Agli individui, gruppi, collettivi e organizzazioni delle Reti d’Appoggio al CIG:
Alla Sexta Nazionale e Internazionale:
Considerando che:
Primo e unico:
Il gran finale
Vossia
arriva al grande stadio. “Monumentale”, “colosso”, meraviglia
architettonica”, “il gigante di cemento”, qualificativi consimili si
ripetono nelle voci degli speaker che, nonostante le diverse realtà che
esprimono, concordano nel mettere in risalto la superba costruzione.
Per
arrivare al grandioso edificio, vossia ha dovuto farsi strada tra
macerie, cadaveri, sporcizia. I più in là negli anni raccontano che non è
stato sempre così: che prima, intorno alla gran sede sportiva si
ergevano case, quartieri, negozi, edifici, fiumi e ruscelli di gente che
uno schivava finché andava quasi a sbattere il naso contro al
gigantesco portone, che si apriva solo ogni tanto, e nella cui insegna
si leggeva: “Benvenuto al Gioco Supremo”. Sì, “benvenuto”, in maschile,
come se ciò che avveniva dentro fosse cosa soltanto da uomini; come
prima i sanitari, le cantine, la sezione di macchine e attrezzi dei
negozi specializzati… e, ovvio, il calcio.
Tuttavia,
a volo d’uccello l’immagine vista potrebbe benissimo essere un
facsimile di un universo che si contrae, lasciando alla sua periferia
morte e distruzione. Sì, come se il Grande Stadio fosse il buco nero che
assorbe la vita attorno a sé e che, sempre insaziabile, erutta e defeca
corpi senza vita, sangue, merda.
Da
una certa distanza, si può apprezzare l’immobile nella sua totalità,
sebbene ora le sue erronee disposizioni architettoniche, le sue falle
strutturali nei calcestruzzi e nelle strutture, le sue decorazioni
cangianti secondo il gusto della squadra vincitrice di turno, appaiano
coperte da una tramoggia che abbonda di richiami all’unità, la fede, la
speranza e, ovvio, la carità. Come se così si ratificasse la somiglianza
tra culti religiosi, politici e sportivi.
Vossia
non sa molto di architettura, ma sente fastidio per questa insistenza
quasi oscena su una scenografia che non coincide con la realtà. Colori e
suoni che proclamano la fine di un’era e il passaggio al domani
anelato, la terra promessa, il riposo che non promette più nemmeno la
morte (si dice vossia mentre ricapitola le proprie conoscenze, le
persone scomparse, assassinate, “esportate” in altri inferni, e i cui
nomi si diluiscono in statistice e promesse di giustizia e verità).
Come
nella religione, la politica e gli sport, ci sono gli specialisti.
Mentre vossia non sa molto di nulla. La infastidiscono gli incensi, i
salmi e le lodi che popolano quei mondi.
Vossia non si sente capace di
descrivere l’edificio, perché vossia bazzica altri mondi, e i suoi
lunghi e tediosi cammini percorrono quello che, dai superbi palchi
dell’edificio, si potrebbe chiamare il “sottosuolo”. Sì, la strada, la
metro, il bus collettivo, il veicolo in abbonamento o pagato a carico di
altri abbonamenti (un debito sempre posposto e sempre crescente), le
strade sterrate, i sentieri sperduti che portano alla milpa, alla
scuola, al mercato, al tianguis, al lavoro, agli sbattimenti, al
diavolo.
Vossia
si inquieta, sì, ma l’ottimismo dentro al grande stadio è
maggioritario, travolgente, s-o-p-r-a-f-f-a-t-t-o-r-e, e tracima fino a
fuori.
Come
in quella canzone che vossia ricorda vagamente, lo spettacolo che è già
finito, ha unito “il nobile e il villano, il proboviro e il verme”. In
quei momenti l’uguaglianza è stata regina e signora, non importa che al
fischio finale ciascuno sia tornato al suo posto. Basta l’oblio che
ciascuno è quel che è. Di nuovo, “e con la nausea / torna il povero alla
sua povertà, /torna il ricco alla sua ricchezza /e il signor curato
alle sue messe/ si son svegliati il bene e il male/ la volpe povera
torna al portone, /la volpe ricca torna al roseto, /e l’avaro alle
divise”* (*Citazione di “Fiesta” di J.M. Serrat, N.d.T.).
E il fatto è
che, come vossia sa dallo strepito e dalle immagini, la partita è
finita. Il gran finale tanto atteso e temuto si è consumato, e la
squadra vincitrice riceve, con falsa modestia, il clamore degli
spettatori. “Il rispettabile pubblico”, dicono portavoce e cronisti. Sì,
così si riferiscono a chi ha partecipato attivamente con grida, cori,
urrà, insulti e diatribe, dai gradoni, come spettatori a cui soltanto
nel gran finale è permesso simulare che sono di fronte al pallone e che
il loro grido è il calcio che dirige la sfera “in fondo al sacco”.
Quante
volte lo ha sentito vossia? Molte, val la pena contarle? Le sconfitte
reiterate, la promessa che alla prossima sì, che l’arbitro, che il
campo, che il clima, che la luce, che la linea, che la strategia e la
tattica, che eccetera. Almeno l’illusione attuale allevia questa storia
di sconfitte… a cui dopo si aggiungerà la prevista disillusione.
Nei
dintorni del recinto, una mano maliziosa ha tracciato, sul superbo muro
che circonda lo stadio, un motto: “MANCA LA REALTA’”. E non paga della
sua eresia, la mano ha aggiunto tratti e colori alle lettere, tanto
variegati e creativi che non sembrano nemmeno dipinti. Non è più un
graffito, ma un’iscrizione fatta a scalpello, che macchia il cemento.
Un’orma indelebile nell’apatica superficie del muro. E, per colmo,
l’ultimo tratto della “A” finale ha aperto una crepa che si allarga fino
al basamento. Un cartello, rotto e scolorito, con l’immagine di una
felice coppia eterosessuale, con un paio di figli, bambino e bambina, e
l’intestazione “La Famiglia Felice”, cerca invano di occultare la
fenditura che, forse per un effetto ottico, sembra graffiare anche la
felice immagine della famiglia felice.
Ma neppure il frastuono interno che fa vibrare le pareti dello stadio riesce a nascondere la crepa.
Dentro,
sebbene la partita sia terminata, la moltitudine non abbandona lo
stadio. Anche se ben presto sarà di nuovo espulsa verso la valle di
rovine, la moltitudine imbellettata fa eco delle proprie grida e scambia
aneddoti: chi ha gridato più forte, chi ha fatto lo scherzo migliore
(si dice “meme”), chi ha divulgato la bugia di maggior successo (il
numero di “like” determina il grado di verità), chi lo sapeva fin da
subito, chi non ha mai dubitato. Nelle tribune, alcuni, alcune, alcunei,
scambiano analisi: che “hai visto che gli avversari hanno cambiato
casacca a fine primo tempo e ora festeggiano la vittoria coloro che
hanno iniziato l’incontro con la casacca della squadra opposta?”; che
“l’arbitro (il sempiterno “arbitro venduto”) ora sì che ha fatto il suo
dovere perché la vittoria della squadra ripulisce ed eleva tutto”.
Alcuni, alcune, alcunei, più scettici, vedono con sconcerto che, tra
coloro i quali celebrano il trionfo, ci sono quelli che hanno giocato e
giocano in squadre rivali. Cercano di capire, ma non riescono. O
capiscono, ma non è ora di capire, ma di festeggiare. Perché sia chiaro,
una lavagna gigante lampeggia con lo slogan visuale di moda: “Proibito
Pensare”. La notte ha posposto il suo arrivo, pensa vossia.
Ma si rende
conto che sono i riflettori e i fuochi d’artificio che simulano
chiarore. Chiaro, un chiarore selettivo. Perché là, in quell’angolo,
alcuni gradoni sono crollati e le squadre di soccorso non accorrono,
occupate come sono nel festeggiamento. La gente non si chiede quanti
morti, ma di quale squadra erano tifosi. Più in là, in quell’altro
angolo oscuro, una donna è stata aggredita, violentata, sequestrata,
assassinata, fatta sparire. Ma, suvvia, è solo una donna, o un’anziana, o
una giovane, o una bambina. I media, sempre in sintonia con quel che
succede, non chiedono il nome della vittima, ma se aveva addosso la
maglietta di una squadra o dell’altra. Ma non è tempo di amarezze, bensì
di festa, di brindisi, di f-i-n-e-d-e-l-l-a-s-t-o-r-i-a caro mio,
dell’inizio di un nuovo campionato. Fuori l’oscurità sembra il colophon
pittorico per la zona devastata. Sì, pensa vossia, come uno scenario di
guerra.
La
confusione richiama la sua attenzione. Vossia cerca di prendere le
distanze per comprendere l’impatto di questo gran trionfo della sua
squadra preferita… mh… era la sua squadra preferita? Non ha più
importanza, il trionfatore è sempre stato e sarà sempre la squadra
favorita dalle maggioranze. E, chiaramente, tutti sapevano che il
trionfo era inevitabile, e nelle tribune si susseguono le spiegazioni
logiche: “sì, non era possibile alcun altro risultato, solo quello della
coppa ubriacante che incorona i colori della squadra favorita”.
Vossia
cerca, senza riuscirci, di far suo l’entusiasmo che inonda le tribune, i
palchi, e sembra arrivare fino al punto più alto della costruzione,
dove ciò che si intuisce è un lussuoso appartamento, che riflette nei
suoi vetri polarizzati le luci, le grida e le immagini.
Vossia
percorre le tribune con difficoltà, la gente gremisce i corridoi e le
scale. Cerca qualcosa o qualcuno che non la faccia sentire straniero,
cammina come un extraterrestre o un viaggiatore del tempo che sia
atterrato in un calendario e una geografia sconosciuti.
Si
ferma un po’ dove due persone di una certa età guardano con attenzione
una specie di tavola. No, non si tratta di scacchi. Ora che vossia si è
sufficientemente avvicinato, vede che si tratta di un rompicapo con
soltanto alcuni pezzi inseriti e con la figura finale neanche abbozzata.
Una
persona sta dicendo all’altra: “Be’, no, non mi sembra finzione. Dopo
tutto, il pensiero critico deve partire da un’ipotesi, per quanto possa
sembrare campata per aria. Ma non deve abbandonare il rigore per
confrontarla e verificare se procede, o se bisogna cercare altri
appigli”. E, prendendo uno dei pezzi del rompicapo, questa persona lo
mostra e dice: “per esempio, può darsi, a volte, che il piccolo aiuti a
comprendere il grande. Come se in questa piccola parte potessimo
divinare o intuire la figura completata”. Vossia non ascolta ciò che
segue, perché i gruppi vicini gridano contro questa strana coppia e
zittiscono le loro parole.
Qualcuno le ha passato un volantino.
“Desaparecida”, si legge, e un’immagine di una donna la cui età vossia
non può determinare. Un’anziana, una donna matura, una giovane, una
bambina? Il vento le strappa di mano il volantino e il suo volo si
confonde con le serpentine e i coriandoli che annebbiano la vista.
E
parlando di bambine…
Una
bambina, piccola, di pelle oscura, dai vestiti stravaganti da quanto
sono colorati e adornati, guarda lo stadio, le tribune, le luci
multicolori, i sorrisi di vincitori e vinti, allegri i primi, maliziosi i
secondi.
La bambina ha un dubbio. Si intuisce dall’espressione del suo viso, dal suo sguardo inquieto.
Vossia
si sente generoso, alla fin fine vossia ha vinto… mh… ha vinto? Be’,
non importa.
Vossia si sente generoso e, sollecito, chiede alla bambina
cosa cerca.
La bambina le risponde: “il pallone”. E, senza girarsi a guardarla, continua a setacciare con lo sguardo la gran costruzione.
“Il pallone?”, chiede vossia come se la domanda venisse da un altro tempo, da un altro mondo.
La bambina sospira e aggiunge: “be’, magari lo ha il padrone”.
“Il padrone?”
“Sì,
il padrone del pallone, e dello stadio, e del trofeo, e delle squadre, e
di tutto questo”, dice la bambina mentre con le sue manine cerca di
abbracciare la realtà concentrata nel grande stadio.
Vossia
cerca di trovare le parole per dire alla bambina che quelle domande non
fanno al caso, o cosa, a secondo, ma allora vossia ricorda… o per
meglio dire non ricorda di aver visto il pallone. Nella sua mente appare
un’immagine sfocata, crede che a inizio partita, ci fosse la sfera con
le sue toppe marchiate dai “nostri amabili patrocinatori”. Non sa
collocarlo nemmeno nei gol segnati.
Ma
lì c’è la lavagna del punteggio, e la lavagna segna la realtà che
importa: il tale ha vinto, il tale ha perso. Nessun segnapunti indica
chi è il padrone né del segnapunti stesso né tantomeno del pallone,
delle squadre, delle tribune, delle “videocamere e microfoni”.
Inoltre,
il segnapunti non è un segnapunti qualsiasi. E’ il più moderno che
esiste ed è costato una fortuna. Include il VAR per aiutare i suoi
impiegati a sommare o conteggiare punti alla lavagna, e per le
ripetizioni istantanee o reiterate di quando “insieme abbiamo fatto la
storia”. E il segnapunti non segna i gol, ma le grida. Vince chi grida
di più, e allora chi ha bisogno del pallone?