Più di 2.000 indigeni di etnia tsotsiles del comune di Aldama, si svegliano nel timore di cadere in una nuova imboscata.
Portano segnate su un taccuino le 98 volte in cui gli hanno sparato, negli ultimi tre mesi, da una montagna confinante alle loro terre.
Di fronte all'indifferenza delle autorità, il 14 luglio le organizzazioni umanitarie hanno portato fagioli e mais, perché la carestia già si vede sui loro corpi
Testo e foto: Ángeles Mariscal
A Manuela Sántiz Hernández, la magrezza è causata dal cibo
insufficiente. Lo si nota negli zigomi del viso e nel corpo, che sembra quello
di un adolescente che sta appena iniziando a svilupparsi. Ha 24 anni e ha la
responsabilità di sfamare otto minori. Tre sono suoi e cinque di sua suocera,
che è morta e ha lasciato orfani cinque bambini piccoli.
Vivevano
tutti nella comunità Yetón, una degli 11 villaggi dove si trovano i 60 ettari
di terra che i loro aggressori del Municipio di Chenalhó, provano a prendersi usando
la forza.
La disputa
su queste terre, spiegano i locali, è iniziata sette anni fa, ma recentemente il
livello di aggressione è aumentato, portando allo sgombero forzato di 115
famiglie, per un totale di 2.036 persone.
"Una notte sono entrati in casa, ci
hanno messo la pistola in testa, ci hanno detto che dovevamo partire, e siamo
partiti ... non abbiamo niente, tutto era lì, tutto, i nostri effetti
personali, i nostri raccolti, la nostra casa. Dobbiamo ricominciare da capo", dice Manuela.
Lunedì
mattina, 14 luglio, i rappresentanti di ciascuna delle 115 famiglie sfollate
sono arrivati nella sede municipale di Aldama. Lì ogni famiglia riceveva un
sacco di mais, un po’ di fagioli e sale.
Questi aiuti furono comprati con le donazioni di persone solidali e sono state raccolte dal Fideicomiso
para la Salud de los Niños Indígenas de México (Fisanim), un organismo promosso
dall'attrice Ofelia Medina. Questa fornitura di cibo potrebbe durare tra 15 e
20 giorni.
Gli indigeni
hanno apprezzato la solidarietà, ma hanno ribadito: “Continueremo a lottare perché i 60 ettari sono le nostre terre.
Vogliamo che vengano restituiti a noi, perché è lì che otteniamo il nostro
cibo, il nostro sostentamento quotidiano", ha spiegato Rosa Sántiz
Sántiz.
Con l’aiuto
di un'altra traduttrice, poiché Rosa parla principalmente tsotsil, ha chiesto
al governo di "dare una soluzione a
questo conflitto, perché ora siamo stanchi".
Sono letteralmente
stanchi. Rosa Sántiz Sántiz si alza alle tre del mattino per cucinare fagioli e
mais, prepara le tortillas che suo marito e quattro figli mangeranno durante il
giorno. Prima che sorga il sole, l'intera famiglia inizia a percorrere il
sentiero che li porta dalla comunità di San Pedro Cotzilnam al villaggio di
Santiago El Pinar.
A Santiago
El Pinar, per 80 pesos al giorno (n.d.t. più o meno 4 euro), lavorano dalle sette del mattino alle quattro
del pomeriggio, nella raccolta del caffè.
Rosa ha la
capacità organizzativa e di leadership che la rende uno dei rappresentanti della
commissione degli sfollati e di coordinare la distribuzione degli alimenti. Ad
Aldama, gli sfollati si sono organizzati per resistere alle aggressioni dei
loro vicini di Chenalhó.
L'apparente
disputa riguarda oltre 60 ettari di terreno confinante con entrambi i comuni;
ma i civili armati di Chenalhó hanno anche cacciato gli abitanti di
Chalchihuitán e i contadini all'interno dello stesso Chenalhó. Tutto condito da aggressioni
armate. Come si può vedere dai colpi sui muri delle case usano armi di
grosso calibro e fucili d'assalto.
"Non cadere nella provocazione"
Il 23
gennaio 2019, dopo le denunce delle aggressioni di civili armati, il governo
federale è stato costretto a installare un distaccamento di polizia federale,
statale e dell’esercito messicana nelle comunità colpite di Aldama.
Le
aggressioni non si sono fermate nonostante questa misura. I civili armati hanno
continuato a sparare e, ad oggi, tra gli sfollati si contano 15 feriti da armi
da fuoco e 7 loro compagni uccisi, tra cui Ignacio Pérez Girón, incaricato comunale
di Aldama.
Pochi mesi
dopo l'installazione, il distaccamento di polizia e militari si ritirarono; presero
gli impegno di fare pattugliamenti, ma con l'inizio della pandemia, questi sono
diventate sporadiche e gli attacchi si sono intensificati.
Nel gruppo
di sfollati, Martin Sántiz Sántiz è incaricato di fare il report ogni volta che
vengono sparati dalle montagne di Chenalhó. Lo scrive su un taccuino, lo estrae
e conta i 98 attacchi recenti.
L'ultimo poche ore prima che arrivassero alla
sede comunale per ricevere il cibo della donazione.
Spiega che porta
quel registro per presentare il rapporto da presentare alla Procura del
Chiapas. Quando glielo consegna: "Chiedo
a loro sempre come vanno le indagini e rispondono sempre che le indagini devono
ancora essere completate".
Negli ultimi
quattro mesi, dice, i pattugliamenti di polizia e militari vengono effettuati
solo una volta alla settimana. “Fanno un
giro per la strada, guardano da dove vengono i colpi e se ne vanno. Quello che
ci dicono è: stai zitto, non cadere nella provocazione ".
Il governo
del Chiapas, spiega Manuel Melesio Sántiz López, un altro degli sfollati, si è
offerto di dividere la terra e di trasferire le famiglie colpite in una terra situata nel comune di Ixtapa, un posto di terra sterile, dove l'uso prolungato
di prodotti agrochimici ha determinato la fine della fertilità della terra.
Tuttavia, le stesse autorità hanno sospeso il processo per una possibile
ricollocazione.
Al
contrario, all'inizio di marzo, la Procura ha arrestato Cristóbal Sántiz
Jiménez, uno dei portavoce degli sfollati. Ad oggi, Cristóbal è imprigionato
nella prigione di El Amate. Con l’arresto, oltre la richiesta di restituzione
delle loro terre e la fine delle aggressioni, viene ora aggiunta la richiesta
di liberazione del leader della comunità.
"Questa pandemia sta
complicando tutto, perché c'è carenza di cibo, c'è una crisi molto forte economicamente
e lavorativamente, perché nella cittadina di Aldama lavoriamo i campi, viviamo
del campo e siamo dei campi”, afferma Silvia, una giovane donna della zona, che ha
dovuto abbandonare gli studi per prendere la guida per sistemare i problemi e
servire come collegamento verso l'esterno.
Le denunce
sulla situazione in Aldama sono state inoltrate alla Comisión Nacional de
Derechos Humanos (CNDH), alla Comisión Interamericana (CIDH), a la
Subsecretaría de Derechos Humanos de la Secretaría de Gobernación.
Nessuna
dichiarazione e intervento di queste istanze è servita per fermare la violenza.
Ai mesi della pandemia si aggiunge la carestia, poiché i contadini sfollati
hanno avuto difficoltà a trovare lavoro.
Oltre alle
agenzie umanitarie, anche esperti considerano con preoccupazione la
situazione degli sfollati nell'area. L'antropologo Araceli Burquete,
conoscitore della regione e membro del Centro de Investigaciones y Estudios
Superiores en Antropología Social (CIESAS), spiega: "il percorso per la pacificazione in Aldama è molto chiaro.
Innanzitutto, bisogna occuparsi della popolazione sfollata e dell'emergenza
umanitaria ".
Inoltre, “adottare misure efficaci per fermare la
violenza e dare garanzie alla popolazione; il disarmo degli aggressori;
investigare, sanzionare e smantellare i gruppi armati. Queste sono le misure
minime che possono contribuire a ripristinare la pace e la convivenza tra due
popoli di tradizione ancestrale in quel territorio”.
Ma, in
maniera urgente, "evitare più morti
nella popolazione indifesa".
Feriscono la
bambina sfollata
Nel mezzo di
una situazione di carestia in cui vivono 2036 indigeni di Aldama, la piccola
Maria Luciana Luna Pérez, 13 anni, è stata colpita due volte da colpi di arma da
fuoco, mentre stava ricamando nel cortile di casa nel villaggio di Cocó, una
delle 11 località che vivono sotto l'assedio di gruppi di civili armati.
Secondo il
rapporto dell'ospedale di Aldama, María Luciana ha ricevuto due ferite da
proiettile, una all'occhio e l'altra al petto. Gli spari sono arrivati dal
villaggio di "Nech'en" Santa Martha Chenalhó e erano diretti verso la
comunità di Cocó Aldama.
Proprio martedì
scorso, gli indigeni sfollati di Aldama hanno denunciato che fino a quel giorno,
negli ultimi tre mesi avevano contato 98 attacchi armati da persone che sparavano
dalle montagne vicine nelle loro città.
Traduzione e adattamento Cooperazione Rebelde Napoli
Articolo originale su Piedepagina.mx