Il Muro e la Crepa.
Primo Appunto sul Metodo Zapatista.
3 maggio 2015
Buona sera, giorno, notte a chi ci ascolta e chi ci legge, indipendentemente da calendari e geografie.
Il mio nome è Galeano, Subcomandante Insurgente Galeano. Sono nato all’alba del 25 maggio 2014, per volere collettivo e non mio, e nemmeno di altri, altre e otroas. Come il resto delle mie compagne e compagni zapatisti, mi copro il volto quando è necessario mostrarmi, e mi scopro per nascondermi. Nonostante non abbia ancora compiuto un anno di vita, il comando mi ha assegnato il compito di guardia, vedetta o sentinella in uno dei posti di osservazione di questa terra ribelle.
Siccome non sono abituato a parlare in pubblico, tantomeno di fronte a così tante e così (scusate, dev’essere il singhiozzo da panico del palcoscenico), dicevo così raffinate personalità, vi ringrazio per la comprensione per i miei balbettii ed inciampi nella difficile e complicata arte della parola.
Ho assunto il nome di Galeano, il nome di un compagno zapatista, un maestro ed organizzatore, indigeno che fu aggredito, rapito, torturato ed assassinato da paramilitari patrocinati da una presunta organizzazione sociale: la CIOAC-Histórica. L’incubo che si concluse con la vita del compagno maestro Galeano, iniziò l’alba del 2 maggio 2014. Da quell’ora, noi, zapatiste e zapatisti, abbiamo iniziato la ricostruzione della sua vita.
In quei giorni la direzione collettiva dell’EZLN decise di far morire il personaggio autonominato SupMarcos, allora portavoce degli uomini, donne, bambini ed anziani zapatisti. Da allora, l’incarico di portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale è stato assunto dal Subcomandante Insurgente Moisés. Per sua voce parliamo, attraverso i suoi occhi guardiamo, nei suoi passi camminiamo, noi siamo lui.
Mesi dopo quel 2 maggio, la notte è scesa sul Messico aggiungendo un nuovo nome alla già la lunga lista del terrore: “Ayotzinapa”. Come è già avvenuto altre volte nel mondo, una geografia del basso veniva segnalata e nominata da una tragedia studiata ed eseguita, cioè, un crimine.
Abbiamo già detto, per voce del Subcomandante Insurgente Moisés, cosa ha significato Ayotzinapa per zapatiste e zapatisti. Col vostro permesso e delle mie compagne e compagni cape e capi zapatisti, riprendo le sue parole.
Ayotzinapa è dolore e rabbia, ma non solo. È anche e soprattutto l’ostinato impegno dei genitori e compagni degli assenti.
Alcuni di questi genitori che non hanno lasciato cadere la memoria, ci hanno fatto l’onore della loro condivisione e sono qui con noi in terre zapatiste.
Abbiamo ascoltato la parola di Doña Hilda e Don Mario, madre e padre di César Manuel González Hernández, ed abbiamo la presenza e la parola di Doña Bertha e Don Tomás, madre e padre di Julio César Ramírez Nava. Con loro reclamiamo i 46 assenti.
A Doña Bertha e Don Tomás chiediamo di far arrivare queste parole agli altri familiari degli assenti di Ayotzinapa. Perché è stata la loro lotta a far avviare questo semenzaio.
Credo che più di una, uno, unoa, della Sexta e dell’EZLN concorderanno con me che avremmo preferito che non fossero qui. Voglio dire che avremmo voluto che fossero qui ma non per dolore e rabbia, ma per un abbraccio tra compagni. Che non fosse successo nulla quel 26 settembre. Che il calendario avesse dato una mano amica ed avesse saltato quella data, e che la geografia si fosse persa e non si fosse fermata ad Iguala, Guerrero, Messico.
Ma se dopo quella notte di terrore la geografia ha raggiunto gli angoli più remoti del pianeta, e se il calendario resta fisso su quella data, è stato per il vostro impegno, per la grandezza della vostra semplicità, per la vostra dedizione incondizionata.
Non abbiamo conosciuto i vostri figli. Ma conosciamo voi. E vorremmo che la nostra ammirazione e rispetto sia per voi una certezza, anche nei vostri momenti di dolore e solitudine.
È vero, non possiamo riempire le strade e le piazze delle grandi città. Ogni mobilitazione, per piccola che sia, per le nostre comunità rappresenta una perdita importante nella loro economia, già di per sé difficile, come quella di milioni di persone, sostenuta con difficoltà dalla ribellione e resistenza che dura da oltre due decenni. Dico nelle nostre comunità, perché i nostri aiuti non sono la somma di individualità, ma sono azione collettiva, pensata ed organizzata. Sono parte della nostra lotta.
Non possiamo emergere nelle reti sociali, né far arrivare le vostre parole oltre i nostri cuori. Non possiamo nemmeno aiutarvi economicamente, anche se sappiamo che questi mesi di lotta vi hanno segnato nella salute e nelle condizioni di vita.
Succede anche che il nostro essere ribelli ed in resistenza il più delle volte è visto con sospetto e sfiducia. Movimenti e mobilitazioni che si svolgono da diverse parti, preferiscono non rendere esplicita la nostra simpatia. Sensibili al “cosa diranno” mediatico, non vogliono che la loro causa sia associata in alcun modo “agli incappucciati del Chiapas”. Lo capiamo, non lo discutiamo. Il nostro rispetto per le ribellioni che pullulano nel mondo include il rispetto delle loro valutazioni, dei loro passi, delle loro decisioni. Rispettiamo, ma non ignoriamo. Siamo attenti ad ognuna delle mobilitazioni che affrontano il Sistema. Cerchiamo di comprenderle, cioè, di conoscerle. Sappiamo che il rispetto nasce dalla conoscenza, e che la paura e l’odio, queste due facce del disprezzo, non poche volte nascono dall’ignoranza.
La stragrande maggioranza nel mondo, non solo nel nostro paese, è come voi, sorelle e fratelli familiari degli assenti di Ayozinapa. Persone che devono combattere giorno e notte per un pezzo di vita. Gente che deve lottare per strappare alla realtà qualcosa per sopravvivere.
Chiunque in basso, uomo, donna, otroa, che conosca la storia che vi addolora, simpatizza con la vostra lotta per chiedere verità e giustizia. La condivide perché nelle vostre parole vedono la ripetizione delle loro storie, perché si riconoscono nel vostro dolore, perché si identificano con la vostra rabbia.
La maggioranza non è andata a manifestare, non ha creato temi nelle reti sociali, non ha rotto vetri, non ha incendiato auto, non ha gridato slogan, non ha usurpato palchi, non ha vi ha detto che non siete soli.
Non l’hanno fatto semplicemente perché non hanno potuto farlo.
Ma hanno ascoltato e rispettano il vostro movimento.
Non demoralizzatevi.
Non credete che, solo perché chi prima era al vostro fianco ed ora se n’è andato dopo aver fatto la sua parte o dopo aver visto che non avrebbe potuto farla, la vostra causa sia meno dolorosa, meno nobile, meno giusta.
Il cammino che avete fatto fino ad ora è stato intenso, certo. Ma voi sapete che c’è ancora molto da camminare.
Sapete? Uno degli inganni di quelli che stanno sopra è convincere quelli in basso che quello che non si ottiene rapidamente e facilmente, non si otterrà mai. Convincerci che le lotte lunghe e difficili stancano e non arrivano a niente. Truccano il calendario del basso sovrapponendo il calendario di sopra: elezioni, apparizione, riunioni, appuntamenti con la storia, date commemorative che occultano solo il dolore e la rabbia.
Il Sistema non teme le esplosioni, per quanto grandi e luminose siano. Se un governo cade, sui suoi scaffali ne ha pronti altri da porre ed imporre. Quello che lo terrorizza è la perseveranza della ribellione e la resistenza del basso.
Perché in basso il calendario è un altro. Il passo è un altro. È un’altra la storia. È un altro il dolore ed un’altra la rabbia.
Ed ora, col trascorrere dei giorni, questo basso diffuso e plurale che siamo, non solo è partecipe del vostro dolore e della vostra rabbia. Ma siamo inoltre attenti alla vostra costanza, al vostro andare avanti, al vostro non arrendervi.
Credete. La vostra lotta non dipende dal numero di manifestanti, dal numero di righe sui giornali, dal numero di citazioni nelle reti sociali, dal numero di incontri ai quali siete invitati.
La vostra lotta, la nostra lotta, le lotte del basso in generale dipendono dalla resistenza. Dal non arrendersi, dal non vendersi, dal non tentennare.
Naturalmente, questo secondo noi, zapatiste e zapatisti. Ci sarà gente che vi dirà altre cose. Vi diranno che è più importante stare con loro. Per esempio, che è più importante invitare a votare per quel tal partito politico perché così troveranno gli assenti. E che se non inviterete a votare per quel tal partito, non solo avrete perso l’opportunità di ritrovare coloro che vi mancano, ma sarete anche complici del proseguimento del terrore nel nostro paese.
Sapete bene che ci sono partiti politici che approfittano dei bisogni materiali della gente. Che offrono generi alimentari, materiale scolastico, carte prepagate, biglietti per il cinema, cappellini, panini e bibite colorate in tetra pack? Beh, c’è anche chi approfitta dei sentimenti delle persone. La speranza, amici e nemici, è il bisogno maggiormente quotato là sopra. La speranza che tutto cambi, la speranza di benessere, democrazia, giustizia, libertà. La speranza che gli illuminati di sopra emancipino dal basso i reietti, per poi rivenderla. La speranza in cui la soluzione dei bisogni dipende dal colore di uno dei prodotti sullo scaffale del sistema.
Forse è gente che ne sa più di noi zapatiste e zapatisti. Sono saggi. Inoltre, vengono pagati per sapere. La conoscenza è la loro professione, di quella vivono… o con quella defraudano.
Loro ne sanno più di noi, e riferendosi a noi dicono che siamo “persi là, sulle montagne, chissà dove”, e dicono che invitiamo all’astensione e che siamo settari, forse perché, a differenza di loro, noi rispettiamo i nostri morti.
È così comodo pronunciare e ripetere nozioni e bugie! Così a buon mercato diffamare e calunniare, e poi predicare l’unità, il nemico principale, l’infallibilità del pastore, l’incapacità del gregge.
Molti anni fa, noi zapatisti non facevamo marce, non gridavamo slogan, né inalberavamo striscioni, né alzavamo i pugni. Fino a che una volta abbiamo sfilato. La data: il 12 ottobre 1992, quando in alto celebravano i 500 anni dell’”incontro dei due mondi”. Il luogo: San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, Messico. Invece degli striscioni, portavamo archi e frecce, ed un silenzio sordo era il nostro slogan.
Senza chiasso, la statua del conquistatore cadde. Se l’hanno risollevata, non importa. Non potranno mai risollevare di nuovo la paura di quello che rappresentava.
Qualche mese dopo, tornammo nelle città. Neanche quella volta avevamo slogan né striscioni, e non portavamo archi e frecce. Quell’alba odorava di fuoco e polvere da sparo. E furono i nostri volti a sollevarsi.
Mesi dopo arrivarono alcuni dalla città. Ci raccontarono delle grandi marce, degli slogan, degli striscioni, dei pugni alzati. Naturalmente, sempre premettendo che se questi poveri indios e indias, siamo sempre attenti all’equità di genere, erano sopravvissuti, era grazie a loro che nelle città avevano fermato il genocidio dei primi giorni di quell’anno 1994. Noi zapatiste e zapatisti non domandammo se prima del 1994 non ci fosse stato genocidio, né se fosse stato fermato, né se quelli della città stavano parlando di qualcosa già successo o delle sue conseguenze. Noi zapatiste e zapatisti capimmo che c’erano altre forme di lotta.
Poi abbiamo fatto le nostre marce, i nostri slogan, i nostri striscioni ed alzato i pugni. Da allora le nostre marce sono un pallido riflesso di quella marcia che illuminò l’alba dell’anno 94. I nostri slogan hanno la rima disordinata delle canzoni negli accampamenti guerriglieri di montagna. I nostri striscioni sono tremendamente complicati per trovare l’equivalente di quello che nelle nostre lingue si descrive con una parola, mentre in altre lingue c’è bisogno dei tre tomi del Capitale. I nostri pugni alzati più che sfidare, salutano. Come se si rivolgessero al domani e non al presente.
Ma qualcosa non è cambiato: i nostri volti sono ancora sollevati.
Anni dopo, i nostri cosiddetti creditori della città ci chiesero di partecipare alle elezioni. Noi non capimmo, perché noi non avevamo mai chiesto a loro di sollevarsi in armi, né che resistessero, né che si ribellassero contro il malgoverno, né che onorassero i loro morti in lotta. Non abbiamo mai chiesto loro di coprirsi il volto, di negarsi il nome, di abbandonare famiglia, professione, amicizie, tutto. Ma i moderni conquistadores, travestiti di sinistra progressista, ci minacciarono: se non li seguivamo, ci avrebbero lasciato soli e saremmo stati i colpevoli della destra reazionaria al governo. Eravamo loro debitori, dissero, e presentarono il conto da pagare stampato su una scheda elettorale.
Noi, zapatiste e zapatisti non capivamo. Eravamo insorti per comandarci da soli, non perché qualcun altro ci comandasse. Si arrabbiarono.
Poi quelli della città hanno continuato a fare cortei, gridare slogan, alzare pugni e striscioni, ed ora aggiungono tweet, hashtag, like, trending topics, followers, nei loro partiti politici ci sono gli stessi che ieri erano nella destra reazionaria, ai loro tavoli siedono insieme gli assassini ed i familiari degli assassinati, ridono e brindano insieme per i soldi ricevuti, si lamentano e piangono insieme per le poltrone perse.
Nel frattempo noi zapatiste e zapatisti qualche volta abbiamo sfilato, gridato slogan impossibili o taciuto, a volte abbiamo sollevato striscioni e pugni, sempre lo sguardo. Diciamo che non abbiamo manifestato per sfidare il tiranno, ma per salutare chi, in altre geografie e calendari, lo affronta. Per sfidarlo, noi costruiamo. Per sfidarlo, noi creiamo. Per sfidarlo, noi immaginiamo. Per sfidarlo, noi cresciamo e ci moltiplichiamo. Per sfidarlo, noi viviamo. Per sfidarlo, noi moriamo. Invece dei tweet, facciamo scuole e cliniche, invece di trending topics, feste per celebrare la vita e sconfiggere la morte.
Nella terra dei creditori della città continua a comandare il padrone, con un’altra faccia, con un altro nome, di un altro colore.
In terra zapatista comanda il popolo ed il governo obbedisce.
Forse per questo noi zapatiste e zapatisti non capivamo che noi dovevamo essere i seguaci, ed i leader della città i capi.
E continuiamo a non capire.
Ma può essere che la verità e la giustizia che voi, noi e tutti, tutte, todoas, cerchiamo, si ottenga grazie al dono di un leader circondato da persone intelligenti come lui, un salvatore, un padrone, un capo, un modello, un pastore, un governante, e tutto solo col minimo sforzo di inserire una scheda nell’urna, un tweet, la presenza nel corteo, al meeting, nella lista degli affiliati… o tacendo di fronte alla farsa che simula interesse patriottico dove c’è solo fame di Potere.
Se è vero o no, forse ce lo diranno altre idee durante questo semenzaio.
Quello che noi, zapatiste e zapatisti, abbiamo imparato è che non è vero. Da sopra vengono solo sfruttamento, furto, repressione, disprezzo. Da sopra, viene solo dolore.
E da sopra vi chiedono, esigono che li seguiate. Che voi dovete a loro che il vostro dolore sia conosciuto a livello mondiale, che dovete a loro le piazze piene, le strade colme di colore e ingegno. Che voi dovete a loro l’opera di polizia che ha denunciato, perseguitato e demonizzato gli “anarco-inflitrati-schifosi”. Che voi dovete a loro le manifestazioni ordinate, gli articoli sui giornali, le foto a colori, le recensioni favorevoli e le interviste.
Noi, zapatiste e zapatisti, vi diciamo:
Non temete di perdere chi non è mai stato davvero con voi. Sono loro che non vi meritano. Che si avvicinano al vostro dolore come ad uno spettacolo alieno che piace o no, ma del quale non saranno mai parte reale.
Non temete di essere abbandonati da chi non vuole accompagnarvi ed appoggiarvi, ma solo gestirvi, domarvi, farvi arrendere, usarvi e poi gettarvi via.
Temete invece di dimenticare la vostra causa, di abbandonare la lotta.
Ma finché resisterete avrete il rispetto e l’ammirazione di molta gente in Messico e nel mondo.
Persone come quelle che oggi sono qui con noi.
Come Adolfo Gilly.
Quello che ora vi dirò, non era previsto. La ragione? Inizialmente sia Adolfo Gilly sia Pablo González Casanova avevano detto che forse non sarebbero stati presenti, entrambi per problemi di salute. Ma Adolfo è qui, e a lui ora chiediamo di parlare dopo Don Pablo.
Il defunto supMarcos raccontava che a volte qualcuno criticava che l’EZLN avesse tante attenzioni per Don Luis Villoro, Don Pablo González Casanova e Don Adolfo Gilly. L’accusa si basava sulle divergenze che queste tre persone avevano rispetto allo zapatismo, mentre non ci fosse la stessa deferenza verso intellettuali che erano cento percento zapatisti. Immagino che il Sup, dopo aver acceso la pipa, disse: “Per prima cosa, le loro differenze non sono su ciò che è lo zapatismo, bensì su valutazioni, analisi o posizioni che lo zapatismo assume rispetto diversi temi. In secondo luogo, personalmente ho visto queste tre persone di fronte ai miei capi compagne e compagni. Qua sono arrivati intellettuali di grande prestigio ed alcuni nemmeno tanto apprezzati. Sono venuti ed hanno detto la loro parola. Pochi, molto pochi, hanno parlato con le comandanti ed i comandanti. Solo di fronte a quelle tre persone ho visto i miei capi e cape parlare ed ascoltare da uguale a uguale, con mutua fiducia e cameratismo. Come hanno fatto? Bisognerebbe chiederlo a loro. Quello che so è che questo costa, ottenere la parola e l’ascolto delle mie compagne e compagni capi e cape, con rispetto e affetto, costa e molto. In terzo luogo, aggiunse il Sup, sbagli se pensi che noi zapatisti cerchiamo specchi, consensi ed applausi. Noi apprezziamo e stimiamo le differenze nelle idee, naturalmente se sono idee critiche ed articolate, e non quei pasticci che ora abbondano tra il progressismo istruito. Noi, zapatiste e zapatisti, non valutiamo un’idea sulla base del fatto che coincida oppure no con le nostre, ma se ci fa pensare, se ci provoca, soprattutto se rende conto esattamente della realtà. Queste tre persone naturalmente hanno mantenuto posizioni differenti e perfino contrarie alla nostra rispetto diverse situazioni.
Mai, non sono mai stati contro di noi. E, nonostante il viavai della moda, sono stati sempre al nostro fianco.
I loro argomenti critici e non poche volte contrari ai nostri, non ci hanno convinti, certo, ma ci hanno aiutato a comprendere che esistono posizioni diverse e pensieri differenti, e che è la realtà a decretare la ragione, non un tribunale auto-istituito nell’accademia o nella militanza. Provocare il pensiero, la discussione, il dibattito è qualcosa che noi zapatisti apprezziamo molto.
Per questo la nostra ammirazione va al pensiero anarchico. È chiaro che non siamo anarchici, ma i suoi concetti sono di quelli che provocano e animano, che fanno pensare. E credimi, il pensiero critico ortodosso, per definirlo in qualche modo, ha molto da imparare sotto questo aspetto, e non solo dal pensiero anarchico. Per farti un esempio, la critica allo Stato in quanto tale, è qualcosa presente nel pensiero anarchico già da molto, molto tempo.
Ma tornando ai nostri 3, disse il Sup a chi chiedeva una spiegazione zapatista, quando chiunque di voi riuscirà a sedersi di fronte ai miei compagni e compagne senza che questi temano di essere presi in giro, di essere giudicati, di essere condannati; quando riuscirà a parlare con loro da uguale e con rispetto; quando sarà visto come compagno e compagna e non come un giudice estraneo; quando gli mostrino affetto, come si dice qua; o quando il suo pensiero, coincidente o no col nostro, ci aiuti a scoprire il funzionamento dell’Idra; ci suggerisca nuove domande; ci inviti a percorre nuove strade; ci faccia pensare; o quando potrà spiegare o sollecitare l’analisi di un aspetto concreto della realtà; allora, e solo allora vedrà che avremo per lui le stesse poche attenzioni che possiamo offrire. Nel frattempo, disse il Supmarcos con quel senso dello humor acido che lo caratterizzava, abbandonate per favore queste gelosie etero-patriarcali, mondialiste, viperine e stupide.
Ho ricordato questo aneddoto che mi è stato riferito dal SupMarcos, perché alcuni mesi fa, quando è venuta in visita una delegazione dei familiari che lottano per la verità e la giustizia per Ayotzinapa, uno dei papà ci ha raccontato di una loro riunione con il malgoverno. Non ricordo se fosse la prima. Don Mario ci raccontò che i funzionari erano arrivati con le loro carte e la loro burocrazia, come se si stessero occupando di un cambiamento di targhe e non di un caso di sparizione forzata. I familiari erano impauriti ed arrabbiati e volevano parlare, ma il burocrate che avevano davanti diceva che potevano parlare solo quelli che erano autorizzati e li intimoriva. Don Mario racconta che con loro c’era un signore di mezza età, “di giudizio” direbbero le zapatiste e gli zapatisti. Quel signore, senza che nessuno se l’aspettasse, diede una manata sul tavolo ed alzò la voce chiedendo che fosse data la parola a chiunque familiare che volesse parlare. Don Mario ci disse, parola più, parola meno, “quel signore non aveva paura, e ce la tolse anche a noi e così cominciammo a parlare, e da allora non ci siamo più fermati”. Quell’uomo che spinto dalla rabbia si era imposto di fronte alla negligenza governativa, avrebbe potuto essere una donna, o unoa otroa, e sono sicuro che ognuno di voi avrebbe fatto la stessa cosa o qualcosa di simile in quelle circostanze, ma è toccato farlo a quel signore che si chiama Adolfo Gilly.
Compas familiari:
A questo ci riferiamo quando diciamo che c’è gente che sta con voi senza considerarvi una merce da comprare, vendere, scambiare o derubare.
E come lui, ce ne sono altre, altri, otroas, che non picchiano i pugni sul tavolo solo perché non ce l’hanno davanti, altrimenti vedreste.
Noi zapatisti abbiamo imparato anche che niente di quello che meritiamo e di cui abbiamo bisogno si ottiene con facilità né rapidamente.
Perché la speranza per quello che sta sopra è una merce. Ma per chi sta in basso è la lotta per una certezza: Otterremo ciò che meritiamo e di cui abbiamo bisogno perché ci stiamo organizzando e stiamo lottando per questo.
Il nostro destino non è la felicità. Il nostro destino è lottare, lottare sempre, ad ogni ora, in ogni momento, in tutti i luoghi. Non importa che il vento non sia a favore. Non importa che abbiamo tutto contro. Non importa che arrivi la tormenta.
Perché, lo crediate o no, i popoli originari sono specialista in tormente. Sono lì. E qui siamo. Noi ci chiamiamo zapatisti. E da oltre 30 anni paghiamo il costo di chiamarci così, in vita e da morti.
Tutto quello che abbiamo, cioè, la nostra sopravvivenza nonostante tutto e nonostante tutti quelli che stanno sopra e che si sono succeduti nei calendari e nelle geografie, non lo dobbiamo a singoli individui. Lo dobbiamo alla nostra lotta collettiva ed organizzata.
Se qualcuno chiede a chi devono gli zapatisti e le zapatiste la loro esistenza, la loro resistenza, la loro ribellione, la loro libertà, dirà la verità chi risponderà: “A NESSUNO”.
Perché è così che il collettivo annulla l’individualità che soppianta ed impone, fingendo di rappresentare e indirizzare.
Per questo vi abbiamo detto, familiari della ricerca della verità e della giustizia, che quando tutti se ne andranno e vi lasceranno soli, rimarranno i NESSUNO.
Una parte di questi NESSUNO, forse la più piccola, siamo noi zapatisti. Ma ce ne sono molti altri.
NESSUNO è chi fa girare la ruota della storia. È NESSUNO a lavorare la terra, che fa funzionare le macchine, che costruisce, che lavora, che lotta.
NESSUNO è chi sopravvive alla catastrofe.
Forse ci sbagliamo, e la strada che vi offrono potrebbe essere quella giusta. Se così credete e deciderete in questo senso, non aspettatevi da parte nostra un giudizio di condanna, né ripudio, né disprezzo. Avrete ugualmente il nostro affetto, il nostro rispetto, la nostra ammirazione.
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Familiari degli Assenti di Ayotzinapa:
È molto ciò che non possiamo fare, che non possiamo darvi.
Ma in cambio abbiamo una memoria forgiata in secoli di silenzio ed abbandono, nella solitudine, nei luoghi dell’aggredito perché di colore diverso, diversa bandiera, lingua diversa. Sempre dal sistema, il maledetto sistema che è su di noi. Il sistema che si regge a nostro costo.
E forse le memorie ostinate non riempiono le piazze, né vincono o comprano poltrone nei governi, né occupano palazzi, né bruciano automobili, né rompono vetrine, né innalzano monumenti nei musei effimeri delle reti sociali.Le memorie testarde solo non dimenticano, e così lottano.
Le piazze e le strade si svuotano, le poltrone ed i governi finiscono, i palazzi crollano, le automobili e le vetrine si sostituiscono, i musei ammuffiscono, le reti sociali corrono da una parte all’altra a dimostrare che la futilità, come il capitalismo, può essere di massa e simultanea.
Ma arrivano momenti, compagni familiari degli assenti, in cui la memoria è l’unica cosa che si ha.
In quei momenti, sappiate che avrete anche noi zapatiste e zapatisti dell’EZLN.
Perché la tenace memoria delle zapatiste e degli zapatisti è molto altra. Perché non solo porta l’annotazione dei dolori e delle rabbie passate che disegnano sul quaderno le mappe di calendari e geografie che sopra sono stati dimenticati.
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IL MURO E LA CREPA
Come zapatisti, la nostra memoria si affaccia anche su quello che viene.
Segnala date e luoghi.Se non c’è un punto geografico per quel domani, cominciamo a mettere insieme rametti, sassolini, brandelli di stoffa e carne, ossa e fango, ed iniziamo la costruzione di un isolotto, o meglio, di una barca piantata in mezzo al domani, lì dove ora si scorge solo una tormenta.
E se nel calendario noto non c’è un’ora, un giorno, una settimana, un mese, un anno, cominciamo allora a riunire frazioni di secondi, minuti, e li facciamo passare per le crepe che apriamo nel muro della storia.
E se non c’è una crepa, allora facciamola graffiando, mordendo, scalciando, battendo con le mani e la testa, con l’intero corpo fino a procurare alla storia questa ferita.
E poi succede che qualcuno si avvicini e ci veda, veda la zapatista, lo zapatista che picchia duro contro il muro.
Chi passa lì vicino, a volte è chi crede di sapere. Si ferma un attimo, muove la testa con disapprovazione, giudica e condanna: “così non riuscirete mai ad abbattere il muro“.
Ma, a volte, molto raramente, passa l’altra, l’altro, l’otroa. Si ferma, guarda, capisce, si guarda i piedi, si guarda le mani, i pugni, le spalle, il corpo. E sceglie. “Qui va bene“, potremmo sentire se il suo silenzio si potesse udire, mentre fa un segno nel muro solido. E giù a picchiare.
Chi crede di sapere ritorna, dato che il suo percorso è sempre di andata e ritorno, come per passare in rassegna i suoi sudditi. Vede l’altro impegnato nello stesso ostinato compito. Valuta che ce n’è abbastanza affinché lo ascoltino, lo applaudano, lo acclamino, lo votino, lo seguano. Parla molto, dice poco: “non riuscirete mai ad abbattere quel muro, è indistruttibile, è eterno, è interminabile”. Quando ritiene sia opportuno, conclude: “quello che dovreste fare, è vedere come gestire il muro, cambiare la guardia, cercare di farlo un poco giusto, educato. Io vi prometto di ammorbidirlo. In ogni modo, staremo sempre da questa parte, Se continuate così, state solo facendo il gioco all’attuale amministrazione, del governo, dello Stato, di quel che è, non importa, perché il muro è il muro e – lo capite? starà sempre lì”.
Poi si avvicina qualcun altro. Osserva in silenzio e dice: “invece di impegnarvi tanto contro il muro, dovreste capire che il cambiamento sta dentro di ognuno, si deve solo pensare in modo positivo, ma guarda il caso, ho proprio qui questa religione, moda, filosofia, alibi che vi servirà. Non importa se è vecchia o nuova. Venite, seguitemi”.
Ma quelli che sono tenaci e picchiano contro il muro sono già meglio organizzati, diventano collettivi, squadre, si rimpiazzano, si alternano. Ci sono squadre grasse, deboli, alte e piccole; là ci sono quelli sporchi, brutti, cattivi e volgari; ce ne sono con testoni, piedoni, con le mani incallite dal lavoro, ce ne sono che, sia donne, sia uomini, sia otroas, danno una mano, il corpo, la vita.
A darci dentro con quello che hanno.
Chi con un libro, un pennello, una chitarra, un giradischi, un verso, una zappa, un martello, una bacchetta magica, una matita. C’è perfino chi colpisce il muro con un “pas de chat“. E succede quello che succede, perché il ballo è contagioso. E qualcuno porta una marimba, una tastiera o un pallone e poi i turni… beh, potete immaginare.
Naturalmente il muro non ne vuol sapere. Segue impavido, potente, immutabile, sordo, cieco.
Ed arrivano i mezzi di comunicazione prezzolati: scattano foto, video, si intervistano tra loro, consultano esperti. L’esperta tal dei tali, la cui unica virtù è essere di un altro paese, dichiara con sguardo trascendente che la composizione molecolare della materia che conferisce al muro la sua corporeità è tale che nemmeno una bomba atomica può abbatterlo e che, pertanto, quello che fa lo zapatismo è assolutamente controproducente e finisce per essere complice del muro stesso (fuori onda l’esperta chiede all’intervistatore di citare il suo unico libro, sperando che così si riesca a vendere).
Segue la sfilata di esperti. La conclusione è unanime: è uno sforzo inutile, così non abbatteranno mai il muro. All’improvviso, i media corrono ad intervistare chi offre un’amministrazione “più umana” del muro. Il groviglio di telecamere e microfoni produce un effetto curioso: chi non ha argomenti né seguaci, sembra averne molti sia degli uni che degli altri. Grande e commovente discorso. C’è la notizia. I mezzi di comunicazione prezzolati se ne vanno, perché nessuno prestava attenzione a quello che diceva il candidato, il leader o il saggio, ma ai loro telefonini che, ovviamente, sono almeno più intelligenti dell’intervistato o intervistata, informano che è scoppiato un terremoto, il funzionario tal dei tali è stato scoperto corrotto, james bond è arrivato nello Zócalo, e la partita del secolo ha attirato milioni di persone, forse perché pensavano che era tra sfruttati e sfruttatori.
Nessuno chiede niente alla zapatista, allo zapatista. Se l’avessero fatto, probabilmente non avrebbero risposto. O forse avrebbero rivelato la ragione del loro assurdo impegno: “non voglio abbattere il muro, basta fare una crepa”.
Non è stato dai libri già scritti, ma da quelli ancora non scritti ma che già sono stati letti da generazioni che le zapatiste e gli zapatisti hanno imparato che se smetti di graffiare la crepa, questa poi si chiude. Il muro si sistema da solo. Per questo devono continuare senza fermarsi. Non solo per allargare la crepa, soprattutto perché non si chiuda.
La zapatista, lo zapatista, inoltre sa che il muro muta aspetto. A volte è come un grande specchio che riproduce l’immagine di distruzione e morte, come se non fosse possibile altro. A volte il muro si dipinge gradevolmente e sulla sua superficie appare un sereno paesaggio. Altre volte è duro e grigio, come per convincere della sua impenetrabile solidità. Il più delle volte il muro è una grande pensilina dove si ripete “P-R-O-G-R-E-S-S-O”.
Ma lo zapatista, la zapatista sa che è una bugia. Sa che il muro non è sempre stato lì. Sa come è nato. Sa come funziona. Conosce i suoi inganni. E sa anche come distruggerlo.
Non gli preoccupa la presunta onnipotenza ed eternità del muro. Sa che entrambe sono false.
Ma ora la cosa importante è la crepa, che non si chiuda, che si allarghi.
Perché anche lo zapatista, la zapatista, sa che cosa c’è dall’altra parte del muro.
Se glielo domandassero, risponderebbe “niente“, ma sorriderebbe come se avesse detto “tutto“.
Durante uno dei cambi, los Tercios Compas, che non sono media, né liberi, né autonomi, né alternativi, né come si chiamino, ma sono compas, interrogano con severità chi sta picchiando sul muro.
“Si dice che dall’altra parte non ci sia niente, perché volete fare una crepa nel muro?”.
“Per guardare”, risponde la zapatista, lo zapatista, senza smettere di graffiare.
“Perché vuoi guardare di là?”, insistono los Tercios Compas che, siccome tutti i media sono andati via, sono gli unici a restare. E per ratificarlo, sulla maglietta portano scritto “Quando i media se ne vanno, rimangono los tercios”. Ovviamente sono di troppo perché sono gli unici che fanno domande invece di battere sul muro con la telecamera o col registratore o con finalmente-so-a-che-diavolo-serve-questo-dannato-treppiede.
Los Tercios chiedono di nuovo, ci mancava altro. E gli è entrato solo in testa, perché il registratore già se n’è andato, della telecamera meglio non parlare, e il treppiede è diventato centopezzi. Quindi ripetono: “E perché vuoi guardare?”.
“Per immaginare tutto quello che si potrà fare domani“, risponde lo zapatista, la zapatista.
Quando la zapatista, lo zapatista ha detto “domani” poteva benissimo riferirsi ad un calendario perso in un futuro a venire. Potrebbero essere millenni, secoli, decenni, lustri, anni, mesi, settimane, giorni… o già domani? dopodomani? domani domani? Ti piace? Non rompere che non mi sono nemmeno pettinato!
Ma non tutti, tutte, sono passati alla larga.
Non tutte, tutti, sono passati ed hanno giudicato assolvendo o condannando.
Sono stati in pochi, molto pochi, così pochi come nemmeno le dita di una mano.
Stavano lì, in silenzio, a guardare.
E sono ancora lì.
Solo di quando in quando proferiscono un “mmm” molto simile a quello dei più antichi abitanti delle nostre comunità.
Contrariamente a quanto si possa pensare, il “mmm” non significa disinteresse o indifferenza. Nemmeno disapprovazione o accordo. È piuttosto un “sono qui, ti ascolto, ti guardo, continua”.
Sono avanti con gli anni questi uomini e donne, “di giudizio” dicono i compas quando si riferiscono alle persone mature, ad indicare che i calendari sfogliati nella lotta conferiscono ragione, saggezza e discrezione.
Tra quei pochi, ce n’era uno, c’è uno. A volte quell’uno si unisce alle partite di calcio che il comando anti muro organizza per continuare a picchiare anche se con un pallone, e poi toccherà alla tastiera della marimba.
Come d’abitudine in quelle partite, nessuno chiede i nomi. Uno o una o unoa non si chiama juan, o juana o krishna, no. È la tua posizione a darti il nome. “Senti portiere! Passala ala! Vai terzino! Dai attaccante!“, si sente tra il frastuono sul campo, con le mucche indignate perché l’andirivieni delle squadre gli rovina il pascolo.
Ai bordi del campo una ragazzina irrequieta tenta di infilarsi un paio di stivali di gomma che, si vede, le stanno grandi.
“E tu, come ti chiami?“, chiede l’uomo alla bambina.
“Io terzina zapatista”, dice la ragazzina e lancia uno sguardo tipo “vattene se non vuoi morire”.
L’uomo sorride. Non ride apertamente. Sorride soltanto.
La ragazzina, è chiaro, sta reclutando elementi per sfidare il perdente.
Sì, perché qua, quando una squadra vince, va a picchiare sul muro. E la squadra che perde continua a giocare, “fino a che ha imparato“, dicono.
La ragazzina ha già una parte della squadra e se ne vanta con l’uomo.
“Quello è l’attaccante”, dice indicando un cagnolino di colore indefinito per le croste di fango e che muove la coda entusiasta. “Se si mette a correre, arriva fino là”, e la bambina indica l’orizzonte nascosto dal muro.
“Basta che non dimentichi il pallone“, dice quasi per scusarsi, “perché corre dall’altra parte; la palla di là ed il cagnolino attaccante di là”.
“Quello è portiere o si dice anche portinaio, credo”, dice ora indicando un vecchio cavallo.
“Il mio compito”, spiega la ragazzina, “è non far passare il pallone, perché lo guardi, è orbo, gli manca l’occhio destro e guarda solo in basso e a sinistra e se il tiro arriva da destra, niente da fare”.
“Beh, ora qui non c’è tutta la squadra. Manca il gatto… o forse è un cane. È molto strano quel-come-si-chiama, è come un cane ma miagola, è come un gatto ma abbaia. Ho cercato nel libro di erboristeria per vedere come si chiama un animale così. Non l’ho trovato. Pedrito ha detto che il Sup ha detto che si chiama gatto-cane.
Ma non bisogna credere a tutto quello che dice Pedrito perché…” la ragazzina si guarda intorno per assicurarsi che non ci sia nessuno che possa sentire e dice al signore in gran segreto “Pedrito tifa per l’América”, poi, con maggior confidenza: “Suo papà tifa las Chivas e si arrabbia. Così litigano e sua mamma li prende tutti e due a ciabattate così si acquietano, ma il Pedrito si mette a parlare della libertà secondo las zapatillas [le pantofole] e non so che altro”.
“Sarà, secondo gli zapatisti”, corregge il signore. La ragazzina lo ignora, ben gli sta al Pedrito, la deve pagare.
“Bene, tu-come-ti-chiami, pensi che il gatto-cane sappia giocare?”.
“Sa giocare”, risponde a sé stessa.
“Siccome il nemico non capisce se è un cane o un gatto, corre di qua e di là e allora, zac! goal! L’altro giorno stavamo quasi vincendo quando il pallone è finito nella montagna ed è arrivata l’ora del pozol e quindi la partita è stata sospesa. Te lo dico, quel gatto-cane come-si-chiami, sa giocare. Quel gatto-cane ha l’occhio giallo”.
L’uomo è rimasto di stucco. La ragazzina ha descritto un colore con le sue manine. L’uomo ha viaggiato per mari e monti, ma non aveva mai incontrato qualcuno che descrivesse un colore con un gesto. Ma la bambina non sta impartendo corsi di fenomenologia del colore, e continua a parlare.
“Adesso però il gatto-cane non c’è”, dice dispiaciuta, “credo che sia andato a farsi prete perché dicono che è andato in un seminario contro il fottuto capitalismo. Tu sai cos’è il fottuto capitalismo? Bene, ti faccio un po’ di lezione di politica. Allora, il dannato sistema non ti morde solo da un lato, ma ti frega da tutte le parti. Il sistema morde tutto, ingoia tutto e si ingrassa. Cioè, per farmi capire meglio, il maledetto capitalismo è senza fondo. Per questo ho detto al gatto-cane di andare a farsi prete in un seminario. Ma non obbedisce. Lei crede che un gatto-cane può farsi prete? No, vero? Nemmeno per quanti goal faccia, e neanche per l’occhio giallo. Tu permetteresti che un gatto-cane, anche se con un occhio giallo, celebrasse un matrimonio? No, vero? Per questo quando io mi sposerò con mio marito non voglio preti, solo in municipio autonomo e poi a ballare, e se no, niente. Solo ufficialmente, perché poi non si sparli in giro. Solo io ed il mio come-si-chiami, e poi devi tenere a bada il marito, perché ‘se fai volare i corvi ti caveranno gli occhi’. Così dice mia nonna che è ormai vecchia ed ha combattuto il primo gennaio 1994. Non sai cosa è successo il primo di gennaio 1994? Allora poi te lo dico con una canzone che racconta tutto. Adesso no, perché tra poco ci tocca giocare e bisogna essere pronti. Ma per non lasciarti in sospeso, ti dico che quel giorno abbiamo detto basta ai maledetti malgoverni, basta con le loro stronzate. Mia nonna dice che è stato grazie alle donne, che se fosse stato per quegli stronzi dei mariti saremmo ancora qui a penare, come quelli che stanno con i partiti. Non so ancora chi sarà mio marito, perché gli uomini sono dei testoni, sapessi. E poi sono ancora una bambina. Ma so che più avanti gli uomini mi guarderanno, ma io sono seria, niente sì e no, niente non so, io so il fatto mio e se quello stronzo di marito vuole solo perdere tempo, allora resto terzino zapatista, gli dò uno scappellotto e lo mando via, perché mi deve rispettare come donna zapatista. E se non lo capisce subito, allora giù a sberle fino a che capisce la lotta di noi donne”.
L’uomo ha seguito attentamente tutta la pappardella della ragazzina. Non così il cagnolino con le croste di fango che gira a zonzo. Né il cavallo orbo che mastica con parsimonia una borsa di plastica eredità degli alunni della escuelita. E dopo tutto questo, l’uomo non ride, è riuscito solo a sbattere le palpebre allo stesso ritmo della sua sorpresa.
“E saremo sempre di più”, sostiene la ragazzina, “sì, saremo sempre di più”.
L’uomo tarda un po’ a capire che ora la ragazzina si riferisce alla sua squadra. Oppure no?
Ma adesso la ragazzina studia l’uomo con sguardo da talent-scout, dopo vari “mmm“, lo interroga “E tu, come ti chiami?“.
“Io?” dice l’uomo sapendo che la ragazzina non sta chiedendo l’albero genealogico, né lo stemma araldico, ma una posizione.
Dopo aver percorso mentalmente varie opzioni, l’uomo risponde: “io mi chiamo raccattapalle“. La ragazzina valuta in silenzio l’utilità di questa posizione.
Dopo averci pensato un po’, dice all’uomo, non per consolarlo, ma perché si renda conto di quanto è importante:
“Raccattapalle, nientemeno. Se il pallone va di là per il bosco, scordatelo, nessuno vuole andarci perché è pieno di spine, cespugli, ragni, perfino bisce. Se poi il pallone va verso il ruscello la corrente se lo porta via, allora bisogna correre per prenderlo, il pallone. Quindi, raccogliere i palloni conta, bene dunque. Senza raccattapalle non può esserci partita. E se non c’è partita, non c’è festa, e se non c’è festa non c’è ballo, e se non c’è ballo mi pettino i capelli con i miei nastri colorati per niente”, dice la ragazzina e dal suo zainetto tira fuori un mucchio di nastri colorati.
“Raccattapalle, nientemeno”, ripete la bambina all’uomo mentre lo abbraccia, non per consolarlo, ma perché capisca che tutto quello che vale la pena fare, si fa in squadra, collettivamente, ognuno ha il suo compito.
“Lo farei io, ma ho molta paura dei ragni e dei serpenti. L’altra notte ho perfino sognato di incontrare una dannata biscia lunghissima nel prato”, ed allarga le braccia fino a dove riesce.
L’uomo sorride.
La partita è finita, la ragazzina non ha completato la squadra per la sfida e si è addormentata sul prato.
L’uomo si alza e la copre con la sua giacca perché il pomeriggio si oscura e già la frescura allevia la terra. Forse perfino pioverà.
Un miliziano sta tornando con i documenti che aveva chiesto la Giunta di Buon Governo. L’uomo aspetta il suo turno.
Finalmente dicono il suo nome e riprende il suo passaporto che sulla copertina riporta l’incisione “Repubblica Orientale dell’Uruguay”. Al suo interno c’è la foto di un uomo con la faccia da “Che diavolo ci faccio qui?” e di fianco si legge “Hughes Galeano, Eduardo Germán María”.
“Senta”, gli chiede il miliziano, “si è messo il nome di battaglia Galeano per il compa sergente Galeano?”.
“Sì, credo di sì”, risponde l’uomo mentre regge dubbioso il passaporto.
“Ah!”, dice il miliziano, “l’avevo immaginato”.
“Dove si trova il suo paese?”.
L’uomo guarda il miliziano zapatista, guarda il muro, guarda le persone che scavano la crepa, guarda i bambini che giocano e ballano, guarda la ragazzina che vuole parlare col cagnolino, con il cavallo orbo e con un animaletto che potrebbe essere un gatto, o un cane, e dice rassegnato: “anche qui”.
“Ah” dice il miliziano, “e lei che cosa fa?”.
“Io?”, cerca di rispondere mentre raccoglie il suo zaino.
E all’improvviso, come se avesse appena capito tutto, risponde sorridendo “Io faccio il raccattapalle”.
L’uomo è già lontano e non riesce a sentire il miliziano zapatista che mormora con ammirazione: “Ah, raccattapalle, nientemeno”.
Raggiunta la sua formazione, il miliziano dice ad un altro: “Ehi Galeano, oggi ho conosciuto uno che si è messo il tuo nome”.
Il sergente Galeano sorride e risponde “ma va!”.
“Sì,”, dice il miliziano, “sennò da dove l’avrebbe preso questo nome quel signore?”.
“Ah”, dice il sergente di milizia e maestro della escuelita Galeano, “e che cosa fa quello?”, domanda.
“Il raccattapalle”, dice il miliziano e corre a prendersi il suo pozol.
Il sergente di milizia Galeano raccoglie il suo quaderno di appunti e lo mette nello zaino mentre dice tra i denti: “Raccattapalle, come se fosse facile. Non è da tutti fare il raccattapalle. Per fare il raccattapalle si deve avere molto cuore, come essere zapatista, e per essere zapatista non è da tutti, anche se qualcuno poi non sa di essere zapatista… fino a che non lo scopre”.
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Forse non mi crederete, ma questo è successo solo pochi giorni fa, alcune
settimane, alcuni mesi, alcuni anni, alcuni secoli fa, quando il sole di aprile
schiaffeggiava la terra non per offenderla, ma perché si svegliasse.
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Sorelle e fratelli familiari degli Assenti di Ayotzinapa:La vostra lotta è già una crepa nel muro del sistema. Non lasciate che Ayotzinapa si richiuda. Attraverso questa crepa respirano non solo i vostri figli, ma anche le migliaia di desaparecidas e desaparecidos nel mondo.
Affinché quella crepa non si chiuda, affinché quella crepa diventi ancora più profonda e si allarghi, avrete in noi, zapatiste e zapatisti, una lotta comune: la lotta che trasformi il dolore in rabbia, la rabbia in ribellione, e la ribellione nel domani.
SupGaleano.
Messico, 3 maggio 2015
Testo originale
Traduzione “Maribel” – Bergamo