di Luis Hernández Navarro
All’avamposto del dispiegamento militare c’è un distaccamento motorizzato di donne zapatiste che, arrivando nella piazza centrale, si schiera ai quattro lati per delimitare il perimetro delle operazioni. Segue un gruppo di miliziane che circondano il quadrato, come fossero le sue guardiane. La testa del gigantesco ofide selvaggio è formata da comandanti a cavallo, tra loro il comandante Tacho ed il subcomandante Moisés. Li segue una colonna di oltre 4 mila combattenti in fila per due, in uniforme con pantaloni e berretto verde, camicia color caffè, passamontagna neri e paliacate rossi, ognuno di loro ha due bastoni di legno lunghi circa 75 centimetri che, battendo uno contro l’altro, segnano il passo della truppa in formazione. Non riescono ad entrare tutti quanti.
Questa stessa divisione – si spiega in un video di Enlace Zapatista (https://bit.ly/2LR6A9y ) – è quella che 25 anni fa prese le città di Altamirano, Oxchuc, Huixtán, Chanal, Ocosingo, Las Margaritas e San Cristóbal. È rafforzata con combattenti della seconda e terza generazione, zapatisti che erano neonati nel 1994 o non erano nati, e che sono cresciuti nella resistenza e ribellione.
La celebrazione del 25° anniversario dell’insurrezione armata dell’EZLN non è la messa in scena di un movimento sociale. È la dimostrazione di potenza di una forza politico-militare dotata di ordine, disciplina, coesione, destrezza, capacità logistica, base sociale, comando e controllo del territorio.
Se nelle loro apparizioni pubbliche degli ultimi anni gli zapatisti hanno privilegiato di mostrare la loro faccia civile e popolare, attraverso seminari e incontri, festival di arte, escuelitas e mostre cinematografiche, questo 31 dicembre hanno messo sul tavolo la loro faccia militare. Che non implica prendere un arma, ma resistere. Il messaggio simbolico del loro dispiegamento non poteva essere più esplicito.
La celebrazione si conclude con un’energica arringa del subcomandante Moisés rivolta alle strutture militari zapatiste, alle sue autorità civili e le sue basi di appoggio. Dice loro: siamo soli, come se non ci avessero visto, non ci avessero sentito. Ci vogliono mentire, ci vogliono ingannare. È uno scherzo, un’umiliazione. Sono contro di noi, l’EZLN. Non abbiamo paura del governo. Qui il malgoverno non comanda, comandano le donne e gli uomini.
Come si sa (anche se spesso si vuole dimenticare e si preferisce parlare del subcomandante Galeano), Moisés è il portavoce dell’EZLN. Indigeno tzeltal, bracciante agricolo nelle infernali fincas del Chiapas, compagno del subcomandante Pedro col grado di maggiore nella presa di Las Margaritas e del subcomandante Marcos, oggi è lui a parlare a nome dello zapatismo e dei suoi popoli. Non è una figura decorativa. È il portavoce dell’insurgencia. Le sue parole sono la sintesi di una vita di sofferenza e lotta, e degli aneliti emancipatori dei popoli originari.
Spiegamento militare e parole si devono valutare insieme. Benché ci sia un’intricata storia di scontri tra l’obradorismo e lo zapatismo, la durezza delle denunce dei ribelli e la loro mobilitazione di fine di anno sembra rispondere a due fatti principali. La minaccia di un’offensiva contro di loro da parte del nuovo governo e differenze programmatiche di fondo.
Non è paranoia. Alcuni portavoce della Quarta Trasformazione (4T) hanno proclamato informalmente ai quattro venti che l’EZLN è stato sconfitto, mentre promotori della nuova Guardia Nazionale minacciano di intraprendere azioni di contenimento contro i ribelli.
Lo zapatismo (e una moltitudine di comunità indigene e gruppi per i diritti umani) presenta differenze sostanziali dall’obradorismo. Oppresso dalla militarizzazione del Chiapas per più di un quarto di secolo, l’EZLN rifiuta la Guardia Nazionale e la considera un passo avanti nella militarizzazione del paese. Con una lunga lista di militanti assassinati, si oppone al punto finale che lascia impuniti i crimini del passato. Minacciato da chi vuole spogliarlo dei suoi territori, vede nel Tren Maya e nei progetti di rimboschimento l’avanguardia per distruggerli. Impegnato nella ricostituzione dei popoli originari, trova che le cerimonie new age del nuovo governo siano un inganno. Deciso a rendere reale un altro mondo, nella pretesa della 4T di governare contemporaneamente per sfruttati e sfruttatori, vede non solo l’eco delle parole del repressore Absalón Castellanos Domínguez, ma una pazzia. Ostinato a lottare contro il capitalismo, crede che il governo di Andrés Manuel López Obrador sia la sua continuità.
Non bisogna farsi confondere. L’apparizione di Bertolucci nella Lacandona anticipa che, contrariamente a quanto creda qualcuno, niente di definitivo è scritto nel sudest.
Traduzione Maribel - Bg
Testo originale: https://www.jornada.com.mx/2019/01/08/opinion/017a1pol