"La libertà è una benedizione per cui vale la pena lottare”. Twitter, 8 febbraio 2011. Sono le prime parole postate in rete da Wael Ghonim, il nuovo eroe di piazza Tahrir, che ieri ha commosso l'Egitto con una sua intervista a Dream Tv. È il numero uno di Google in Egitto, e da 12 giorni era semplicemente scomparso. Di lui non si sapeva più niente, se fosse stato ucciso o arrestato. Ieri ha raccontato di essere stato sequestrato la notte tra il 27 e il 28 gennaio, all'una di notte, da quattro agenti in borghese che lo hanno acciuffato per strada mentre aspettava un taxi con un amico. Lo hanno portato via bendato e ammanettato, e la benda dagli occhi non gliel'hanno tolta per tutti i dodici giorni di detenzione, durante i quali è stato sottoposto a insistenti interrogatori, accusato di essere un cospiratore al soldo degli Stati Uniti o dell'Iran. Al pubblico ha chiesto di non stampare manifesti con la sua immagine, di non fare di lui un eroe. Perché gli eroi sono altri. Sono i ragazzi morti in piazza sotto gli spari dei cecchini di Mubarak e delle bande criminali dei baltagia. Quando ieri nell'intervista a Dream Tv, la conduttrice Mona al Shazly ha fatto scorrere le immagini dei martiri, Wael non ce l'ha fatta a trattenersi ed è scoppiato in un pianto liberatorio. “Voglio dire a ogni padre e a ogni madre che ha perso suo figlio, che non è colpa nostra. Lo giuro su dio, non è colpa nostra. É colpa di tutti quelli che tengono in mano il potere con avidità e non lo lasciano andare”. Con lui si è commosso tutto il paese. Perché Wael è il simbolo di questa rivoluzione.
Più volte, dai giornalisti al Cairo, è stato chiesto ai ragazzi se fossero organizzati in un partito. Chi fosse il loro portavoce, se avessero un ufficio stampa. Da quello che ho capito, in questi anni, gli attivisti sono una piccola comunità che si con0sce, ha intessuto una rete di relazioni, iniziate magari in Rete e proseguite nelle strade dell’attivismo. Loro sono lì, in piazza Tahrir. Ma dal 25 gennaio sono molti, molti di più. E soprattutto – come si dice nel gergo di noi analisti – sono diventati un soggetto politico. Non un partito, non un movimento (certo, c’è il Movimento 6 aprile, ma non si può usarlo come ombrello per coprire tutti i ragazzi che sono a Tahrir). Stanno comprendendo, molto in fretta, che la “loro” rivoluzione rischia di essere gestita in toto da qualcun altro, se non si organizzano in maniera tale da parlare con una sola voce, e da partecipare alla mediazione in corso.