenni dai maggiorenni e fra i vari tipi di reato.

E’ necessario descrivere, per sommi capi, come viene affrontato il processo minorile in Europa.

Qui da noi, i tribunali dei minorenni hanno una composizione che implica la presenza di educatori, psicologi, esperti dell’infanzia, nonché l’ausilio di assistenti sociali che contribuiscono alla valutazione dei giudici per la concessione di riti alternativi e/o di pene alternative, quali la rieducazione con l’imposizione, al posto di una pena detentiva, di lavori socialmente utili, svolti dal minore presso Cooperative o Enti Locali. E’ anche previsto il cosiddetto “perdono giudiziale” per chi non ha mai commesso reati e pure la “messa alla prova” che prevede la possibilità di non subire alcuna condanna se per un periodo - deciso dai giudici - il minore lavorerà o studierà sotto il controllo del servizio sociale. Queste sono forme di tutela dei minori totalmente assenti in Turchia.

5. Hatip Dicle ha scontato dieci anni di carcere in Turchia, unitamente alla deputata kurda Leila Zana.

Ora è libero da 5 anni e alla domanda su quale differenza vede oggi rispetto all’epoca del suo arresto , ha risposto che prima eravamo solo all’inizio della lotta del popolo kurdo; oggi, dopo vent’anni, si può discutere liberamente di ipotetiche soluzioni con altri parlamentari; c’è solo un manipolo che cerca di osteggiarli quando parlano, mentre gli altri si sono adeguati alla loro presenza in Parlamento.

Ci dice che in Parlamento c’è tuttora una soglia di sbarramento del 10%.

Per andare oltre questo tetto, occorre avere 4.500 mila voti, per adesso ce ne sono solamente 2.500 mila.

Se la soglia di sbarramento fosse della metà - del 5% - il Dtp avrebbe portato in Parlamento 60 deputati!

Si è decisa la partecipazione con candidati “indipendenti”, ma, in questo caso, per avere un deputato occorrono 60 mila voti.

Per esempio, a Diyarbakir, c’era la possibilità di eleggere 10 deputati. Se non ci fosse stata la soglia di sbarramento, il Dtp avrebbe conquistato 8 deputati, non 4, come invece è capitato.

Pertanto, la proposta è quella di ridurre al 5% la soglia di sbarramento.

I detenuti in Turchia sono circa 115 mila, compresi i detenuti accusati di reati comuni. Circa 15 mila sono i “politici”, di cui il 95% sono kurdi; anche il restante 5% è molto vicino ai kurdi.

Tra questi, 39 detenuti politici kurdi sono malati gravi e prossimi alla morte.

I rapporti con il Sud Kurdistan – Nord Iraq - sono buoni. Barzani e Talabani hanno detto che non attaccheranno mai il Pkk e si sono offerti di fare da intermediari tra il governo turco e i kurdi di Turchia, per porre fine alla guerra.

Esiste una proposta di “autonomia” rispetto allo stato centralista di Turchia.

I kurdi sostengono che Ministero degli Esteri, della Difesa e degli Interni possono rimanere prerogativa dello stato centrale, mentre rivendicano piena autonomia per quanto riguarda le singole province e municipalità.

Venerdì, 20 novembre – Incontro con i “gruppi di pace” presso la sede dell’IHD di Diyarbakir

Sono presenti all’incontro Mehmet Serif Gensdal (portavoce), Ayse Kava (una ragazza proveniente dal campo profughi di Mahmura), Lutfi Tas (l’anziano), Aygul Biday (facente parte del primo gruppo di pace arrivato nel 1999).

Alle 10,00, puntuali come cronometri, siamo già nel salone dell’IHD. Di nuovo in cerchio, tra battute e parole in libertà: c’è tanta emozione, l’emozione di incontrare 4 guerriglieri in missione di pace verso Ankara ( due uomini e due donne ).

Hanno volti pieni di storia e sguardi lontani e intensi: sarà per la loro storia e le loro scelte. O, forse, un po’ per il nostro sguardo che sa di una attenzione carica di storia e di vicinanza ai combattenti. O forse, più semplicemente, perché sarà vero che “per vincere si corre da soli, per andare lontano bisogna essere in tanti e solidali”, senza lasciare nessuno indietro.

L’apertura da il segno di questo incontro: ci ringraziano. Ci ringraziano per essere lì e, con noi, il popolo italiano.

Poi, con una voce quieta, uno di loro ci spiega la loro lotta per la pace e per l’autonomia del popolo kurdo.

Le parole ci portano subito all’iniziativa dei “gruppi di pace”, due, che, nel 1999, sono partiti dai monti del Kurdistan e dall’Europa: sono stati condannati a svariati anni di carcere; due di loro sono ancora dietro le sbarre, uno è morto. Gli altri sono stati liberati e continuano il loro cammino.

Poi, parole inaspettate per chi guarda da lontano: “Noi stiamo continuando, perché crediamo nella pace. Quando siamo arrivati, abbiamo visto la felicità del popolo per la pace. Ci hanno abbracciato e, con noi, hanno abbracciato la pace, la libertà e anche i loro figli”, parole inaspettate dalla bocca di “guerriglieri”. Ma forse siamo andati al di là dei luoghi comuni, della storia raccontata dai giornali, al di là delle semplificazioni che rendono il mondo inafferrabile a chi non ha altro potere che la propria intelligenza e la propria coscienza.

Poi, Gensdal ci spiega che il grande successo del DTP alle amministrative è una potente sfida e una nuova occasione per la pace. Anche se il governo turco non ha pubblicato, né risposto al documento della Road Map di Abdullah Ocalan.

Ci precisa che il PKK ha sospeso le azioni armate dal 13 aprile di quest’anno, ma il governo turco ha risposto con una grande azione di repressione e di distruzione dei villaggi, e continua a incarcerare i militanti del DTP.

Mentre parla di “apertura Kurda”…. poi di “apertura democratica”…. quindi di “apertura all’unità nazionale”, il governo, nella sostanza, continua le azioni contro i villaggi e ad utilizzare sistematicamente la tortura.

Ci sottolinea che la stessa Unione Europea è intervenuta contro l’utilizzo della tortura.

In sintesi, il governo turco, a partire dalle elezioni di 8 mesi fa, ha cambiato il linguaggio e il tono nei confronti dei Kurdi, ma la sostanza e la politica quotidiana verso i Kurdi non è cambiata.

E i fascisti, intanto, hanno preso l’iniziativa e organizzato le famiglie dei militari turchi caduti sulle montagne.

Un quadro forte e complesso che ci travolge e mette in discussione ogni linearità di pensieri semplici: e ci invita ad agire, ad essere concreti, vicini. Forse, paradossalmente, ci porta a pensare che , veramente, il fare è la vera politica e la vera poesia, e che è il fare a costruire la differenza ed il futuro.

Ci si perde anche un po’ nell’Europa delle autonomie e nelle sottolineature della lotta per l’identità culturale.

Poi una voce di donna che parla solo Kurdo, Ayse Kava, ed è improvvisa e inaspettata, una voce e un pensiero che si fa vita, fame, morte, diversità. Ed è emozione, e un’ altra dimensione della politica e dell’impegno.

A portarci in un’altra dimensione ulteriore è poi la voce del combattente più anziano, Lutfi Tas. Ed è una voce che sa di “lontananza”: che “distingue” e che colloca oggi il Kurdistan nel quadro e nelle falsificazioni internazionali e “capitalistiche”. Ed è la voce che sostiene il “dialogo” senza nessun “pentimento”.

Giunti al termine restano le fotografie, i sorrisi, gli abbracci finali a significare chissà: solidarietà, affetto, forza della militanza, o anche, semplicemente, la forza dell’incontro e dell’ascolto. Che rendono le storie di tutti i partecipanti ricche di senso e preziose. Per sé e per gli altri.

Poi un cammino nel sole, a sistemare pensieri e parole. E sorrisi.

20 novembre 2009 – Incontro con la municipalità di Sur

Poco dopo siamo nel municipio di Sur, una delle sei sottomunicipalità di Diyarbakir: incontro con il vicesindaco e assessore alla cultura. Un incontro simpatico: e siamo al terzo cay della giornata!

Ci tiene a sottolineare che la municipalità ha i bambini come interesse forte. E conquista subito la nostra simpatia. Poi ci tiene a precisare che non ci sono bambini di strada. Al mattino vanno a scuola, al pomeriggio qualcuno lavora o vende in strada. E’ aumentata anche la percentuale delle donne che frequentano la scuola: altra buona notizia.

Resta un problema di sfruttamento dei bambini per la prostituzione, la droga, la delinquenza… Insomma, c’è impegno, ma ancora una lunga strada da percorrere.

Poi, quasi per riportarci tutti alla cruda quotidianità, il vicesindaco riceve una telefonata: qualcuno lo informa che sua figlia, in galera, non potrà dare l’esame che aveva chiesto di poter sostenere. L’università ha risposto che “non è possibile”.

Il vicesindaco si ferma un attimo, serio. Noi non abbiamo parole, restiamo attoniti: è la differenza tra ascoltare parole e pensieri e imbattersi nella vita concreta e nelle ingiustizie che non fanno notizia, ma che segnano il respiro e la quotidianità.

Lui, respira profondo e riprende a parlare: ci dice che hanno un vasto intervento verso i bambini e i giovani. Ci parla delle “Case per donne” organizzate dalla municipalità, dove si svolgono corsi di diverso tipo e che, in queste strutture, c’è anche la “scuola materna” per i più piccini.

C’è, inoltre, un “Consiglio dei bambini”, tra i 9 e i 15 anni.

Stimolato da alcune nostre domande, ci mostra le immagini di un documento multimediale sui bambini e una serie di attività che hanno realizzato: si ritorna ai sorrisi.

Ci informa, inoltre, che la municipalità gestisce ambulatori medici assolutamente gratuiti; mentre gli ambulatori statali sono a pagamento e richiedono il possesso della “carta verde” per ricevere il servizio. Per non dimenticare dove siamo.

Quindi sono saluti, fotografie, sorrisi e mille pensieri. E noi rientriamo nel sole, verso nuovi incontri.

20 novembre 2009 – Incontro con le “Madri della pace”

E sono incontri che ci conducono, veramente, da un’altra parte: siamo nella sede delle “madri per la pace”, madri di detenuti. Un appartamento anonimo in un palazzo anonimo.

Portano vestiti tradizionali, velate da un elegante velo bianco, con occhi profondi, sguardi che sfuggono, con una vita a cui non sono sfuggite.

Siamo seduti in cerchio in una stanza piccola. Parla una per tutte.

Le parole dicono di carcere, dei criteri di precedenza per i sostegni economici. E sono pietre quando dicono di una famiglia con il padre in carcere da 17 anni.

La portavoce ha un parlare netto e deciso, la forza della vita e della resistenza. Nonostante storie inguaribili e una lotta quotidiana per la sopravvivenza che non si separa dalla fiducia nel futuro: sono molto fiduciose nella strategia di pace e nei “gruppi di pace”.

L’atmosfera è densa come tutto ciò che non si solleva con parole e pensieri di futuro ma che fa i conti, quotidianamente, con il respiro e il pane.

Sono sempre più crude nei racconti: ed è la prima voce che afferma che, dopo la vittoria alle amministrative di marzo, la situazione è peggiorata perché hanno incarcerato molti dirigenti del partito e di diverse associazioni.

E’ proprio vero che ciascuno narra la “sua” storia che si fa vita, respiro, lacrime, mentre la politica racconta una storia che non sempre sa di vita.

Chiudono, senza nessuna enfasi, dicendoci che hanno fatto, con le madri dei soldati turchi, una cena ed una conferenza stampa.

C’è proprio la storia e le storie.

Poi, proprio come nella vita, sono abbracci, sorrisi, foto; e le nostre compagne vengono velate e caricate di sorrisi e abbracci. Non c’è nulla di formale: è la vita che scorre e crea relazioni che sanno di condivisione.

Noi lasciamo loro tutto il materiale e vestiario che ci siamo portati dall’Italia: a proposito della vita e della quotidianità.

E siamo nuovamente sulla strada.

20 novembre 2009 – Incontro con Tuhad Fed

Alle 17.00 entriamo nei locali della “Associazione dei Famigliari dei detenuti politici”. Altre donne, altri volti, occhi forti e sorridenti. Altre storie di anni di carcere e di lotte. Nuove parole circa la repressione costante del governo turco. I dati: circa 4.000 detenuti del PKK e del DTP ( 700 nell’ultimo anno ).

Un po’ di discorsi tecnici sulla possibilità di intervento della Croce Rossa Internazionale per visitare i detenuti malati gravi.

Si ritorna anche ai bambini: più di 200 minori in carcere per “appoggio al terrorismo”. Mancano le parole.

Al termine Antonio distribuisce le somme raccolte dall’associazione “Verso il Kurdistan”, preciso come un bancario.

Siamo giunti alla fine della giornata e, nel buio, ci mettiamo in marcia verso l’albergo.

Ma, una volta entrati, non si esce mai da questa storia di mille storie: dopo una veloce cena, alle nove dobbiamo essere in albergo per un ulteriore incontro. Un padre e consigliere comunale di un paese vicino, ci tiene a parlarci della figlia, studentessa, in carcere da 26 mesi.

Ci parla di torture e di un timpano sfondato.

Ancora una volta, non ci sono parole. E la stanchezza ci sta piegando.

Poi è la volta di un altro padre con un figlio in carcere per 4 mesi – ora messo in libertà – dopo le manifestazioni del febbraio 2008. Ci tiene a dirci che, nel Kurdistan, ci sono imam democratici che sono per il progresso.

Che dire? Già ci mancavano le parole! Ora siamo travolti. Sarà meglio abbandonarci al sonno.

21 novembre – Manifestazione con le famiglie degli “scomparsi”

Al mattino, appuntamento all’associazione per i diritti umani ( IHD ). Per partecipare all’incontro settimanale dei famigliari degli “scomparsi”. Non vogliamo mancare.

C’è un po’ di confusione: non sanno come accompagnarci. Andremo autonomamente con un interminabile viaggio, attraverso l’intera città, sino al monumento ai caduti per l’attentato compiuto in quel luogo, nel 2006, dai “Lupi grigi”.

Arriviamo appena in tempo: un centinaio di persone soprattutto donne, madri, mogli, sorelle di persone scomparse.

Chi conduce la manifestazione sottolinea la presenza di un gruppo di italiani: uno sguardo collettivo ci avvolge. Vale la pena esserci.

Poi cala un profondo silenzio, tutti immobili, in piedi e seduti a terra. Quasi tutte hanno davanti a sé la foto di uno “scomparso”. A terra: due striscioni. In uno, un lungo elenco di nomi di persone scomparse, nell’altro i loro volti.

Siamo ai bordi di una grande strada, ma quello spazio, denso di memoria e di vite spezzate, sembra lontano da ogni rumore e da ogni distrazione: un vero urlo contro l’ingiustizia e il dolore che l’accompagna.

Poi si rompe il silenzio e l’immobilità, e sono strette di mano, sorrisi, ringraziamenti, abbracci e tante fotografie. Sì. E’ valsa proprio la pena esserci.

Prendiamo un autobus, si ritorna verso l’albergo: questa sera si parte per Istambul e ci sono le mille azioni che accompagnano la preparazione dei bagagli, la ricerca di ultimi oggetti, ricordi….

Arrivati sulla grande piazza però ….. c’è qualcosa di strano: un folto gruppo di donne. Giovani, anziane, qualcuna con abiti tradizionali. Siamo incuriositi, chiediamo: è un raduno e manifestazione per l’emancipazione e i diritti delle donne. Si chiacchiera tranquillamente, non c’è la minima tensione: un bella giornata di sole che illumina i volti e le parole. Si avvicina una giovinetta, vende braccialetti artigianali naturalmente con i colori della bandiera kurda, tanto per non dimenticare. Compriamo tutti i braccialetti e, in più, anche tutte le collanine che la ragazza ci offre. E’ chiaramente stupefatta e incredula: si allontana nella folla. Noi torniamo in albergo e lasciamo le donne a chiacchierare in piazza.

Si mangiucchia qualcosa, alcuni riposano e chiacchierano nella hall dell’albergo.

Poi, improvvisa, in un giorno di chiacchiere e shopping, una tempesta di sorrisi e di ritmi gridati: le donne per la loro emancipazione e la democrazia. Ci accorgiamo che è in atto un corteo: le donne sono partite con striscioni, centinaia di bandiere, slogan ritmati, a passo veloce, con tanti sorrisi e un evidente orgoglio di essere in piazza.

Ci precipitiamo fuori, armati di macchine fotografiche e telecamere. C’è una vera e propria aria di festa, nessun nervosismo. Ma , appena lasciata la piazza, e imboccata la strada del bazar, ecco la polizia che sbarra la strada e blocca la manifestazione. Una doppia fila di giovani poliziotti con casco, scudi, manganelli, alcuni con lancia lacrimogeni, un idrante: sembrano tranquilli però ,e non c’è aria di conflitto.

Il corteo si ferma contro il cordone dei poliziotti e continua imperterrito e tranquillo a scandire slogans. Due organizzatrici e una parlamentare del DTP, tra i poliziotti e le manifestanti, rilasciano una lunga intervista ad un gruppo di giornalisti.

Noi sembriamo un’ agenzia stampa e scattiamo centinaia di foto: volti sorridenti e ritmi allegri, i giovani poliziotti continuano a sembrare assolutamente tranquilli.

Poi le donne si siedono e, instancabili, continuano a lanciare slogan ritmati. Si chiacchiera con diverse persone, i giovani attaccano bottone: è chiaro che la nostra presenza è importante e fonte di curiosità e interesse da molti punti di vista. Chissà?! Forse è una apertura alla possibilità, all’altro, alla distanza, alla differenza, che seduce a diversi livelli soprattutto i giovani. E certo anche politica, quella più umana.

Poi, a sottolineare i ritmi cantati e urlati dalle donne, un gruppo di giovani uomini non resiste: e si lancia, in una danza allegra e gagliarda. Applausi.

Infine, dopo qualche ora, veramente donne: quando finiscono in realtà non finiscono. Il sit-in termina: saluti, ci regalano qualche bandiera, ancora sorrisi, si riavvolgono gli striscioni. Persino i poliziotti smobilitano. Le donne sembrano defluire verso la piazza. E invece no: un folto gruppo di donne, a ritmo quasi di corsa si ricompatta e vola verso un giardino vicino al tribunale.

La polizia capisce in ritardo, rincorre. Adesso riconosciamo un nugolo di poliziotti in borghese che fotografano e indicano questa o quella donna. Una donna parla ma non capiamo un accidente, poi ancora qualche ritmo/slogan lanciato al vento e alla città.

Adesso, tra le prime ombre della notte, è veramente finita: e sono saluti e ancora ringraziamenti.

E’ una cosa a cui non siamo abituati: essere ringraziati per il fatto di esserci. Ed essere solidali e testimoni.

Proprio un’altra storia.

22 novembre 2009 – incontro con Guler Zere, libera, nel quartiere di Armutlu

C’è poi il giorno che chiude la storia e l’avventura: ed è il tempo e l’emozione che non ti aspetti, come quando ti imbatti nel segreto di azioni, parole e pensieri che ti sembrano scontate.

Comincia con abbracci e sorrisi, parole di arrivederci, impegni a ritrovarsi e a non dimenticarsi: Alfonso, Manuel e le quattro ragazze di Roma prendono il volo e ci lasciano. Restano però ad accompagnarci la loro allegria e le loro parole sbarazzine, insieme all’entusiasmo da adolescenti in lotta permanente. Indimenticabili.

Poi ci imbarchiamo per l’ultimo impegno: andremo a incontrare e salutare Guler Zere, una compagna gravemente ammalata.

Un lungo percorso in tram e autobus: chiacchiere, stupore per una città immensa e bellissima, a metà tra il cielo e il mare, tra presente e futuro. Chiacchiere da fine viaggio, sorrisi e confidenze.

“Ricordiamoci di comprare dei fiori !” Ripetuto tante volte… che non l’abbiamo fatto: lassù, tra quelle case ai confini di un altro mondo, non ci sono fiorai. Siamo ad Armutlu, un quartiere rosso e militante e lo si capisce subito, dagli incontri e dai sorrisi, e dal modo con cui siamo accolti.

Per Guler, viriamo su frutta colorata e dolce.

Intanto si avvicinano compagni e curiosi: saluti, parole incomprensibili e… offerta di mandarini. Tra strette di mano e sorrisi si va. Tra case che non nascondono la loro origine di baracche, ma belle, pulite, e più che dignitose.

E sempre, e ancora, saluti, strette di mano, sorrisi: si ha proprio la sensazione netta di essere entrati in un territorio “altro”. Persino foto e saluti a due giovani sposi - e ad una coppia di suonatori di strada che li accoglie - che si avviano, strombazzando, verso una nuova avventura e un nuovo inizio.

Poi, finalmente, in una bella giornata di sole, arriviamo a casa di Guler Zere: una casetta con giardino, tra il verde. E’ un momento delicato: entriamo? non entriamo? Entra solo qualcuno?

Poi, tutti ci togliamo le scarpe: siamo dentro.

Dalla porta della sua stanza, la vediamo: bella, giovane, con un sorriso aperto. Ci saluta con affetto e ci travolge con il suo sorriso.

Non riusciamo a trovare parole. Vuole una foto: non esitiamo. Due di noi entrano ad abbracciarla: e sono ancora sorrisi, altre foto, e le mani che si fanno complicità, riconoscimento, promessa, impegno e desiderio di futuro.

E quella frase di Antonio: “Ti volevamo portare dei fiori, ma non li abbiamo trovati.”

E la sua risposta, accompagnata da un sorriso che entra profondo in ciascuno di noi: “ Voi non avete bisogno di portare i fiori; ho preso i fiori dal vostro cuore”.

E’ più di un atto di poesia! E’ un riportarci a ciò che siamo prima di ogni impegno politico: uomini e donne. Uomini e donne che si riconoscono come tali. E’ molto di più della solidarietà e della condivisione politica.

E’ ritrovarsi, improvvisamente, in quel punto in cui la tua vita, i tuoi pensieri, il tuo corpo, le tue parole, la tua emozione, il tuo impegno, i tuoi sogni si ritrovano in un sorriso.

Grazie Guler!!

Poi non ci resta che tornare a casa. Con il cuore e pensieri che sanno di futuro.

Nota

Guler Zere, 37 anni, era una guerrigliera del DHKC-P, una formazione della sinistra messa fuorilegge dallo Stato, che operava sulle montagne intorno a Dersim.
Arrestata, è stata condannata all’ergastolo ed è in carcere da 14 anni.

“Aveva un rigonfiamento ad un dente – ci dicono - e il dentista del carcere le ha diagnosticato un ascesso, per cui le ha prescritto un’aspirina e degli antibiotici”.

Prima di arrivare dal dentista, ci sono voluti sei mesi di richieste e di insistenze, in quanto la direzione del carcere non accordava l’autorizzazione!
In seguito, visto che il gonfiore permaneva, Guler ha chiesto di essere portata in ospedale. Anche qui, l’attesa è stata lunga, la direzione del carcere ha accampato molte scuse: non c’era il furgone disponibile, non si trovavano posti liberi… Alla fine, quando è arrivata in ospedale, le hanno diagnosticato un tumore!

Il procuratore ha autorizzato il padre ad incontrarla per quindici minuti a settimana e, solo recentemente, ha riottenuto la libertà.

martedì 8 dicembre 2009

Copenhagen - Al via il vertice sul clima


Tutti i riflettori della stampa internazionale sono puntati sull'apertura del Vertice dell'Onu sui cambiamenti climatici che si è svolta ieri nella città di Copenaghen. Un vertice che nasce nel solco delle contraddizioni della crisi climatica e energetica e si profila come un fallimento dal suo avvio. Nessun trattato verrà probabilmente siglato a conclusione del vertice, solo vaghe promesse che i diversi paesi faranno sulla riduzione delle emissioni di CO2.

La verà novità rappresentata da questo evento sono le energie che i movimenti in tutto il pianeta stanno sprigionando in partenza per la città della sirenetta. Per affermare che l'unica inversione di rotta possibile è quella che in basso i movimenti sociali stanno cercando di costruire giorno dopo giorno.

Decine di migliaia sono gli attivisti in marcia in queste ore per partecipare alla settimana di contestazioni, mobilitazioni e azioni dirette che si terranno dall'11 al 18 Dicembre. Diverse centinaia gli attivisti dei centri sociali italiani con gli zaini ormai pronti.

Intanto ieri si è svolta anche l'inaugurazione del Klima Forum, uno spazio di discussione e analisi costruito dal basso, con l'intervento di Naomi Klein.

Riportiamo l'articolo dal sito del Klima forum:

Last chance to save the world says Naomi Klein

Speaking at Klimaforum’s opening ceremony in Copenhagen Naomi Klein expressed her doubt whether an ambitious deal would be made at the Bella Centre. “The Bella Center is the biggest case of disaster capitalism. The deal we really need is not even on the table,” she said.

The Canadian author emphasized the importance of civil society to come together to take action on the climate crisis. “There is a difference between a deal and success and Klimaforum09 needs to be the lie detector when the politicians come out with a deal,” she added.

Naomi also had critical words to say about Hopenhagen and its branding extravaganza. “The globe has Siemens logo on the bottom and the whole event is sponsored by Coke. That is a capitalization of hope but Klimaforum09 is where the real hope lies,” she said.

“Klimaforum is not about giving charity to the developing world its about taking responsibility and the industrialized countries cleaning up our own mess,” she concluded.

Klimaforum09 the peoples conference is open from Tuesday 8th till Friday 18th December. The programme features close to 200 workshops, 70 exhibitions and a comprehensive film, theatre and musical events.

The Danish organizers expect up to 10,000 daily visitors and guest speakers include Vandana Shiva, George Monbiot, Bill McKibben, Tim Jackson and Wangari Maathai.

“We would like to tell you that climate change is already seriously impacting us. It brings floods, droughts and the outbreak of pests that are all causing harvest failures,” said Henry Saragih, general coordinator of the global peseants movement Via Campesina, also speaking at the opening cermony.

Nnimmo Bassy, Head of Friends of Earth International, stressed the importance of people getting together to take action.

"At Klimaforum09 we find the real people taking real action. Poluters must be hold accountable and policy makers must start listening to the people," he said.

lunedì 7 dicembre 2009

Studente kurdo ucciso dalla polizia a Diyarbakir

amed7dic
Aydin Erdem aveva 23 anni. E’ morto ieri quando un poliziotto lo avrebbe colpito alle spalle. Un singolo colpo, partito dalla pistola di ordinanza. Alla schiena, a distanza ravvicinata. Aydin come migliaia di altri giovani stava protestando nella città kurda di Diyarbakir contro le condizioni di detenzione del leader del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) Abdullah Ocalan. In realtà la protesta che da dieci giorni ha invaso le città kurde, le metropoli turche e molte città europee, è rivolta al governo turco che di fatto ha fin qui respinto la richiesta di dialogo ripetuta dal Dtp (partito della società democratica), dalla società civile kurda, dallo stesso Pkk e da Ocalan.

Anche in queste ore in molte città kurde continuano le manifestazioni e gli scontri.
L’avvocato e presidente della sezione di Diyarbakir dell’associazione per i diritti umani (IHD), Muharrem Erbey ha assistito all’autopsia sul corpo del giovane Aydin Erdem. L’avvocato ha confermato che il ragazzo è stato colpito alle spalle, a distanza ravvicinata.

Abdullah Ocalan è dal 1999 unico detenuto nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali. Ma da un paio di settimane il governo ha trasferito il presidente del Pkk in un nuovo edificio realizzato sull’isola. Qui Ocalan è in ‘compagnia’ di altri sei detenuti. In realtà continua a rimanere in isolamento in una cella più piccola di quella precedente. E’ stato lo stesso Ocalan a denunciare, attraverso i suoi legali, di sentirsi “quasi morto. La cella – ha detto – è di sei metri quadrati. Non riesco a respirare. C’è una sola finestra sul soffitto e questo mi impedisce di ricevere ossigeno”.

di Orsola Casagrande

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!