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giovedì 15 marzo 2018

Brasile - L'ora della sicurezza in città

A Río de Janeiro non è in corso alcuna campagna elettorale, non c’è neanche un Salvini carioca, eppure il tema della sicurezza domina incontrastato la scena. Lo scorso anno si sono contati quasi settemila morti ammazzati. Il Brasile cammina da tempo sulle orme insanguinate del Messico ma le strade di gran parte delle città dell’America Latina sono ormai lastricate da una violenza inaudita. La nuova risposta del governo brasiliano è semplice: consegnare alle forze armate l’intera gestione della sicurezza della città, la seconda del paese dopo São Paulo, dall’ordine pubblico ai pompieri. La militarizzazione di Río non servirà a fermare la violenza, così come non è certo servita a debellare la narcoguerra messicana: 200mila morti, 30 mila desaparecidos. Servirà invece, eccome, a mantenere le enormi disuguaglianze sociali e a raggiungere gli obiettivi inconfessabili delle classi dominanti e dei loro governi: il controllo e lo sterminio della popolazione delle favelas potenzialmente ribelle o comunque non integrabile. Il Brasile è un avamposto d’eccellenza della guerra mondiale contro i poveri

Tutte le foto in pagina sono tratte da El Libertario

di Raúl Zibechi

Il 16 febbraio il governo di Michel Temer ha consegnato la sicurezza di Río de Janeiro alle forze armate. Tutto sarà gestito dai militari, dai corpi di polizia fino ai pompieri e alle carceri. Il pretesto, come sempre, sono la violenza e il narcotraffico; che pure esistono e sono enormemente pericolosi per la popolazione.

Río de Janeiro è una delle città più violente del mondo. Nel 2017 sono stati contati 6.731 morti e 16 scontri a fuoco ogni giorno, ognuno con un saldo minimo di due persone uccise, quasi sempre neri. Tra le cinquanta città più violente del mondo, 19 sono brasiliane e 43 latinoamericane. Di pari passo, il Brasile è tra i dieci paesi con maggiori disuguaglianze nel mondo, alcuni di essi sono anche tra i più violenti, come Haiti, Colombia, Honduras, Panama e Messico (fonte Banca Mondiale, ndt).

Nel caso di Río de Janeiro, l’azione dei militari ha una caratteristica speciale: si focalizza nelle favelas, è diretta, dunque, contro la popolazione povera, nera e giovane. Nelle 750 favelas cittadine, vive un milione e mezzo dei sei milioni di abitanti di Río. I militari si posizionano alle uscite e fotografano ogni persona, gli chiedono i documenti e ne verificano l’identità. Non s’era mai fatto un controllo del genere in maniera tanto massiccia e specifica.


Non è la prima volta che i militari si fanno carico dell’ordine pubblico in Brasile. L’anno scorso a Río i militari sono intervenuti 11 volte, nel contesto delle missioni Garanzia della Legge e dell’Ordine (GLO), una legislazione che è stata applicata nei grandi eventi, come le visite del Papa e il Mondiale di Calcio. Dal 2008, in 14 occasioni hanno assunto funzioni di polizia. Adesso, però, si tratta di un’occupazione militare che comprende tutto lo Stato.
Molti analisti hanno sostenuto con vigore che l’intervento è destinato al fallimento, visto che i precedenti, sebbene realizzati in tempo, non sono serviti a molto. Un altro esempio sarebbe l’insuccesso delle Unità di Polizia della Pacificazione (UPP), che a suo tempo erano state vantate come la grande soluzione del problema dell’insicurezza, giacché si installavano nelle stesse favelas, come una specie di polizia del vicinato.
Gli analisti ricordano, intanto, che la guerra contro le droghe in Messico è uno strepitoso fallimento, che per ora si è chiuso con un saldo di oltre 200 mila morti e 30 mila desaparecidos, mentre il narcotraffico, ben lontano dall’esser stato sconfitto, è ancora più forte.



È necessario segnalare, tuttavia, che queste letture sono parziali, perché in realtà questi interventi conseguono un grande successo per raggiungere gli obiettivi non confessabili delle classi dominanti e dei loro governi: il controllo e lo sterminio della popolazione potenzialmente ribelle o comunque non integrabile. È questa la ragione che muove a militarizzare interi paesi in America Latina, senza toccare la disuguaglianza, che è la causa di fondo della violenza.

Quattro ragioni avallano l’impressione che siamo di fronte a interventi di straordinario successo, in Brasile, ma anche in Centroamerica, Messico e Colombia, solo per citare i casi più evidenti.

venerdì 2 marzo 2018

#8 Marzo - Maschi e contro il patriarcato?

Nel mondo di oggi dominano le semplificazioni e forse si corre più che in passato il rischio di pensare che sia sufficiente usare parole adeguate, assumere posizioni e atteggiamenti “politicamente corretti”, per non essere dalla parte di chi opprime. Non è affatto così, in modo particolare per quel che riguarda gli uomini e l’eredità del patriarcato. Se non possiamo sentire la sofferenza della violenza e del disprezzo sulla nostra pelle, di quale cambiamento possiamo parlare nell’oppressione maschile? E allora? Dobbiamo rassegnarci e accettare con l’opportunismo del caso, oppure con amara e comoda serenità, il destino che ci ha fatto nascere dalla parte di un privilegio per il quale proviamo vergogna? Naturalmente no, sebbene non ci siano linee da seguire né percorsi liberatori segnati. Possiamo cominciare, tuttavia, dalla consapevolezza di dover attraversare una crisi molto profonda

Foto: En Pareja.com

di Raúl Zibechi

Possono esistere maschi anti-patriarcali? Due anni fa, nella casa di Mujeres Creando, a La Paz, ho formulato questa domanda a Maria Galindo. Lo sghignazzo fragoroso deve aver risuonato fino a El Alto, arrampicato sulle pendici della hoyada (una depressione del terreno circostante, ndt), per poi vagabondare nell’altopiano. È rimasta a ridere per un bel po’, Maria. Quando ha recuperato la serenità, ha detto una cosa che m’è sembrata di senso comune, provenendo dall’anima e dal corpo di una donna femminista lesbica in un mondo di maschi: solo se si attraversa una crisi profonda.

Adesso, che si avvicina la giornata di lotta dell’8 marzo e si moltiplicano le assemblee di donne per preparare lo sciopero e le mobilitazioni, sento la necessità di tornare su alcuni interrogativi. Possono esistere uomini non patriarcali? C’è poi una domanda ancora più complessa: noi maschi possiamo essere femministi? Credo siano due orientamenti diversi. La prima domanda possiamo discuterla. La seconda dovremmo scartarla, almeno nell’accezione in cui viene posta.

Noi maschi possiamo simpatizzare con il femminismo, ma assumere il fatto che potremmo essere tali è un altro paio di maniche. Possono essere comunisti un padrone o un banchiere? Sì, potrebbero, sempre che si disfino dei loro beni materiali e si guadagnino la vita lavorando. È chiaro che stiamo parlando di cose materiali, che vanno e vengono, dunque. Il caso del patriarcato è molto differente perché le relazioni di oppressione di quel tipo non si risolvono in una maniera tanto “semplice”, diciamo, come disfarsi di fabbriche, case e campi.

Vorrei precisare le domande. Cosa ne facciamo del privilegio maschile? Come potrei disfarmi dei privilegi dell’essere maschio di fronte alle donne? Si tratta di privilegi simili a quelli che abbiamo noi maschi bianchi (o donne bianche) nelle comunità indigene o nei quilombos/palenques neri. Quell’asimmetria non scompare mai, salvo che uno si integri vivendo un tempo molto lungo nella comunità, come uno dei tanti, in ogni aspetto della vita. E comunque, anche in quel caso, semmai uno dovesse un giorno uscire dalla comunità, potrebbe reintegrarsi senza troppi problemi nel mondo da cui proviene.

Essendo maschi bianchi eterosessuali, poi, i privilegi si moltiplicano. E allora? 

Ritorno alla frase rumorosa di Maria Galindo. Senza crisi non ci sono cambiamenti. Almeno alcuni di quei cambiamenti che possano avvicinarci a una sensibilità capace di connetterci con il dolore delle donne, con la permanente e brutale (o sottile) umiliazione di ogni giorno, di ogni minuto. Se non possiamo sentire la sofferenza delle violentate, delle disprezzate, delle molestate sulla nostra pelle, fosse anche appena un po’, di quale cambiamento possiamo parlare? Perché nel mondo di oggi, sembrerebbe che sia sufficiente usare le parole adeguate, i termini politicamente corretti, per non essere più parte del mondo degli oppressori.

Per questo è necessaria la crisi. Perché de-costruire il ruolo del maschio oppressore non è una questione teorico-accademica; perché non basta andare alle manifestazioni dell’8 marzo; perché non è sufficiente assumersi una parte dei compiti domestici. 

A questo punto, voglio precisare che non ho la minima idea di come potremmo uscire dal ruolo di oppressori. Non c’è una linea e nemmeno c’è un cammino da seguire ma ci sono da creare modi di vivere e di sentire. Senza imbrogliarci. Creare è sempre qualcosa di incerto, perché non possiamo mai anticipare i risultati. Per questo la crisi. Perché si tratta di uscire da un ruolo, cosa già di per sé difficile, senza sapere dove collocarsi, in quale ruolo mettersi, come muoversi. Nei cortei delle donne siamo abituati a posizionarci in coda, oppure di fianco sul marciapiede. È un primo movimento. E poi? 

Sulla base della mia esperienza nel mondo indigeno e nero, posso solo dire che si tratta di camminare in punta di piedi, senza far rumore, sempre ai lati, mai al centro. Lavorare sull’ego in ogni secondo, in ogni movimento, con tutti i pori e tutti i desideri.

Ogni volta che ho domandato a qualche compagna “cosa dobbiamo fare”, è comparso un gesto di incertezza. Neppure loro sanno che posto possiamo occupare noi maschi che non vogliamo essere patriarcali, né nella vita quotidiana né negli spazi collettivi comuni. 

Dovrebbe essere un farsi più piccoli per uscire dal ruolo ereditato, qualcosa come camminare con gli occhi bendati, sapendo che ci saranno scivoloni, cadute, ferite… e che, probabilmente, prima o poi apparirà una mano che ci sostiene. Che altro possiamo chiedere, noi che opprimiamo, alla vita?

Questo articolo è uscito in spagnolo su Desinformemonos.
Traduzione per Comune: Marco Calabria.

martedì 27 febbraio 2018

Bolivia - Cochabamba. L’acqua è la comunità

Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono eterne. A Cochabamba, quasi vent’anni dopo la rivolta che ha insegnato a difendere la proprietà collettiva dell’acqua al mondo intero, l’accesso alla fonte primaria della vita è tornato a essere non un diritto ma un privilegio per pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Ci sono i planes maestros ma, racconta Oscar Olivera, sono stati progettati da tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la Bechtel nel Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta per conto dello Stato boliviano. La sola via resta auto-organizzarsi. Non si tratta di un’opzione necessariamente “minoritaria”: in undici paesi dell’América Latina sono stati censiti oltre 50 mila sistemi comunitari, molto diversi tra loro, che provvedono all’accesso per oltre 30 milioni di persone. L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci del passato che parlano al futuro, è la prima materia di cui abbiamo bisogno, per fortuna la più abbondante che c’è nel pianeta, una materia viva che possiamo desiderare ma non possedere. E men che mai vendere. L’acqua è la comunità, la vita insieme


foto tratta da mashable.com
di Marco Calabria


Tu hai la sorte
di portare l’aquilone del mattino

alla terra dei pesci
e alla guerra degli uomini.
Ti prego
acqua benedetta ombra di nuvole
anche se l’avido secolo ti fa infuriare
corri leggera sulla mia mano
non farmi mai naufragare.
(Roberto Roversi)

Ci sono voci del passato che parlano al futuro, ha scritto una volta Eduardo Galeano a proposito della prima grande rivolta contro le multinazionali del terzo millennio. Nelle migliaia di occasioni in cui gli è stato chiesto di raccontarla, Oscar Olivera, il più noto dei portavoce di quella rivolta, la Guerra dell’Acqua dell’anno Duemila, non ha mai trascurato di precisare quale fosse il più potente dei nemici che la gente di Cochabamba aveva dovuto affrontare per vincere. Non erano le multinazionali cui il governo boliviano del presidente-generale Hugo Banzer aveva affidato per quarant’anni la gestione delle risorse idriche cittadine. E non erano neanche il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o gli squadroni dell’esercito. Il vero nemico da vincere era la paura. La paura di ribellarsi, di finire schiacciati, di non poter essere all’altezza di una battaglia che sembrava impensabile e che sarebbe invece stata essenziale per il mondo intero.

Lo spazio e il tempo in cui si dispiegava, e dunque si rendeva visibile, quella ribellione è stato quello in cui un’intera città, in quegli anni la terza della Bolivia, ha scoperto la sua potenza, il potere di sconfiggere avversari talmente minacciosi che ci voleva un bel coraggio anche solo per nominarli. Non sarebbe accaduto, però, senza altri spazi e altri tempi, meno visibili ma più lunghi e profondi, in cui affondavano le radici e le ragioni della rivolta. Si tratta di quelli degli usos y costumbres di una gestione comunitaria dell’acqua che esisteva da secoli e che c’è ancora. Per comprenderne la portata e la natura, proviamo a fare un bel salto in lungo, fino a un giorno di febbraio del 2017. Arriviamo alla Escuela 21 de Septiembre, il giorno dell’equinozio di primavera nell’emisfero sud, che si trova a soli quaranta minuti dalla piazza centrale di Cochabamba, il luogo più simbolico delle battaglie di strada del Duemila. La campanella della ricreazione è suonata ma, nella città che ha vinto una “guerra”, i bambini non hanno acqua per bere né per lavarsi

Sono ben seicento figli e nipoti delle centinaia di migliaia di persone che hanno lottato diciassette anni prima, quando – per garantire i profitti del colosso statunitense Bechtel, dell’italiana Edison e della spagnola Abengoa, – si voleva impedire alla gente perfino di raccogliere l’acqua piovana.

Le vittorie dei popoli, anche quelle entrate nella storia, non sono eterne. Eterna semmai, in una città cresciuta in una valle andina che ha sete da sempre, potrebbe essere la risonanza delle voci del passato di cui parlava Galeano, quando diventa lotta per difendere l’ispirazione e la sostanza della vittoria del Duemila. È stato così che nel febbraio scorso un piccolo gruppo di persone ha deciso di far da sé, recuperando la cultura che la “modernità” dei tubi, dei rubinetti e del cloro avevano provato a cancellare. L’acqua è infine arrivata alla scuola 21 de septiembre, è venuta dal cielo e ha una gestione comunitaria. Per costruire in un solo mese, e con le proprie mani, un sistema di raccolta dell’acqua piovana con due cisterne della capacità di 52mila litri ciascuna, i papà e le mamme, i maestri e le maestre – con l’aiuto generoso di qualche volontario, tra cui lo stesso Olivera -, hanno utilizzato i tetti e il campo sportivo. Hanno dovuto tener conto della media della piovosità, della topografia della zona e dello spazio disponibile. Sono stati giorni di lavoro molto duro ma anche di un ricco scambio di saperi, di profonda condivisione e di allegria. Soprattutto quando, durante le pause tra le lezioni, i bambini uscivano all’aperto e facevano un sacco di domande.

Da dove viene l’acqua?
A distanza di qualche mese, Oscar commenta quella piccola grande impresa così: «Vedi, magari sembrerà strano, ma io penso che una delle cose più importanti sia proprio il fatto che i bambini e gli insegnanti non hanno fatto ricorso ad alcun ente dello Stato. Dalle istituzioni, forse un giorno sarebbe anche potuta arrivare dell’acqua ma i ragazzini non avrebbero mai potuto conoscerne la provenienza». Sta tutta qui la diversità della relazione con le risorse naturali di certe cosmovisioni in cui ci si può ancora imbattere con frequenza, in particolar modo tra gli indigeni, nel continente sudamericano. A Napoli o a Los Angeles, difficilmente si darebbe un qualche rilievo al fatto di sapere da dove arriva l’acqua. Va da sé che la tentazione di considerarla una merce trova terreno fertile e meno resistenza. Abbiamo chiesto a Oscar chi è che oggi provvede a far funzionare le cose. «Della raccolta dalle cisterne e della distribuzione si occupa la custode della scuola, è molto facile farlo», ha detto. Con i suoi compagni, sta ancora istruendo la custode stessa e alcuni dei genitori sui piccoli lavori di manutenzione ma, «appena possibile, dobbiamo fare un corso anche con i bambini. Hanno tra i quattro e i dodici anni, devono poter cominciare a comprendere la visione andina dell’acqua, il suo essere un bene comune, il valore della reciprocità. Dobbiamo restituire loro non solo la possibilità di vivere dell’acqua ma di conviverci», precisa.

La mancanza dell’acqua alla scuola del quartiere Sivingani non è naturalmente un fatto isolato. A Cochabamba, quasi settecentomila abitanti, secondo stime del 2012, l’accesso alla fonte primaria della vita è tornato presto a essere non un diritto ma un privilegio per pochi, la causa di profonde ingiustizie sociali. Già nel 2009 si rilevava che il Servizio municipale per l’acqua potabile e le fognature (SEMAPA) distribuiva acqua potabile solo alla metà della popolazione (54 per cento), quasi tutta residente nel centro e nel nord della città, dove vivono le persone più facoltose (Ledo, 2009). Gran parte della zona sud e dell’area più periferica del Dipartimento, il conurbano, vengono di fatto escluse quasi completamente dal servizio pubblico. Sono le aree abitate dalla gente povera, assai poco appetibili per il business delle costruzioni, quelle che subiscono anche i maggiori danni dai fenomeni climatici estremi, siccità e inondazioni, che anche a Cochabamba si sono intensificati in modo repentino negli ultimi anni. I pozzi si seccano, l’acqua diventa insalubre. E servono soldi.

Gli abitanti devono arrangiarsi da soli o ricorrere ai camion, che per lo più vendono acqua la cui qualità è molto dubbia a prezzi elevatissimi. Un ottimo articolo di Lucia Linsalata, realizzato per la campagna internazionale “Labradorxas de Agua”, lanciata nello scorso aprile, fornisce dati di grande interesse. Segnala, ad esempio, che nelle periferie urbane del sud di Cochabamba un metro cubo di acqua, né di qualità elevata né igienicamente sicura, arriva a costare tre dollari statunitensi. Nella zona nord, quella dove vive la classe cittadina media e alta, una famiglia che la riceve attraverso il Servizio municipale la paga sei volte meno. La gente del nord est, inoltre, paga in media per l’acqua appena l’1 per cento delle sue entrate, quella della zona sud il 10. Piuttosto sorprendente, no? Più si spende, meno acqua si ha: una famiglia media della zona sud, composta di sette-otto persone, ha accesso e consuma appena 120 litri di acqua al giorno, 30 in meno di quanti ne usa una sola persona delle zone residenziali del nordest e meno della metà del consumo medio pro capite in Italia: 245 litri al giorno, nel 2017, secondo l’Istat.

Oscar Olivera

Lo Stato come la Bechtel
Possibile che le istituzioni, proprio in una città cui, quando si parla di acqua, guarda tutto il mondo siano così latitanti? «Esistono i cosiddetti planes maestros ma sono stati progettati da tecnocrati e politici con lo stesso fine che aveva la Bechtel nel Duemila: espropriare la gestione comunitaria, questa volta per conto dello Stato», è la risposta secca di Oscar. «La giunta cittadina, attraverso SEMAPA, continua a ingannare la popolazione con le promesse di un rifornimento che non arriva mai e le tariffe non tengono in alcun conto il consumo delle famiglie», aggiunge. Ad aggravare la situazione, c’è il fatto che in questo momento la giunta di Cochabamba è in mano alle forze politiche che si oppongono al governo nazionale di Evo Morales. «C’è un sabotaggio reciproco tra i partiti e, come sempre, a pagarne le conseguenze è la gente che soffre la sete da sessanta anni», conclude con amarezza.

Essendo stati testimoni diretti, in un viaggio in Bolivia di molti anni fa, della rottura dei rapporti con il presidente indigeno appena eletto, quando Olivera, il più prestigioso degli esponenti della Coordinadora del agua y de la vida di Cochabamba, fu uno dei pochissimi leader delle lotte a sottrarsi alla cooptazione governativa, non possiamo esimerci dal chiedergli un aggiornamento del giudizio sulle politiche per l’acqua del governo Morales. La risposta è ancora durissima: «Il governo di Evo è stato quasi ‘partorito’ dalla Guerra dell’Acqua. Se la nostra ribellione popolare non avesse vinto contro le multinazionali, non credo che Morales e il MAS sarebbero andati al governo nel 2006. Purtroppo, abbiamo dovuto capire subito che avrebbe voltato le spalle alla gente, per quel riguarda l’acqua, ignorando l’Agenda che avevamo presentato alla fine del 2005. Questo governo ha abbandonato le imprese pubbliche e i sistemi comunitari, l’acqua non arriva a pesare nemmeno per il 2 per cento sul bilancio dello Stato. Tutto quel che si sta facendo adesso è finanziato dalla cosiddetta “cooperazione internazionale”, che dona sì milioni di euro e dollari ma i piani e le soluzioni sono stabiliti solo dal governo e dalla burocrazia della cooperazione. Non esiste alcuna possibilità di partecipazione della popolazione all’elaborazione di quei piani».

Abbandonati dallo Stato, e ripetutamente delusi dalle promesse di estensione della rete idrica municipale da parte di SEMAPA, gli abitanti della zona Sud ancora una volta non hanno scelta. La sola via per portare l’acqua nelle loro case, tutelare la salute delle famiglie e migliorarne le già molto precarie condizioni di vita, ribadendo insieme il diritto ad affermare la propria dignità, è auto-organizzarsi. Una pratica comunitaria molto radicata nella tradizione delle culture contadine indigene andine ma anche in quella dei tanti ex minatori migrati nella regione cochabambina alla ricerca di un clima e di una terra meno duri di quelli di altre zone della Bolivia. Così, da oltre vent’anni, in quest’area marginalizzata di una valle tutt’altro che verde, tra mille e una difficoltà, si scavano tenacemente pozzi e si cercano finanziamenti per farlo, si mettono insieme le piccole somme disponibili e le immense fatiche di un lavoro collettivo. Spesso il lavoro è gestito con turni obbligatori ma logica è quella del bene comune e della cooperazione. In questo senso, il lavoro astratto di tipo capitalista è veramente lontano. Così come, malgrado le difficoltà e le contraddizioni non manchino, si può tranquillamente affermare che nei sistemi comunitari l’acqua sia ben lontana dall’essere considerata una merce.

Centinaia di sistemi comunitari
Aiuta molto, come abbiamo visto nel caso della scuola, la capacità di recuperare antiche conoscenze e saperi organizzativi che non si sono mai perduti a queste latitudini. Non solo, stiamo parlando di popolazioni segnate spesso da una significativa storia di autonomia politica, anche nella gestione e nella distribuzione delle poche risorse disponibili. È questa la ricetta essenziale che ha fatto del sistema comunitario della zona sud di Cochabamba una delle esperienze più rilevanti di gestione dell’acqua in territori urbani a livello planetario. Una gestione comune, molto differente sia da quelle statali che da quelle private, che però difficilmente si può definire un modello, vista la complessità e la varietà di situazioni diverse che riesce a far convivere. Secondo la rilevazione di Labradorxs de Agua, sono almeno duecento i sistemi che compongono la rete delle zona Sud, alcuni raccolgono poche decine di famiglie, altri ne contano quasi mille. Tutti fanno tesoro, in un modo o in un altro, delle conoscenze pratiche derivanti dagli usos y costumbres locali della valle cochabambina. A quei duecento sistemi, peraltro, ne vanno aggiunti quasi altrettanti censiti nelle aree periurbane (Tiquipaya, Sacaba, Colcapiruha, Quillacollo) e un ulteriore numero, imprecisabile ma certo largamente superiore, disperso nelle aree rurali più distanti dalla città di Cochabamba.

Abbiamo usato il verbo “disperdere” non in modo casuale. Per approfondire un concetto complesso quanto interessante, essenziale alla comprensione della relazione tra potere, politica e vita quotidiana in diverse zone della Bolivia, rimandiamo a “Disperdere il potere”, (Zibechi, 2007), grande racconto della “Guerra del Gas” di El Alto, capitale aymara, cresciuta fino a 900 mila abitanti ai margini settentrionali di La Paz. Qui, ci limitiamo a segnalare che, malgrado l’infinita varietà della trama di esperienze comunitarie che si è disegnata nei secoli nel territorio che oggi si chiama “Bolivia”, ciò che le unisce davvero, insieme a forme molto originali di legame tra le persone, restano la tendenza all’auto-gestione e al controllo esercitati spesso senza deleghe dalla stessa popolazione. D’altra parte, per chi non resistesse alla tentazione di uno sguardo tanto “europeo” da sfiorare la prospettiva di una nuova colonialità, per poi giungere a frettolose conclusioni tendenti a incasellare la realtà comunitaria di cui si parla come un esempio di “esperienze minoritarie”, sarà utile ricordare qualche altro numero. Secondo la Rivista Aqua Vitae, n.12 del 2010, in undici paesi dell’América Latina sono stati censiti oltre 50 mila sistemi comunitari che provvedono all’accesso all’acqua per oltre 30 milioni di persone. Dai 16 mila della Colombia (ne usufruiscono 12 milioni di persone) ai 1.456 del Cile (un milione e mezzo i beneficiari), dai 12 mila del Perù (oltre 8 milioni di persone) ai 2.500 del Paraguay (1.200.000 persone). In Bolivia il censimento si ferma a 4.500 sistemi (con 2.250.000 abitanti coinvolti).

Numeri significativi a scala continentale che, naturalmente, non raccontano la complessità di situazioni tanto diversificate e quasi sempre esposte a grandi fragilità derivanti dalle inevitabili contraddizioni interne e dalle grandi pressioni esterne esercitate dalle economie e dalle politiche degli Stati in cui si trovano. Per quel riguarda la stessa Cochabamba, Olivera non è ottimista sul futuro immediato: «Buona parte della popolazione è in questo momento troppo frammentata e disorganizzata, così finisce per subire la subordinazione all’apparato dello Stato. Non è immaginabile a tempi brevi la riproposizione di un tentativo di imporre un’agenda dal basso. Però la gente resta indignata per le ingiustizie e per la mancanza d’acqua. Verrà un momento di articolazione rapida e forte che certamente darà vita a un nuovo poderoso movimento. I piccoli spazi che restano aperti in alcune comunità e in altre esperienze come la scuola di cui abbiamo parlato riveleranno allora tutta l’importanza strategica necessaria alla nuova ribellione che saprà crescere. La gente tornerà a prendere decisioni e deciderà di lottare».


Chi decide? Le istituzioni costituenti o i processi della vita di ogni giorno?
Il tema delle decisioni, così rilevante nell’auspicio espresso da Oscar, contiene una delle domande chiave sulla gestione comunitaria dell’acqua: dove si prendono le decisioni? Per chiunque abbia una qualche esperienza di partecipazione ai movimenti sociali, la risposta sale alle labbra quasi spontanea: in assemblea. Filemón Escobar, ex presidente dell’Associazione Agua 22 de Abril, venuto a mancare nel giugno scorso, dopo essere stato anche uno storico leader sindacale dei minatori e un esponente politico di grande rilevanza sulla scena politica boliviana (è stato a lungo anche mentore politico di Evo Morales), aveva le idee molto chiare: “Un’associazione comunitaria è un’organizzazione dove la popolazione, riunita in assemblea, è la massima autorità”. Certo, l’assemblea è non solo lo spazio pubblico in cui un sistema comunitario dell’acqua nasce, ma anche quello in cui si definiscono i termini, le tariffe da pagare e gli accordi di gestione, insomma le “regole” stesse del sistema.
Eppure, anche in questo caso, non sembra superfluo segnalare che a Cochabamba le regole di funzionamento variano da assemblea ad assemblea e da quartiere a quartiere. Una nuova testimonianza di quanto possa essere improprio parlare di modelli. Non solo. La rilevante questione dei “momenti decisionali” offre forse lo spunto per un invito a non concentrare l’attenzione nel disegno delle “istituzioni costituenti” comunitarie, definizione già in sé piuttosto avventurosa, ma a tenere uno sguardo aperto sulle diverse esperienze di lotta quotidiana. Lotte “genuinamente” auto-prodotte tra mille imprevedibili avversità, ma spesso capaci di costruire e consolidare relazioni sociali diverse tra uomini e donne per soddisfare le differenti necessità di riproduzione collettiva della vita. In altre parole, la comunità non si istituisce, né si sancisce in un dato evento o momento formale. Non si fonda come una società o un’associazione ma è il risultato di un lungo processo di scelte e decisioni, individuali e collettive, per garantire l’accesso comune a quel che desideriamo o di cui abbiamo bisogno. L’acqua, come suggeriscono a Cochabamba le voci del passato che parlano al futuro, è la prima materia di cui abbiamo bisogno, per fortuna la più abbondante che c’è nel pianeta, una materia viva che possiamo desiderare ma non possedere. E men che mai vendere. L’acqua è la comunità, la vita insieme.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E WEB
Roberto Roversi (1995). Versi tratti da Poetare d’Acqua. Centro Antartide, Bologna
Galeano Eduardo (2010). Carta leída en la ceremonia de apertura de la Conferencia Mundial de los Pueblos sobre el Cambio Climático y los Derechos de la Madre Tierra.
Oscar Olivera, Raquel Gutierrez e altri (2008). Nosotros somos la Coordinadora Fundacion Abril. Cochabamba
Ledo Carmen (2009), El agua es nuestra de cada dia. Retos e iniciativas de una Cochabamba incluyente y solidaria UMSS-CE-PLAG, Bolivia
Linsalata Lucia (2017), Agua en común. Labradorxs de Agua. Fundación Abril, Cochabamba
Zibechi Raúl (2007). Disperdere il potere. Carta-IntraMoenia Roma-Napoli



*Questo articolo fa parte del 15° Rapporto sui Diritti globali Apocalisse umanitaria (Ediesse).

lunedì 13 novembre 2017

Sud America - Perchè crescono le destre

Il ciclo progressista è finito, anche se ci sono ancora governi di centrosinistra che per restare in carica devono seguire una tendenza che vede crescere le destre, in modo particolare in Sudamerica. Il modello estrattivista ha trasformato le società che ora esprimono valori e relazioni sociali di conservazione, così come la società industriale ha generato in passato una potente classe operaia e valori di comunità e solidarietà. Dieci anni di governi progressisti hanno prodotto un naturale logoramento legato alla corruzione e alla cattiva gestione ma è il modello stesso che li ha segnati che depoliticizza e disorganizza una società che si articola solo mediante il consumo. È qui che le destre mordono. Il consumismo è l’altra faccia della società estrattiva. Anche i movimenti sono responsabili della situazione: invece di costruire guardando al lungo termine, preparandosi per l’inevitabile collasso del sistema, hanno preso spesso scorciatoie elettorali che li hanno portati a costruire alleanze impossibili con risultati patetici. Dobbiamo pensare agli insegnamenti che ci lasciano l’ascesa delle destre e la crisi dei movimenti. Non si può opporre resistenza alla società estrattiva della quarta guerra mondiale con la stessa logica della lotta operaia nella società industriale

Lavoratori dell’industria mineraria in Uruguay. Foto: http://www.mineria.com.uy
di Raúl Zibechi
I cicli politici non sono capricciosi. Stiamo vivendo un periodo di crescita delle destre, in particolare in Sudamérica. Il ciclo progressista è terminato anche se continuano a esistere governi di questo colore, ma non potranno più sviluppare le politiche che hanno caratterizzato i loro primi anni perché si impone una svolta conservatrice, sebbene i discorsi possano dire qualcosa di diverso.
Un buon esempio di questa ironia può essere l’Ecuador: un governo di Alianza País che realizza un aggiustamento conservatore. A meno che non si opti per la peregrina tesi del “tradimento”, Lenin Moreno dimostra che anche i progressisti devono compiere una svolta a destra per poter continuare a governare.
Diciamo che i cicli sono strutturali e i governi congiunturali. Il ciclo progressista si è contraddistinto per gli alti prezzi delle esportazioni delle commodities in un generale clima di crescita economica, per un forte protagonismo popolare e per le pressioni per una maggiore giustizia sociale. Dalla crisi del 2008, i tre aspetti si sono indeboliti. Adesso soffriamo una forte offensiva della destra in ogni settore.
Nonostante i cattivi risultati economici e un’elevata conflittualità sociale, nella quale risalta la sparizione forzata di Santiago Maldonado, il governo di Mauricio Macri ha conseguito una schiacciante vittoria nelle recenti elezioni argentine. Il macrismo non è una parentesi, ha conseguito una certa egemonia che si basa sui cambiamenti economici dell’ultima decade, sul logoramento del progressismo e sulla crescente debolezza dei movimenti.
La prima questione da tenere in considerazione è che il modello estrattivo (della soia e minerario) ha trasformato le società. 
L’edizione argentina di Le Monde Diplomatique di settembre, contiene due interessanti analisi di José Natanson e di Claudio Scaletta, che dipanano i cambiamenti produttivi del complesso della soia e le sue ripercussioni sociali.
Il primo sostiene che la mappa della soia coincide “quasi matematicamente” con i territori in cui vince Macri. Sottolinea che il settore è sempre più collegato con il settore finanziario, con l’industria e i grandi media, e che i latifondisti e i braccianti, che sono stati i protagonisti del periodo oligarchico, adesso convivono, tra gli altri, con i tecnici, gli affittuari, gli agronomi, i veterinari, i meccanici dei macchinari agricoli e i piloti addetti alle fumigazioni. 
La tecnologia è persino più importante della proprietà della terra 
che i “pool delle sementi” affittano, mentre i coltivatori, connessi al mondo globalizzato, tengono d’occhio i prezzi della borsa di Chicago, dove i cereali vengono quotati.
Il secondo sostiene che ci troviamo di fronte a una crescente complessità delle classi medie rurali e all’emergere di nuove classi “rurali-urbane”. Di conseguenza, il conflitto con il settore rurale che il governo kirchnerista ha sostenuto nel 2008 non è stato la classica contraddizione oligarchia-popolo.
A partire da questo momento, si è reso visibile un conglomerato di attori più complesso e con una base sociale molto più ampia, che rifiuta le politiche sociali perché sente la povertà urbana come una realtà molto lontana. È questo blocco sociale che ha portato Macri al governo e che lo sostiene.
La società estrattiva genera valori e relazioni sociali conservatrici, così come la società industriale ha generato una potente classe operaia e valori di comunità e di solidarietà. Nelle grandi fabbriche, organizzandosi per resistere ai padroni, migliaia di operai si sono trasformati in classe.
Al contrario, l’estrattivismo non genera soggetti interni, ossia all’interno della trama “produttiva”, perché è un modello finanziario speculativo. Le resistenze sono sempre esterne, dove in genere i protagonisti sono le persone colpite.
La seconda questione è il logoramento del progressismo dopo una lunga decade di governo. Qui compaiono due elementi. Uno: il naturale logoramento interno o per la corruzione e la cattiva gestione, e la combinazione di entrambi. Due: perché il modello stesso depoliticizza e disorganizza la società che si articola solamente mediante il consumo. È qui che le destre mordono.
Il consumismo è l’altra faccia della società estrattiva. Una società che non genera soggetti, né identità forti, con valori vincolati al lavoro degno, ossia produttivo, bensì solo “valori” mercantili e individualisti non si trova nella condizione di potenziare progetti di lungo respiro per la trasformazione sociale.
La terza questione che spiega l’auge delle destre è la debolezza del settore popolare, che colpisce a partire dai movimenti fino alla cultura del lavoro e delle sinistre. Le società estrattive creano le condizioni materiali e spirituali di questa anemia dell’organizzazione e delle lotte. Ma c’è di più.
Le politiche sociali del progressismo, soprattutto l’inclusione mediante il consumo, hanno moltiplicato gli effetti depredatori in termini di disorganizzazione e depoliticizzazione. Nello shopping scompaiono le contraddizioni di classe, comprese quelle etniche e di genere, perché in questi “non luoghi” (Marc Augé) il contesto fa scomparire l’umanità delle persone.

Il presidente argentino Mauricio Macri festeggia
Ma anche i movimenti sono responsabili per le scelte che hanno preso. Invece di costruire guardando al lungo termine, preparandosi per l’inevitabile collasso sistemico, hanno preso la scorciatoia elettorale che li ha portati a costruire alleanze impossibili con risultati patetici. Alcuni movimenti argentini che hanno scelto di allearsi con la destra giustizialista, possono fare un bilancio sui disastrosi risultati che hanno ottenuto, e non mi riferisco alla scarsa raccolta di voti.
Infine, dobbiamo pensare agli insegnamenti che ci lascia l’ascesa delle destre e la crisi dei movimenti. Non si può opporre resistenza alla società estrattiva della quarta guerra mondiale con la stessa logica della lotta operaia nella società industriale. Non esiste una classe che la diriga. I soggetti collettivi devono essere costruiti e sostenuti ogni giorno. Le organizzazioni devono essere solide, cesellate per il lungo termine e resistenti agli attacchi istituzionali.
Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Del fin de ciclo a la consolidación de las derechas
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

lunedì 28 agosto 2017

Colombia - Donne delle FARC chiedono di inserire visione femminista nel nuovo partito

Le donne delle FARC-EP hanno presentato proposte che rivendicano le lotte di genere e il femminismo come spazio di lotta necessario nell’organizzazione in cui si trasformeranno per partecipare alla vita politica del paese, dopo l’Accordo di Pace firmato con il governo di Juan Manuel Santos.


In un documento di sette pagine, le donne delle FARC hanno spiegato la loro visione del femminismo come contributo alle Tesi di Aprile redatte dalla direzione delle FARC-EP come strumento guida per il prossimo Congresso. In questa istanza le FARC trasformeranno la loro struttura, piattaforma e principi organici in modo che la nuova organizzazione possa entrare a pieno titolo nella vita politica quotidiana del paese.

Nel testo le donne assicurano che “il femminismo è inteso come corrente di pensiero e azione che cerca di eliminare tutte le pratiche volte a mantenere l’ordine sociale patriarcale il quale, a sua volta, sostiene la diseguaglianza nel sistema capitalista”. Descrivono il femminismo come “un concetto etico-politico della realtà che contribuisce alla lotta per condizioni giuste e la distribuzione equa della ricchezza, superando tutte le forme di sfruttamento, compresa quello sessuale”.

In questo senso le donne delle FARC dichiarano che “il femminismo combatte il patriarcato. Questo vuol dire che è contro l’organizzazione sociale storica che mette gli uomini e il maschile come asse centrale delle relazioni e delle istituzioni sociali”. Su questo punto aggiungono che “anche il maschile deve trasformarsi in una identità basata su relazioni di uguaglianza con le donne e caratterizzata per il trattamento giusto, solidale e di rispetto per le differenze, costruendo così una mascolinità nuova e contro-egemonica”.

Le donne delle FARC fanno riferimento, tra altri aspetti, alla necessaria assunzione di potere delle donne negli spazi dove si prendono decisioni, al diritto a decidere sul loro corpo e al rispetto per la diversità e orientamento sessuale. In questo senso indicano che “è necessario continuare con la formazione della coscienza collettiva che accolga la popolazione LGBTI nella nostra organizzazione politica e nelle organizzazioni di massa. Gli orientamenti sessuali delle persone non hanno nessuna relazione con il loro comportamento politico, né con il prestigio politico dell’organizzazione. Dentro il Nuovo Partito saremo estremamente attente per prevenire qualunque tipo do violenza contro le donne, persone con orientamento sessuale diverso e costruzione identitaria”.

venerdì 18 agosto 2017

Venezuela - Il punto di vista della Cina

di Raúl Zibechi
Conoscere i criteri che usa la potenza emergente sull’America Latina, e in particolare sul Venezuela, è sommamente importante giacché raramente i loro mezzi di comunicazione lasciano intravedere le opinioni che circolano nel governo cinese. Il 1° agosto la rivista cinese  Global Times ha pubblicato un esteso editoriale intitolato “Venezuela un microcosmo dell’enigma latinoamericano” (goo.gl/ksmY77).
Il Global Times appartiene all’organo ufficiale del Partito Comunista della Cina, Quotidiano del Popolo, ma si focalizza su temi internazionali e le sue opinioni hanno maggiore autonomia del media che lo patrocina.
L’articolo analizza le recenti elezioni dell’Assemblea Costituente mostrando un certo sostegno al progetto ma, allo stesso tempo prendendo le distanze. Riserva le sue maggiori critiche alla Casa Bianca, dicendo che “Washington si preoccupa solo di prendere il controllo del continente, come suo cortile posteriore, e non è interessata ad aiutarli”.
Evidenza che gli obiettivi degli Stati Uniti consistono nella “eliminazione di Maduro e nella distruzione dell’eredità politica di Chávez”, ma precisa anche che tutti i governi di sinistra del continente hanno una relazione “scomoda” con Washington.
Secondo il Global Times, “senza un’industrializzazione pienamente sviluppata, le economie latinoamericane dipendono in gran misura dalle risorse”, ragione per cui molti paesi presentano forti spaccature sociali e di ricchezza, come succede in Venezuela, dove i contadini e i poveri urbani appoggiano il governo mentre la classe media ricca sostiene l’opposizione.
Finora non ci sono novità. Ma a questo punto comincia un’analisi che svela le posizioni del governo cinese. “Il sistema politico che hanno adottato dall’Occidente non è riuscito ad affrontare questi problemi”, spiega il Global Times.
La rivista, pertanto, dice che “indipendentemente da chi vinca, il Venezuela avrà difficoltà a vedere la luce alla fine del tunnel. Le divisioni sociali non possono essere risolte, e l’intervento degli Stati Uniti non si fermerà. Il Venezuela può essere trascinato in un prolungata battaglia politica”. Con totale trasparenza, la dirigenza cinese pensa che il paese si incammini verso maggiori conflitti.
In secondo luogo, sostiene che il Venezuela sia un “importante socio della Cina”. Difende le relazioni di cooperazione “indipendentemente da chi governa il paese”, perché “il commercio con la Cina sarà utile ai venezuelani”. Per quello stimano di mantenere delle relazioni fluide e strette che “in Venezuela trascendono gli interessi di partito”.

martedì 23 maggio 2017

America Latina - L'era dell'ingovernabilità

I governi politici sono travolti da una violenta tormenta. Ovunque, dalle Nazioni Unite ai paesi che sembravano più stabili. Non esistono forze capaci di mettere ordine, né a scala regionale né globale. Il fenomeno è particolarmente visibile in America Latina, dall'Argentina al Venezuela al Brasile. Incapaci di comprenderne le ragioni, gli analisti e i media ricorrono spesso e volentieri a semplificazioni ma Donald Trump non è affatto “pazzo”, come non lo è mai stato Hitler, e il fallimento dei governi progressisti latinoamericani non si deve solo ai complotti dell’imperialismo o delle opposizioni di destra. La crescente impossibilità di governare è manifesta e le motivazioni di fondo che la determinano sono piuttosto complesse. Raúl Zibechi prova ad elencarne qui almeno tre e spiega che non sarà naturalmente possibile proteggere i possedimenti de los de arriba, quelli che stanno in alto, solo alzando muraglie. Per los de abajo, quelli che stanno in basso, il problema da affrontare non è però quello di sostituire il tenutario dei possedimenti
Primavera 2017. Una grande protesta dei lavoratori della scuola argentini contro la politica del governo di Macri.
di Raúl Zibechi
La disarticolazione geopolitica globale si traduce, nel continente latinoamericano, in una crescente ingovernabilità che colpisce i governi di tutte le correnti politiche. Non esistono forze capaci di mettere ordine in nessun paese, né a scala regionale né globale. Si tratta di qualcosa che colpisce tutti, dalle Nazioni Unite fino ai governi dei paesi più stabili.
Uno dei problemi che si possono osservare, soprattutto sui media, è che quando si rivela il fallimento delle analisi, ci si appella a semplificazioni del tipo: “Trump è pazzo”, o congetture simili, oppure lo si taccia di “fascista” (cosa che non è una semplice congettura). Solo aggettivi che servono a eludere analisi di fondo. Sappiamo bene che la “pazzia” di Hitler non è mai esistita, rappresentava gli interessi delle grandi corporazioni tedesche, ultra razionali nel loro affannoso intento di dominare i mercati globali.
Dalla parte del pensiero critico, succede qualcosa di simile. Tutti i problemi che affrontano i governi progressisti sono colpa dell’imperialismo, delle destre, dell’OSA e dei media. Non c’è volontà di assumersi i problemi creati da sé stessi, né il minimo accenno alla corruzione che ha raggiunto livelli scandalosi.
Ma il dato centrale del periodo è l’ingovernabilitàQuello che sta accadendo in Argentina (la resistenza ostinata dei settori popolari alle politiche di rapina e spoliazione del governo di Mauricio Macri) è una dimostrazione che le destre non riescono a conseguire la pace sociale, né la otterranno almeno nel breve/medio termine.
I lavoratori argentini hanno una lunga e ricca esperienza di più di un secolo di resistenza ai potenti, perciò sanno come logorarli, fino a rovesciarli attraverso i più doversi modi: dalle insurrezioni, come quella del 17 ottobre del 1945 e quella del 19 e 20 dicembre del 2001, fino alle sollevazioni armate come il Cordobazo e diverse decine di sommosse popolari.
In Brasile, la destra pilotata da Michel Temer ha enormi difficoltà nell’imporre le riforme del sistema pensionistico e del lavoro, non solamente per la resistenza sindacale e popolare ma anche per la spaccatura interna di cui soffre il sistema politico. La delegittimazione delle istituzioni è forse la più elevata che si ricordi nella storia.

giovedì 11 maggio 2017

Venezuela - Quando la sinistra è il problema

Il fatto che la scatenata destra politica venezuelana cerchi con ogni mezzo di provocare un bagno di sangue non cancella la realtà di uno scontro violentissimo tra due élite. C’è quella tradizionale e golpista, allontanata dal potere dello Stato e impaziente di consegnare il paese nelle mani di Donald Trump e c’è la nuova borghesia “bolivariana”, un mix di alti funzionari di imprese pubbliche e dell’apparato statale, militari di alto grado e imprenditori arricchiti all’ombra delle istituzioni, preoccupata solo che tutta la struttura di potere gli cada addosso. Una situazione estrema ma anche emblematica di una drammatica realtà, non certo solo sudamericana, in cui la sinistra politica “realmente esistente” lotta per il potere, appoggiandosi ai settori popolari, solo per installare i suoi quadri nelle istituzioni. Con il trascorrere degli anni e il controllo dei meccanismi di decisione, quei quadri si trasformano in una nuova élite che, generalmente, può spodestare le precedenti, trattare o fondersi con loro. Oppure combinare tutte e tre le opzioni. La polarizzazione destra-sinistra politica è sempre più falsa ma la cosa peggiore è che la sinistra è diventata simmetrica alla destra in un punto chiave: l’ossessione per il potere.
Una parata dell’esercito venezualano del 2016. Foto Telesur Tv
di Raúl Zibechi
Quello che sta succedendo in Venezuela non ha nulla a che vedere con una “rivoluzione” o con il “socialismo”, né con la “difesa della democrazia”e nemmeno con la trita “riduzione della povertà”, tanto per passare in rassegna gli argomenti che si utilizzano a destra e sinistra. Si potrebbe menzionare il “petrolio”, e saremmo più vicini. I fatti indicano tuttavia altre svolte.
Siamo di fronte a una lotta senza quartiere tra una borghesia conservatrice che è stata allontanata dal controllo dell’apparato dello Stato, sebbene mantenga legami con lo Stato attuale, e una borghesia emergente che utilizza lo Stato come leva di “accumulazione originaria”.
Non è la prima volta che questo accade nelle nostre brevi storie. Le guerre d’indipendenza furono questo: una lotta tra i decadenti “goti” (i monarchici della penisola iberica) e l’emergente oligarchia “creola”, che utilizzò il controllo dell’apparato statale per legalizzare l’usurpazione delle terre dei popoli originari. L’oligarchia si appoggiava alle potenze coloniali britannica e francese, che erano in competizione con la decadente Spagna per il controllo delle colonie rese indipendenti, con la stessa logica dei progressismi che oggi si appoggiano alla Cina, compresi i conservatori come Macri, di fronte all’inarrestabile decadenza statunitense.
La debole borghesia creola salì sul carro delle mobilitazioni dei popoli (indigeni, neri e settori popolari) per sconfiggere i potenti iberici. Concesse l’emancipazione degli schiavi con i medesimi obiettivi con i quali oggi la nuova borghesia applica le politiche sociali che riducono la povertà: in entrambi i casi los de abajo continuano a rimanere nel sottoscala in quanto mano d’opera a buon mercato, senza essersi mossi di una virgola dal posto strutturale che occupano.
Le nuove élite venezuelane, quelle popolarmente chiamate “boliborghesia” ( dove boli sta per bolivarianandt), sono un mix di alti funzionari di imprese pubbliche e dell’apparato statale, militari di alto grado e alcuni imprenditori arricchiti all’ombra delle istituzioni. Dirigenti inseriti nell’apparato dello Stato. Per questo si rifiutano di perdere potere, tutta la struttura gli cadrebbe addosso.
Alcuni sono già riusciti a trasformare la rendita di cui si sono appropriati in proprietà privata. Buona parte di loro è tuttavia ancora impegnata in quel processo. Perciò il sociologo brasiliano Ruy Braga definisce i dirigenti sindacali dei fondi pensione del suo paese, la nuova classe emergente, parte di una “egemonia fragile”.
Roland Denis sostiene che nel suo paese governano le mafie: “Maduro potrà anche avere le migliori intenzioni ma si è imposta una lobby molto forte di mafie interne al governo (La Razón, 27 dicembre 2017). Il filosofo ed ex Viceministro della Programmazione e dello Sviluppo (2002-2003), assicura che diverse di queste mafie sono delle banche e altre vengono da vecchi gruppi di “succhia-rendita petrolifera” insediatisi da molti anni.

sabato 8 aprile 2017

Paraguay - Questioni chiave per comprendere la situazione

Venerdì scorso [31.03.2017, ndr] una notizia ha fatto il giro del mondo: manifestanti danno fuoco al Parlamento dopo l’approvazione del Senato all'emendamento costituzionale, che dovrà essere approvato in un successivo referendum e che prevede la possibilità di rielezione per il Presidente. Cosa sta accadendo davvero in Paraguay?

• Paraguay: «Que se vayan todos» di Santiago Mayor*
Rapidamente, importanti mezzi di comunicazione paraguayani e il Partido Liberal (all'opposizione) hanno denunciato l’illegalità della risoluzione, sostenendo che si tratta di una manovra dell’attuale Presidente Horacio Cartes per perpetuarsi al governo.
Paradossalmente – per lo meno dal punto di vista di chi non conosce i dettagli del dibattito – anche il progressista Frente Guasù, anch’esso all’opposizione e che vede come massimo referente l’ex Presidente Fernando Lugo, è posizionato a favore della riforma. Lo scenario è più complesso di quanto un’analisi superficiale possa prevedere.
Cosa ha approvato il Senato paraguayano?
Il progetto promosso dal partito governativo (Partido Colorado) e appoggiato dal Frente Guasù e dai settori dissidenti del Partido Liberal prevede la modifica degli articoli 161, 197, 229 e 235 della Costituzione. L’articolo 229, così modificato, permetterebbe ai presidenti e vicepresidenti la possibilità di rimanere in carica per cinque anni e di essere rieletti due volte consecutivamente o in maniera alternata.
Oltre a questo, è previsto che coloro che occupano tali cariche possano correre per la rielezione nel ciclo successivo solo qualora presentino le dimissioni fino a sei mesi prima delle elezioni. A questo si aggiunge il fatto che, secondo la legislazione vigente, le dimissioni di un Presidente devono essere approvate dal Parlamento: con la modifica della Costituzione, tuttavia, sarà sufficiente comunicare la rinuncia agli altri poteri dello Stato.
Queste modifiche alla Costituzione dovranno comunque essere riconosciute o respinte attraverso referendum prima delle elezioni presidenziali del 2018.
Va ricordato che l’attuale Carta – approvata nel 1992 – proibisce qualsiasi tipo di rielezione, anche a coloro che già hanno ricoperto il ruolo di Presidente. Uno dei motivi che portarono a questa particolarità della legge fondamentale paraguaiana risiede nel fatto che la prolungata dittatura di Alfredo Stroessner (1954-1989) cercò di legittimarsi proprio attraverso elezioni truccate che gli hanno permesso di essere eletto per sette mandati consecutivi.
Quali sono le controversie?
La prima critica mossa da chi si oppone alla riforma – in primo luogo il Partido Liberal e diversi mezzi di comunicazione – si basa sul fatto che è la stessa Costituzione a proibire la rielezione. Modificare la Carta per via parlamentare sarebbe quindi incostituzionale, anche qualora fosse previsto un successivo referendum popolare.
Allo stesso tempo viene denunciata l’assenza durante la sessione del Presidente della Camera Alta, Roberto Acevedo; per tanto lo stesso procedimento (al di là del contenuto della riforma) sarebbe illegale.
La normativa è stata approvata in una sessione alla quale erano presenti 25 dei 45 senatori.
Cosa è successo venerdì notte [31.03.2017, ndr]?

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!