Dopo il violento attacco a Nochixtlán, nella zona mixteca del meridionale stato messicano di Oaxaca, costata la vita a 11 manifestanti, il Governo messicano ha aperto un tavolo di trattativa con i maestri in lotta da tre anni contro la riforma educativa. Intanto nel paese continuano le mobilitazioni con manifestazioni, presidi e atti di solidarietà con i maestri in lotta.
La prima domanda che sale spontanea è perchè in Messico, uno stato che si definisce democratico, per arrivare ad una trattativa serve un massacro? O forse non è meglio dire che la trattativa serve solo a ridarsi un volto pseudo-democratico, recitando la parte di chi si dice preoccupato perchè può essere che le forze dell’ordine abbiano esagerato? Come se la catena di comando di questi episodi non arrivasse dall’alto e di certo non possa essere spiegata solo con la trita e ritrita versione delle mele marce? Il governo ha dichiarato e vorrebbe che la trattativa non sia sulla riforma educativa ma solo per discutere la situazione di tensione che si è creata nel paese. La Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación (CNTE) mette sul tavolo le sue richieste che vanno dal rifiuto della privatizzazione dell’educazione, che sottende la riforma alla fine della repressione, dei licenziamenti contro chi ha scioperato. Gli incontri sono già stati due. Per il momento dal tavolo negoziale non è uscito niente di concreto e mercoledì il Segretario di governo, Miguel Angel Osorio Chong si riunirà con i familiari delle persone morte domenica a Nochixtlán. E come se ogni volta che un episodio estremo di repressione, violenza delle forze dell’ordine o dell’esercito, sparizioni fa puntare i riflettori, anche internazionali, sul paese, il governo sia costretto per un fugace attimo a darsi una parvenza di azione super partes, per poi tornare costantemente alla sua vera attitudine. Il Messico è governato da un coacervo di interessi che non esitano ad armare con l’indicazione diretta o l’impunità le mani di chi spara, uccide, fa sparire e tortura, sia che indossi una divisa sia che non la porti e faccia parte delle truppe della delinquenza organizzata. Un coacervo di interessi che guidano le politiche economiche, di saccheggio delle comunità e dei territori, accompagnate da una costante disinformazione mainstream. E’ in questo quadro che si inserisce la riforma educativa a cui si oppongono i maestri. E in questo quadro che l’opposizione alla Riforma e alla repressione che l’accompagna può rappresentare un tassello dentro il più ampio e radicale cambiamento di cui il Messico ha bisogno, come dicono il Congresso Nazionale Indigeno e l’Esercito zapatista di Liberazione Nazionale nel loro ultimo comunicato.
Un Assange visibilmente commosso e verbalmente grato ha parlato oggi dal vivo in videoconferenza a un pubblico di Quito, Ecuador, presso il quartier generale del Centro Internazionale di Educazione superiore per la Comunicazione dell’America Latina, CIESPAL, nel corso di un evento della durata di una settimana: “Julian Assange: 4 anni di libertà negata”.
Prima di cominciare con il contenuto della sua conferenza, Assange ha espresso la sua gratitudine al presidente e al popolo ecuadoriani per essersi presi il rischio di dargli asilo presso l’Ambasciata ecuadoriana e per come la fede dell’Ecuador in questo caso si è dimostrata essere pienamente giustificata dalla recente decisione del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, che ha convenuto sul fatto che lui sia stato “detenuto arbitrariamente” dal Regno Unito, il quale ha speso una somma stimata in 20 milioni di dollari per l’operazione di polizia che lo ha tenuto prigioniero.
L’argomento della sua conferenza era “da Wikileaks ai Panama Papers” e Assange è stato caustico sulla copertura dei Panama Papers da parte del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ) e sul loro rifiuto di rendere tutto di pubblico dominio. Infatti “virtualmente nulla” sarebbe una descrizione più accurata dei 200 sugli 11.5 milioni di documenti che sono stati pubblicati in toto insieme a frammenti di altri.
Assange ha iniziato il suo attacco al ICIJ contrapponendo il modo in cui opera Wikileaks. Nel modello di wikileaks, secondo gli australiani, viene pubblicato tutto, e nulla è censurato. Ha poi continuato affermando fieramente che di tutti gli 11 milioni di documenti pubblicati sul loro sito, nemmeno uno è stato mai denunciato come falso.
D’altra parte il caso dei Panama Papers mostra come l’elite USA abbia preso possesso del materiale trapelato e abbia efficacemente represso tutte le indagini esterne sui contenuti dei papers, fatta eccezione per i giornalisti disposti a giocare stando alle regole di ICIJ.
Assange ha spiegato che il problema con ICIJ è che ha sede a Washington D.C. ed è finanziato da gente come George Soros e la fondazione Rockefeller, e che i principali servizi che sono usciti nei primi giorni delle rivelazioni che attaccavano Vladimir Putin e l’establishment russo sono stati finanziati da USAID, l’Agenzia statunitense per lo Sviluppo Internazionale il cui compito è di amministrare gli aiuti civili all’estero.
Assange ha inoltre criticato gli attacchi di ICIJ a Wikileaks citando Gerard Ryle, il capo di ICIJ: “Wikileaks ha rubato il giornalismo e noi lo stiamo riprendendo” e “ICIJ è un’organizzazione responsabile. Noi non siamo Wikileaks”.
Ma Assange è stato rapido a rispondere al fuoco con la domanda centrale: “Responsabile verso chi?”
Sicuramente, ha puntualizzato Assange, se l’intero database dovesse essere pubblicato, il finanziamento a ICIJ svanirebbe, dato il numero di personaggi di spicco americani, della CIA e di molti altri che usano conti offshore per nascondere i particolari delle loro operazioni finanziarie.
Assange sostiene che questo archivio di documenti appartiene all’umanità affinché ognuno vi abbia accesso: pubblici ministeri, agenzie di intelligence, agenzie fiscali e, soprattutto, il pubblico in generale.
Alla domanda sul perché, secondo il suo pensiero, sia stata resa pubblica una così piccola percentuale di informazioni, Assange ha affermato che il Suddeutsche Zeitung (l’agenzia a cui per prima è stato fornito il materiale prima che fosse passato a ICIJ) probabilmente aveva paura della legge tedesca e di essere citato in giudizio dai possessori di conti offshore.
Ha inoltre criticato il quotidiano inglese The Guardian per la sua copertura ossessiva dell’angolazione russa dei Panama Papers, quando la reale questione per i lettori inglesi era il coinvolgimento della famiglia del primo ministro, David Cameron, sui conti offshore. Cosa che è stata portata alla luce dalla segnalazione di Wikileaks sul contenuto reso pubblico prima che The Guardian scegliesse di prendere in mano la storia.
Assange ha teorizzato che ICIJ abbia presumibilmente ristretto l’accesso delle persone ai documenti, permettendo, a giornalisti di diversi paesi, l’accesso solo ad alcuni dei documenti rilevanti per il proprio paese. Un altro punto significativo è che in posti come l’America Latina è improbabile che i veri giornalisti anti-establishment abbiano relazioni con istituzioni che hanno sede a Washington, come l’ICIJ.
“Wikileaks è la Biblioteca ribelle di Alessandria” ha affermato. “Il database Wikileaks è stato usato per ottenere giustizia e dare forma al dibattito politico. Le informazioni di Wikileaks mostrano quali sono le vere alleanze delle persone”, ha aggiunto.
Come ha detto Assange verso la fine della sua conferenza, “il giornalismo è importante ma è ancora più importante che l’intera società abbia accesso [a questo materiale]”.
.- La domanda è: quale sarebbe la metafora più appropriata per il triste e grigio capo aspirante poliziotto?
¿Aurelio Donald Nuño Trump?
¿Aurelio Ramsey Nuño Bolton?
Noi crediamo che, in linea con la sua sete di sangue e la sua viltà, gli si addirebbe di più il secondo.
E proprio come, nella serie televisiva “Game of Thrones”, Ramsay Bolton è divorato dai cani utilizzati in precedenza per attaccare gli altri; i media a pagamento usati da Nuño per calunniare, minacciare e attaccare il magistero in resistenza e le comunità e organizzazioni solidali, si ciberanno di lui nel momento della sconfitta.
Comunicato congiunto del Congresso Nazionale Indigeno e dell’EZLN sul vile attacco della polizia contro il Coordinamento Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione e della comunità indigena di Nochixtlán, Oaxaca.
20 giugno 2016.
Al Popolo messicano. Ai Popoli del Mondo:
Contro il vile attacco repressivo che hanno subito i maestri, le maestre e la comunità di Nochixtlán, Oaxaca, - con cui lo Stato messicano ci ricorda che questa è una guerra contro tutte e tutti -; noi popoli, nazioni e tribù che componiamo il Congresso Nazionale Indigeno e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, diciamo al magistero degno che non è solo, che sappiamo che la ragione e la verità sono dalla sua parte, che la dignità collettiva con cui parla la sua resistenza è infrangibile e che questa è l’arma principale di quelli che, come noi, stanno in basso.
Condanniamo l’intensificazione della repressione con la quale si cerca di imporre in tutto il paese la riforma neoliberale capitalista chiamata “educativa”, soprattutto negli stati di Oaxaca, Chiapas, Guerrero e Michoacán. Con minacce, persecuzioni, colpi, imprigionamenti ingiusti e ora persino uccisioni, si vuole spezzare la dignità del magistero ribelle.
Invitiamo la nostra gente e la società civile in generale a stare dalla parte dei docenti che resistono in ogni momento, di riconoscerci in loro, perché la violenza di privarli delle garanzie lavorative fondamentali al fine di privatizzare l’istruzione, è un riflesso della violenza con la quale ci stanno depredando, noi popoli indigeni, noi popoli contadini e urbani.
Coloro che godono del potere hanno deciso che l’istruzione, la salute, i territori indigeni e contadini, e persino la pace e la sicurezza, sono una merce per coloro che possono permettersi di pagarla, che i diritti non sono diritti, ma prodotti e servizi da strappare, da depredare, da distruggere e da scambiare secondo il dettame dal grande capitale. E questa aberrazione cercano di imporla in modo cruento; assassinando e sequestrando le nostre compagne e i nostri compagni, mandando in prigioni di massima sicurezza i nostri portavoce, facendo della tortura sfacciata il marketing del governo e, con l’aiuto dei media a pagamento, equiparando con la delinquenza il meglio della società messicana, vale a dire quelli che lottano, che non si arrendono, che non si vendono e non vacillano.
Esigiamo il cessare della repressione contro il magistero in lotta e il rilascio immediato e incondizionato di TUTTI i prigionieri politici.
Invitiamo tutte le persone dalla campagna e dalle città ad essere attenti e solidali con la lotta degli insegnanti, ad organizzarsi autonomamente per essere informati e allerta su questa tempesta che cade su tutte e tutti, sapendo che una tempesta, oltre che portare caos e tumulto, rende fertile la terra da cui nasce sempre un nuovo mondo.
Dalle montagne, dai campi, dalle valli e dai quartieri dei popoli, delle nazioni e delle tribù originarie del Messico.
.- Non sappiamo se nel resto del paese, ma almeno in Chiapas, dall'alto, stanno perdendo la guerra mediatica.
Abbiamo visto intere famiglie, nelle zone rurali e urbane,
sostenere i maestri. E non intendiamo l’appoggio del tipo “questo pugno
sì che si vede”, “el pueblo unido, jamás será vencido” e le parole
d’ordine che, nonostante le distanze in calendari e geografie, rimangono
le stesse perché, dal basso, continua ad essere fondamentale la
solidarietà. Se, nelle precedenti mobilitazioni dei maestri ribelli, la
“cittadinanza” (questo termine che nasconde la disuguaglianza) si
mostrava stanca e fastidiosa, ora le cose sono cambiate.
Sono sempre di più le famiglie che assistono le maestre e i
maestri, che li sostengono nei loro viaggi e le loro marce, che si
affliggono quando vengono aggrediti, che gli offrono cibo, bevande e
riparo.
Sono famiglie che, secondo la tassonomia della sinistra
elettorale, sarebbero “imbruttiti” dalla televisione, “sono poveracci”,
“sono alienati”, “sono trascinati”, “sono inconsapevoli”.
Ma, a quanto
pare, la massiccia campagna mediatica contro i docenti che resistono, è
fallita.
Il movimento di resistenza contro la riforma dell’istruzione è
diventato uno specchio per sempre più persone-persone (cioè non quelle
delle organizzazioni sociali e politiche, ma la gente comune). Come se
si fosse risvegliato un senso collettivo di urgenza nei confronti della
tragedia imminente. Come se ogni colpo di manganello, ogni lacrimogeno,
ogni proiettile di gomma, ogni mandato di arresto, fossero slogan
eloquenti: “oggi ha attaccato lei, o lui; domani sarai tu. ” Forse
proprio per questo, dietro ogni insegnante ci sono intere famiglie che
simpatizzano con la sua causa e la sua lotta.
Perché? Perché un movimento che è stato ferocemente
attaccato su tutti i fronti continua a crescere?
Perché, se sono
“vandali”, “pigri”, “fannulloni”, “terroristi”, “corrotti”,
“oppositori-del-progresso”, molte persone dal basso, non poche dal mezzo
, e persino alcune dall'alto, omaggiano, a volte in silenzio, i maestri
che difendono ciò che chiunque difenderebbe?
.- “La realtà è una menzogna”. Così avrebbe potuto
intitolarsi la notizia del giornale chiapaneco erroneamente chiamato
“Quarto Potere” (un media nostalgico per l’epoca delle tenute e dei
signori della forchetta e del coltello) quando “denunciava” che era
falsa la festa popolare che, il 9 giugno scorso per le strade di Tuxtla
Gutiérrez, capitale dello stato messicano sudorientale del Chiapas, è
stata celebrata a sostegno del magistero in resistenza. Parachicos,
ballerini, musicisti, costumi tradizionali, persone in carrozzina,
marimba, tamburi, fischietti e flauti, il meglio dell’arte zoque e
migliaia di persone che omaggiano la resistenza delle maestre e dei
maestri. Del “successo” della guerra mediatica contro la CNTE racconta
uno striscione che dice “Grazie maestro, per insegnarmi a lottare.” Un
altro dichiara: “Non sono un insegnante, ma sono chiapaneco e sono
contro la riforma educativa.”
Ma ciò che ha infastidito i direttori del “Quarto Potere” è
stato quello che diceva, parola più, parola meno: “Se quel bianco di
Velasco lo mettono a governare nel deserto, tra un paio di mesi
scarseggerebbe la sabbia”.
.- Beh, a più di 3 anni dalla promulgazione della presunta
“riforma scolastica”, il signor Nuño non è ancora capace di presentare
alcun argomento educativo, neppure minimo, a favore del suo “programma
personale di aggiustamento”. I suoi argomenti sono stati, finora, gli
stessi che qualsiasi capo dell’epoca porfirista: urla isteriche,
percosse, minacce, licenziamenti, incarceramenti. Gli stessi che
utilizzerebbe qualsiasi triste e grigio aspirante poliziotto
postmoderno.
.- Li hanno già picchiati, li hanno già gassati con gas
lacrimogeni, li hanno già imprigionati, li hanno già minacciati, li
hanno già licenziati ingiustamente, li hanno già calunniati, hanno già
decretato lo stato d’assedio a Città del Messico. Cosa succederà? Li
faranno sparire? Li uccideranno? Davvero? La riforma “educativa” nascerà
dal sangue e dai cadaveri delle maestre e dei maestri? Sostituiranno i
presidi magisteriali con presidi di polizia e militari? I blocchi di
protesta con carri armati e baionette?
.- Lezioni di Terrorismo per Nuño. La presa di ostaggi
(questo è, e nient’altro, l’arresto di membri della direzione della
CNTE) in ogni terrorismo (quello di Stato e quello dei suoi specchi
fondamentalisti) è una risorsa per rinforzare il dialogo e la
negoziazione. Non sappiamo se lassù, in alto, se ne sono accorti o no,
ma risulta che l’altra parte (gli insegnanti) è quella che cerca il
dialogo e la negoziazione. O la SEP si è già unita all’ISIS e prende
ostaggi solo per seminare terrore?
.- C’è una storia che circolava tra i servizi di
intelligence del governo delle grandi potenze. Si dice che per vincere
la battaglia mediatica nella guerra contro il Vietnam, i servizi di
intelligence nordamericani creavano, questa è la parola, scenari di
vittorie clamorose, della crescente debolezza del nemico, della forza
morale e materiale delle proprie truppe. Perché risulta che la strategia
chiamata “vincere i cuori e le menti”, che inizialmente era destinata
ad essere usata in Vietnam, finì per essere combattuta per le strade
delle grandi città dell’Unione Americana. Dopo l’aprile del 1975 -che ha
ricordato la sconfitta nella Baia dei Porci, nella Cuba degna, nello
stesso mese, ma del 1961- un funzionario nordamericano ha detto: “il
problema è che fabbricavamo tante bugie per i media che finimmo per
crederle noi stessi.
Creammo una scenografia della vittoria che
nascondeva il nostro fallimento. Le nostre stesse discrepanze evitarono
che sentissimo il rumore del nostro collasso. Il problema non è mentire,
ma credere alle proprie bugie.” Infine, è chiaro che noi, zapatisti,
non sappiamo molto dei media, ma a nostro modesto parere, è un cattivo
affare mettere a capo della campagna mediatica di una palese
privatizzazione, un capo triste e grigio che vuole essere poliziotto.
.- Accompagnare i bambini nei primi passi verso la scienza e l’arte, questo è ciò che fanno maestri, maestre e maestrie.
L’Ecuador è impegnato nella protezione dei diritti umani… quando altri governi eludono le proprie responsabilità e si rifiutano di ospitare persone in fuga da persecuzioni politiche o guerra
Il 19 giugno il Ministro degli Affari Esteri e della Mobilità Umana, Guillaume Lungo, ha parlato con Julian Assange, nel quarto anniversario dell’asilo presso l’Ambasciata dell’Ecuador a Londra.
Il ministro degli Esteri ecuadoriano ha ricordato la situazione in cui Assange ha chiesto asilo “temendo per la sua vita, l’integrità fisica, la libertà. Sentiva che stava affrontando la persecuzione per il suo lavoro che ha rivelato crimini terribili, gravi violazioni dei diritti umani”.
Lungo ha ribadito che l’Ecuador è impegnato nella protezione e promozione dei diritti umani fondamentali. “In un tempo in cui altri governi eludono le proprie responsabilità e si rifiutano di ospitare persone in fuga da persecuzioni politiche o guerra, l’Ecuador adotta una politica estera di principi ed efficace”, ha detto. “Sono quattro anni da quel 19 giugno 2012. Oggi, come allora, difendiamo la nostra decisione di concedere l’asilo a Julian Assange, perché le condizioni che lo hanno costretto a fare quel passo non sono venute meno. Nonostante i molti sforzi dell’Ecuador come mediatore in buona fede per raggiungere una soluzione accettabile da tutte le parti, la Svezia e il Regno Unito hanno rifiutato di impegnarsi a non estradare Julian Assange in un paese terzo”, ha puntualizzato il capo della diplomazia ecuadoriana.
Recentemente, le Nazioni Unite hanno stabilito che Julian Assange è detenuto arbitrariamente. “Lui è confinato in un piccolo edificio, la sua salute si è deteriorata in modo significativo. La Svezia e il Regno Unito hanno richiesto più volte ad altri paesi di applicare decisioni e risoluzioni simili delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria. E tuttavia, in questo caso entrambi i paesi decidono di ignorare quelle risoluzioni”, ha detto Lungo.
“Il governo dell’Ecuador ritiene che una politica estera basata sui principi genera cambiamenti fondamentali. Julian Assange, Bradley Manning, Edward Snowden e molti altri hanno dato un contributo fondamentale. Ben più che denunciare e esporre all’opinione mondiale crimini terribili contro l’umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani, hanno aperto un importante dibattito globale: come gli squilibri di potere influenzano il modo in cui le informazioni sono generate, distribuite e controllate, e quale impatto ciò esercita sulla vita di tutti noi”.
Dopo quattro anni, l’Ecuador ribadisce il suo impegno a proteggere Julian Assange, mantenendo la sua concessione di asilo e, allo stesso tempo, dedica i propri sforzi per porre fine alla detenzione arbitraria a cui lui è soggetto. “Quattro anni sono troppo lunghi. E’ tempo di por fine a questa situazione”, ha concluso il ministro degli Esteri.
Direzione generale della Comunicazione MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E MOBILITÀ UMANA
Continua la nostra ricerca per offrire spunti di riflessione sul rapporto tra potere, religioni, islam e donne. Il nostro lavoro nasce dal desiderio di comprendere il presente fuori da schematismi, facili analisi/scorciatoie, luoghi comuni, approfondendo temi e situazioni che seppure appaiono lontano, ci riguardano direttamente.
Nel primo articolo abbiamo incentrato la nostra attenzione su testi che raccontavano storie di attivismo, di scelta, di chi combatte sul piano personale e collettivo contro gli integralismo e l'autoritarismo, facce gemelle che cercano di strangolare vite e territori. Questa volta vi proponiamo una selezione di libri che spaziano dalla Siria all'Egitto, alla Tunisia e alla riflessione sulle religioni monoteiste. Cosa lega questi testi? Per noi, la sempre più profonda convinzione che quello che sta succedendo in questo pezzo di mondo, difficile anche da definire in una sola parola, che va dal Marocco all’Iran, visto attraverso storie di donne e non solo, ci permette di squarciare il velo sulle declinazioni di un potere che intreccia autoritarismo ed islam politico. La perversa e pervasiva concezione che porta la religione da fatto privato a base della società nei suoi aspetti sociali ed anche istituzionali. Quello che ci spinge è la convinzione che la laicità profonda sia un valore fondamentale, che ha portato a molte delle conquiste, ancora da difendere ed allargare, che le donne hanno conquistato nel nostro pezzo di mondo. Come dicono le indigene zapatiste, dall’altro lato dell’Oceano nello stato del Chiapas in Messico, " quando una mujer avanza, no hay hombre que retroceda" (quando una donna avanza non c’è uomo che retroceda) o le donne curde, in Rojava "se non possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra." Lo strangolante nesso che unisce patriarcato, sistema capitalista, religioni (al plurale) vuol essere alla base della nostra ricerca, partendo da testi che non si presentano come analisi compiute ma come racconti, squarci, riflessioni che come in un enorme puzzle ci possono aiutare a comprendere e a rafforzare la scelta di appoggiare e sostenere chi lotta per la propria libertà collettiva e personale, chi ha il coraggio di affrontare una realtà durissima per provare a cambiarla.
Siria. Elogio dell’odio di Khalifa Khaled. L’autore, da poco passato in Italia per un ciclo di conferenze, ha sempre condannato senza sconti la repressione del regime nel suo paese. Attraverso la storia dei protagonisti del suo racconto affronta le profonde radici della recente storia siriana. Damasco di Suad Amiry. L’autrice, dopo i suoi imperdibili lavori sulla Palestina, affronta attraverso i ricordi familiari, l’intero secolo, passando tra gli infiniti legami dei paesi arabi per raccontarci squarci di Siria fatti di vite vissute.
Tunisia. Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza. Un racconto sul paese prima della rivoluzione del 2011 e che serve a capire cosa ancor oggi stanno combattendo le donne, i giovani attivisti, le reti sociali nella Tunisia profondamente in bilico tra una possibilità di cambiamento ed un mantenimento profondo dello status quo.
Egitto. Cairo calling di Claudia Galal Uno sguardo a mezzo tra Italia ed Egitto sulla scena underground prima, durante e dopo Piazza Tahir, che serve per capire qual’è la situazione nel paese dei faraoni, dove è stato ucciso Giulio Regeni.
Iran. Finché non saremo liberi. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin L’appassionato racconto della scrittrice, vincitrice del Premio Nobel, ci porta al cuore del regime iraniano, ora sdoganato nelle infinite capriole della politica internazionale e regionale del Medi oriente.
… e per fine Dio odia le donne di Giuliana Sgrena che offre spunti di riflessione sulle affinità e peculiarità dell’oppressione femminile ad opera delle tre religioni monoteiste.
Buona lettura.
Elogio dell’odio di Khalifa Khaled, edizione Bompiani, anno di pubblicazione 2011
La storia, che si dipana tra le mura della casa tradizionale nei vicoli del cuore di Aleppo, dove vive la famiglia allargata della protagonista, ci porta dalla Siria del passato, impossibile da far tornare, alla repressione del regime negli anni ottanta, fino alle sue drammatiche conseguenze. Un affresco, con tratti poetici, che, nella semplice complessità di ognuno dei personaggi, ci fa capire le radici della devastante situazione di guerra civile attuale.
Recensioni È un volume indispensabile ... tanto più pensando a quanto è accaduto e sta accadendo in questi mesi in Siria, con le repressioni del regime di Bashar Al Assad contro le manifestazioni di dissenso verso il regime di Damasco e migliaia di profughi siriani scappati in Turchia nelle ultime settimane. Il libro racconta altre proteste e altre repressioni nel sangue, quelle di Hafez Al Assad contro i dissidenti – musulmani ma anche comunisti – nella Siria degli anni ’80, quando il padre dell’attuale presidente aveva inviato i militari ad Hama, terza città siriana, e fatto uccidere migliaia di contestatori. Lo splendido e complesso romanzo di Khalifa, non ingiustamente definito nella quarta di copertina una sorta di Cent’anni di solitudine del mondo arabo, parte dalle vicissitudini di una famiglia di Aleppo per raccontare la storia di un intero Paese. La protagonista e voce narrante, una giovanissima ragazza ribelle alla cultura chiusa e tradizionalista della sua famiglia di venditori di tappeti antichi, incarna insieme i dubbi e le angosce di una giovane donna araba e lo spirito dei dissidenti del tempo, spesso donne, che per sfuggire alla morsa del regime si rifugiarono spesso in opposti estremismi come il fondamentalismo islamico. L’Aleppo di Khalifa è una città di spie e delatori, una città impensabilmente grigia di soldati e dissidenti, stretta nella morsa del regime e nell'odio delle opposte fazioni che si combattono quotidianamente in un crescendo di tensione. Al centro dei vicoli deserti di quella città sconosciuta, la vecchia casa di famiglia della protagonista, cresciuta con le vecchie zie e l’anziano servitore cieco, tra vecchie storie, armadi chiusi, boccette di profumi sconosciuti e farfalle appese ai muri, incapace di tutto fuorché di un odio crescente verso l’altro. Odio che sembra diventare una vera religione e l’unica cosa a poter dare senso alla vita. È l’odio ad accompagnare costantemente la giovane protagonista, portandola a rinchiudersi sempre più in se stessa, rifugiandosi nel fondamentalismo islamico quasi per sfuggire la solitudine, costringendosi dietro alla prigione del velo. E arrivando poi alla prigione vera, quella durissima del regime di Assad, dove viene rinchiusa per otto anni, interrogata, torturata con altre donne per le sue attività di dissidente. Ne uscirà giovane eppure ormai sfiorita, solo per rendersi conto, troppo tardi e ancora una volta, dell’inutilità dell’odio e della banalità del male. Tratto da www.ilrecensore.com
Khaled Khalifa Nato ad Aleppo nel 1964, ha frequentato la facoltà di legge e, dopo la laurea, si è dedicato alla letteratura, lavorando come sceneggiatore per il cinema e la televisione, per poi fondare la rivista culturale “Aleph”, in seguito censurata dal governo siriano. “Elogio dell’odio”, censurato dal governo siriano è nominato nel 2008 per il Premio internazionale del Romanzo Arabo. Khaled, a cui nel 2012 è stata spezzata la mano dal regime, oggi continua a vivere in Siria. Nel 2012 invia una lunga lettera agli scrittori del mondo per denunciare la situazione complice a livello internazionale. Nelle interviste non smette di ricordare la solitudine in cui sono state lasciate le persone che lottano veramente per un cambiamento radicale nel paese e i giochi geopolitici che si combattono sulla Siria. Recentemente è stato in Italia, come ci racconta Osservatorio Iraq. Dal tour vi proponiamo l’incontro svoltosi a Milano
Damasco di Suad Amiry, edizioni Feltrinelli, anno di pubblicazione 2016 Oh Dio, famiglie! Nessuno avrebbe potuto darmi più sicurezza della mia famiglia. E, se è per questo, neanche più insicurezza e fragilità.
Dietro i racconti della famiglia Baroudi, delle donne della famiglia, si riflettono temi potenti che riguardano le vicende mediorientali ma anche argomenti di forte attualità nelle nostre società, come la domanda se la madre di un figlio è chi lo partorisce o chi lo alleva. Ancora una volta. Come nei suoi precedenti lavori Suad Amiry ci sorprende per la profondità che si accompagna all’ironia, o meglio alla sottile auto-ironia, necessaria al mondo arabo ma ovunque per guardare ai propri limiti.
Recensioni Damasco suona magica e favolosa, e continua a suonare così mentre si riempie di violenza e di fantasmi. Nessuno meglio di Suad Amiry poteva raccontare il fulgore del passato per aprire una porta sul presente. Il racconto comincia nel 1926, nel palazzo di Jiddo e Teta – marmi colorati, soffitti a cassettoni, fontane che bisbigliano nell'ombra –, comincia quando, dopo trent'anni di matrimonio, Teta torna per la prima volta ad Arrabeh, il villaggio da cui era partita poco più che bambina per andare in sposa al ricco e nobile mercante damasceno Jiddo. Il viaggio di Teta – intrapreso nella speranza di poter dare l’ultimo saluto alla madre – imprime una svolta inattesa al suo matrimonio: il sensuale Jiddo la tradisce. Il perfetto equilibrio della casa sembra spezzarsi, ma poi la vita della famiglia riprende: la dolcezza delle consuetudini smussa le asperità, i rituali attenuano e riassorbono i contrasti, gli equilibri si riassestano. Suad Amiry conduce il lettore nei cortili e nelle stanze della famiglia Baroudi, con i fastosi pranzi del venerdì, le rivalità tra i figli maschi pigri e viziati, il vincolo indissolubile tra le figlie femmine. Passano gli anni, ed è ancora una volta l’arrivo di un bambino a sparigliare le carte, a far luce nelle pieghe più nascoste dell’intimità domestica: vengono così a galla segreti inimmaginabili, come quello che lega la tenera Karimeh alla sorella maggiore Laila, che con piglio inflessibile ha assunto il ruolo di capofamiglia. Ma chi è la vera madre di un bambino? La donna che lo ha partorito o quella che lo ha accudito un giorno dopo l’altro? E fino a che punto è lecito tacere per proteggere quello che si ama di più? Una saga appassionante e poetica sospesa tra realtà e finzione, una rievocazione innamorata e nostalgica di un mondo raffinatissimo spazzato via dal fanatismo e dalla crudeltà, ma soprattutto una riflessione sul senso della maternità e sul silenzio come estremo gesto d’amore. Una storia e un affresco che dall’Impero ottomano arrivano al presente ulcerato del Medio Oriente. I personaggi sono memorabili, la scrittura leggera, le emozioni grandi. Tratto da Feltrinelli Ascolta la recensione in Fahrenheit
Suad Amiry Architetta palestinese, nata nel 1951, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, ha studiato architettura tra Beirut, l’Università del Michigan ed Edimburgo. Dall’inizio degli anni ottanta vive e lavora a Ramallah. Ha scritto e curato numerosi volumi sui differenti aspetti dell’architettura palestinese. In Italia sono stati pubblicati i suoi romanzi Sharon e mia suocera (2003) , Se questa è vita (2005), Niente sesso in città (2007), Murad Murad (2009) e Golda ha dormito qui (2013).
Ouatann. Ombre sul mare di Filali Azza, edizioni Fazi Edizioni. anno di pubblicazione 2015. Ci sono tutti i prodromi della rivoluzione del 2011 e tutti i problemi della Tunisia di oggi nel romanzo della scrittrice tunisina. Nella villa sul mare nelle vicinanze di Biserta l’intreccio, a momenti noir, tra i vari personaggi parla di corruzione, di malavita, di traffici di migranti ma anche di un malessere che appartiene ad un mondo in bilico tra tradizioni, strangolanti ma rassicuranti, e il desiderio di cambiamento. I vari protagonisti vivono in bilico, come anche oggi vive l’intera Tunisia.
Recensioni
«Una delle penne più talentuose del Maghreb. Azza Filali, donna di lettere e di scienza, al tempo stesso impegnata e libera dal peso delle ideologie, si afferma come una delle voci più forti e sensibili della Tunisia odierna» - Le Monde
Non esiste, nella lingua italiana, un termine che possa rendere la parola ouatann, restituircene il carico di significato. Perché ouatann, per le popolazioni che abitano la terra tra il Mediterraneo e il Sahara, non è solo la patria, ma è un’intera tradizione condivisa, è una lingua, un sistema di valori, di abitudini e di gesti, un certo modo di intendere la vita.
Tunisia, 2008. Malavita e politica hanno suggellato il loro patto, il malaffare regna incontrastato. Un villaggio vicino a Biserta. La felicità danza, inafferrabile, al confine tra cielo e mare. In una villa isolata sulla spiaggia si incrociano i percorsi di cinque sconosciuti: Rached, giocatore incallito e funzionario frustrato; Naceur, ingegnere ex galeotto che da un giorno all'altro ha visto la propria vita crollare; Michkat, inquieta avvocatessa affezionata al passato; Faiza, giovane sfuggente e focosa; Mansour, uomo violento dedito a una serie di traffici illeciti. Tutti uniti dallo stesso desiderio: quello di un futuro che si fa attendere, in un paese in cui la miseria di alcuni, il lusso sfrontato di altri e la paralisi dei valori comunitari hanno privato le persone di una dimensione essenziale: il senso di appartenenza alla propria patria. Ma per chi ci vive, in questa patria, anzi in questa ouatann, l’unico destino possibile è partire? Che ne sarà allora della memoria collettiva di un popolo? http://www.ibs.it/code/9788876256134/filali-azza/ouatann-ombre-sul.html Leggi anche le recenzioni in www.artapartofculture.net e La Feltrinelli.
Azza Filali
Nata 1952. Nel 2009 ha conseguito un master in Filosofia all'Università Paris 1. E’ medico di professione ma scrittrice per vocazione. Autrice di due saggi, una raccolta di racconti e sei romanzi e vincitrice di diversi premi, tra cui il premio letterario Comar d’Or per la narrativa tunisina di lingua francese, Ouatann. Ombre sul mare è il suo primo romanzo tradotto in italiano. Vai alle interviste Il piccolo - Alla mia Tunisia hanno rubato i sogni La repubblica - Ecco l’orgoglio e il pregiudizio della Tunisia
Finché non saremo liberi. Iran. La mia lotta per i diritti umani di Ebadi Shirin edizioni Bompiani, anno di pubblicazione 2016
L’Iran è tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi mesi, dopo la scelta di riabilitazione internazionale. Una dinamica che si inserisce nei piani sempre più in continua ridefinizione delle alleanze dell’area a livello locale ed internazionale. Un Iran, fortemente motivato a continuare il braccio di ferro con Arabia Saudita e Turchia per il predominio nell’area, che si gioca a colpi di rivalità che vengono dipinte come religiose, tra sciti e sunniti e che giocano le loro mortali mosse attorno alla Siria, divenuto teatro di devastazione generale e all’Iraq. Il libro di Ebadi non racconta solo la storia di una donna che ha vinto il Premio Nobel ma l’accanimento perverso del regime contro gli oppositori. Ed immaginiamo se quello raccontato è il trattamento riservato ad un personaggio famoso, quale può essere quello inflitto ai tanti sconosciuti, nonostante un potere che si presenta come moderato, ma che continua a tenere in una stretta strangolante un intero paese, fatto soprattutto di giovani?
Recensioni «Mio marito resta a Teheran, era stato arrestato ma ora, per fortuna, non è più in carcere. In un primo periodo gli avevano confiscato il passaporto. Ora potrebbe anche venire a trovarmi, all’estero, ma ogni volta è obbligato a lasciare una cauzione consistente. È consapevole che la situazione in Iran non è idilliaca ma l’Iran è il suo paese e preferisce vivere lì. Non è il tipo da vivere in esilio». Così Shirin Ebadi, avvocato iraniana insignita del Nobel per la Pace nel 2003, parlava del marito Javad. Era uno dei primi giorni di gennaio 2014, mi trovano nel suo ufficio londinese, in un grattacielo nel quartiere Hammersmith. Un’intervista, in coda a tante altre, da pubblicare nel piccolo volume Il mio esilio uscito in digitale negli Zoom di Feltrinelli e poi in cartaceo per Jouvence.
Parlando del marito Javad, Shirin Ebadi cercava di celare la malinconia. Ma non solo, perché il suo nuovo libro di memorie Finché non saremo liberi, appena pubblicato da Bompiani, rivela una realtà diversa: finito in una trappola del regime iraniano, una sera a Teheran il marito aveva bevuto un bicchiere di troppo ed era stato sedotto da una conoscente, ci era finito a letto ed era stato filmato dai servizi segreti della Repubblica islamica. Subito arrestato, era stato condannato alla lapidazione per adulterio.
Per sfuggire alla pena capitale, aveva accettato di collaborare con il regime, rilasciando una testimonianza in video in cui accusava la moglie di essere complice di un Occidente deciso a rovesciare la Repubblica islamica. Un amore durato più di trent’anni si è così spezzato. Per il tradimento, più che per la confessione mandata in onda – insieme a tante altre – dalla televisione di stato. O forse perché, come dirà più tardi Javad, seduto su una panchina del parco di Boston dove finalmente può vedere il nipotino, «l’unica cosa che sei riuscita a fare è rendere infelice te e la tua famiglia». Dopotutto, le fa notare il marito, nonostante le attività delle organizzazioni non governative in Iran le violazioni dei diritti umani continuano. Le autorità iraniane hanno arrestato il marito, la sorella, i collaboratori di Shirin Ebadi. Il prezzo della lotta per i diritti umani Shirin Ebadi l’ha pagato e continua a pagarlo: le due figlie Nargues e Negar vivono all’estero, al sicuro, come lei. Ma Shirin resta sola, perché nel tentativo di sfuggire alle continue persecuzioni di regime il marito Javad ha chiesto il divorzio. Non più giovani, vivono lontani. E conclude Shirin, non c’è nulla «di più malinconico che preparare una teiera da uno, con un solo cucchiaino di foglie di tè».
Nasce nel 1947. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, è costretta ad abbandonare il lavoro di giudice, come tutte le altre donne. Riesce a mala pena a poter continuare a frequentare i Tribunali come “esperta”. Tra mille difficoltà e intimidazioni di ogni tipo, per lei e per chi le sta vicino, famiglia e collaboratori, apre un proprio studio, con cui si occupa di casi scomodi, come quelli dei dissidenti. Nel 2003 le viene assegnato il Premio Nobel per la pace. Nel 2009 è costretta a restare a Londra, dove si trovava per una conferenza, perché contro di lei vengono inventate accuse di ogni genere ed in Iran la situazione si fa quanto mai pericolosa. Dall'Europa continua a denunciare la sistematica violazione dei diritti civili ed umani, continuando ad avere speranza di un cambiamento reale nel paese.
Cairo Calling di Claudia Galal, edizioni AgenziaX, anno di pubblicazione 2016
Dalla sparizione e l’omicidio di Giulio Regeni, la realtà quotidiana di violazione dei diritti umani nel paese guidato da Al Sisi, ha iniziato ad essere compresa da molti. Si tratta di una cappa che cerca di soffocare l’intera società egiziana. Una situazione che viene nascosta da un’omertà internazionale complice, dettata dagli interessi che si muovono intorno al possibile ruolo nell'area dell’Egitto. Il governo italiano non è da meno, impegnato a difendere i possibili guadagni del più grande giacimento di gas, scoperto dall’Eni a Zohr. L’Egitto vero, che oltre le disinllusioni seguite alla rivoluzione di Piazza Tahir, è anche quello che emerge dalle vite delle donne ed uomini intervistati da Claudia Galal. Tra musica, street art, graffiti, scopriamo l’underground del paese dei faraoni. Esperienze pulsanti che cercano la strada per esprimersi anche in una situazione quanto mai asfissiante. I viaggi di Claudia Galal, il suo sguardo tra Italia e Egitto riflettono le speranze, le contraddizioni, la ricerca generazionale che attraversa un’intera generazione tra le due sponde del Mediterraneo.
Murales egiziano
Nel gennaio 2011 Piazza Tahrir diventava l’ombelico del mondo, il cuore della Primavera Araba e della rivoluzione egiziana. Purtroppo non mi trovavo lì, dove i giovani del Cairo stavano facendo la storia, ma anche a distanza mi rendevo conto della portata epocale di quello che stava succedendo. Ho iniziato a prendere appunti, a registrare dati, nomi, elementi, a prestare attenzione a volti, immagini, simboli. Non sapevo ancora che cosa ci avrei fatto, ma non volevo perdermi più di quello che mi stavo già perdendo, non essendo là. Poi sappiamo tutti com’è andata – come sta andando – e negli anni quella massa di annotazioni è diventata un libro, Cairo calling, in uscita il 26 maggio 2016 per Agenzia X. Seguendo le mie passioni, mi sono concentrata soprattutto sull’esplosione e l’evoluzione delle controculture (rock, musica elettronica, rap, street art), che in questi ultimi cinque anni e mezzo sono state inevitabilmente legate alla situazione socio-politica. Quelle che seguono sono le prime righe di Cairo calling, che comincia dal 25 gennaio 2011 e si chiude con la drammatica uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni, in un necessario e doloroso finale aperto. «Primi giorni del 2011. Al sicuro, protetta nel guscio della mia metà italiana, seguo con trasporto e preoccupazione quello che succede in Egitto, dov’è nato e cresciuto mio padre e dove affonda una parte delle mie radici. È il 25 gennaio… All’ora di cena rientro a casa con addosso un’ansia pesante. Durante il giorno ho seguito le notizie dall’Egitto dal computer dell’ufficio, ma fra le mille cose da fare non sono sicura di aver capito qualcosa. Mentre salgo le scale del mio condominio in zona Giambellino, dove gli unici non egiziani sono il mio fidanzato e la famiglia cinese del piano di sotto, si confondono e si sovrappongono voci di telegiornali in arabo e discussioni concitate. A tratti mi sembra tifo da stadio, come se i miei vicini volessero spingere qualcuno verso un’impresa impossibile. Intanto ricevo qualche messaggio sul mio cellulare obsoleto: “Che casino al Cairo”, “I tuoi stanno bene?”, “Che cazzo state combinando?!”. Ma io non sono lì, purtroppo, e non ho ancora avuto tempo di mettere insieme i pezzi di questa giornata storica. Entro in casa e, come in quella vecchia canzone, “questa stanza non ha più pareti”, perché distinguo perfettamente i discorsi animati dei ragazzi di fianco, giovani immigrati che tutte le notti si ammazzano di fatica al mercato ortofrutticolo. Non capisco ogni frase, ma la parola chiave arriva forte e chiara. Rivoluzione! Senza togliermi nemmeno il cappotto, accendo tv e computer, così seguo contemporaneamente la diretta del telegiornale e il flusso di notizie che emerge dalla rete, dai social network in particolare. Chiamo anche mio padre, abbastanza sconvolto e confuso quanto me, e mi assicura che la nostra famiglia sta bene. […] La rivolta era nell’aria. Nelle ultime settimane continuavano ad arrivare le immagini piene di rabbia, dolore e frustrazione delle rivolte tunisine, mentre qualche voce di protesta, ancora debole e isolata, si sollevava anche in Egitto. Fino a oggi, 25 gennaio 2011, quando moltissime persone rispondono all’appello della pagina Facebook “We are all Khaled Said”, dedicata al giovane ucciso qualche mese prima dalla polizia di Alessandria in circostanze poco chiare, con l’intenzione di sabotare il National Police Day. Un’ondata di manifestanti si riversa per le strade del Cairo e di Giza, raccogliendosi nella centralissima piazza Tahrir, mentre altre proteste esplodono nelle città del paese, da Suez a Ismailiya, da Alessandria a Mansoura, da Tanta ad Aswan. [...]»
Oggi siamo tutti indignati e arrabbiati, giustamente, con l’Egitto. Ma non bisogna commettere l’errore di identificare un popolo con il regime che lo affligge. Le voci del dissenso sono tante e si esprimono in tanti modi diversi, certo non da oggi, ma da anni. Ho cercato di raccoglierle, molte di queste voci, perché mi chiamavano forte e non potevo far finta di non sentirle. Il risultato è Cairo calling. L’underground in Egitto prima e dopo la rivoluzione (Agenzia X Edizioni). Tratto da Agenzia X
Claudia Galal Italoegiziana, nasce a Urbino e studia a Bologna. Oggi vive a Milano, dove lavora nel campo dell’editoria e della comunicazione. Si interessa soprattutto di musica e street art. Ha pubblicato il volume Street Art e ha partecipato alla realizzazione della guida Re/search Milano. Vai al Facebook di Claudia Galal
Dio odia le donne di Giuliana Sgrena, edizioni Il saggiatore, anno di distribuzione 2016 Giuliana Sgrena ha scritto un libro coraggioso, in un’epoca in cui la fascinazione verso alcuni leader religiosi riesce a velare i pesanti attacchi portati quotidianamente ai diritti delle donne. Dio odia le donne rafforza una certezza: quanto sia umano, e solo umano, questo odio. Raffaele Carcano e Adele Orioli
Se in Rivoluzioni velate si analizza come le donne, protagoniste indiscusse della Primavera araba stanno rischiando di diventare le prime vittime della controffensiva islamista, dopo che i partiti di stampo religioso sono stati "legalizzati", il nuovo lavoro di Giuliana Sgrena apre la riflessione a 360 gradi sul legame tra le religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo, e l’oppressione femminile. Il testo con l’analisi comparata di comportamenti, divieti e punizioni sulle donne ci permette di fare un’operazione di pulizia mentale e ci mette di fronte alla necessità imprescindibile di opporci all’invasiva stretta delle religioni nel nostro qui come ovunque.
Recensioni Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico. Tratta da Il Manifesto
Giuliana Sgrena Nata nel 1948 è una giornalista e scrittrice. Nella sua carriera di cronista, Sgrena ha avuto modo di realizzare numerosi resoconti da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia ed Afghanistan. Si è occupata particolarmente della condizione della donna nell’Islam, E’ stata rapita nel 2005 in Iraq e dopo la sua liberazione, uno dei funzionari del SISMI a bordo dell’auto che la riportava nella capitale irachena, Nicola Calipari, rimane ucciso ad un posto di blocco. I suoi libri sono: Kahina contro i califfi. Islamismo e democrazia in Algeria del 1997, Alla scuola dei taleban del 2002, Il fronte Iraq. Diario di una guerra permanente del 2004, Fuoco amico del 2005, Il prezzo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne del 2008, Il ritorno. Dentro il nuovo Iraq, del 2010, Rivoluzioni violate. Primavera laica, voto islamista, Milano, del 2014.
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.