venerdì 6 marzo 2009

Abbiamo bisogno di aiuto



Le testimonianza dirette dei profughi dal campo di Patrasso

La voce di Yasser sembra venire da un altro pianeta: “aiutateci, abbiamo bisogno di qualcuno che lotti per i nostri diritti”. Haji, il referente della comunità afghana nel campo-slum di Patrasso ci racconta della rivolta di lunedì scorso. Da due giorni, ormai, le migliaia di afghani di cui abbiamo raccontato alcune delle storie sono asserragliati dentro il campo. La polizia si tiene a distanza ma è ovunque. Loro hanno paura ad uscire, sono terrorizzati dagli uomini in divisa ma anche dalla popolazione greca che lo scorso due marzo si è unita ai poliziotti nella carica, completa di gas lacrimogeni, che dopo molte ore di guerriglia ha disperso la manifestazione spontanea di questi profughi privati di ogni diritto. Erano al porto, come ogni giorno nel tardo pomeriggio, cercando di imbarcarsi su una nave diretta in Italia, nella speranza di ottenere una protezione internazionale che in Grecia, contro ogni legge nazionale e comunitaria, viene del tutto negata. Anche se ai porti dell’Adriatico respingono quasi indiscriminatamente, non hanno altra scelta che continuare a provarci. È l’unico modo per uscire dal limbo, rischiare la propria vita per ritrovare una qualche forma di dignità di esseri umani. Quel pomeriggio, uno di loro era quasi riuscito a nascondersi dentro uno dei tir in partenza, ma qualcosa è andato storto ed è caduto. I testimoni raccontano che il mezzo pesante che era alle sue spalle invece di fermarsi ha accelerato. I suoi compagni lo hanno creduto morto, vedendolo riverso nel suo sangue e privo di sensi. La rabbia è esplosa e hanno iniziato a lanciare pietre contro il tir. Poi, in un attimo, è successo tutto. Sono arrivate le associazioni di solidarietà con i migranti di Patrasso, ma anche i gruppi organizzati che da sempre sono contro di loro. Gli scontri sono cessati solo a notte inoltrata. La Grecia, membro dell’Unione europea, viola tutti i giorni i diritti di questa gente. A settembre 2008 è stata addirittura formalmente sospesa la ricezione delle istanze di asilo. Eppure, ciascuno di questi giovanissimi ragazzi, molti sono minorenni e alcuni sono bambini, ha alle spalle una storia da inferno. Una storia, anzi, composta da tanti inferni. Le bombe e l’arruolamento forzato in Afghanistan, le violenze della polizia iraniana, la prigione turca, i centri di detenzione in Grecia, i respingimenti di massa dall’Italia. Il ragazzo investito adesso è in ospedale e dicono sia in coma. Nessuno, dei suoi compagni, però, ha potuto verificare di persona il fatto che sia ancora in vita. Venticinque tra gli afghani che si trovavano al porto quel 2 marzo sono stati arrestati e di loro non si ha più alcuna notizia.

L’intervista integrale a Yasser. [ audio ] (ita) [ audio ] (eng)

L’intervista a Haji, referente della comunità afghana del campo. [ audio ] (ita) [ audio ] (farsi)


Trascrizione dell’intervista a Yasser
Il mio nome è Yasser.
Ciao Yasser, ti ricordi di me? Ero a Patrasso qualche settimana fa...
Sì certo, mi ricordo...

Vorremmo che tu ci raccontassi che cosa è successo negli ultimi due giorni.
Potresti dirmi qualcosa su quello che è successo al Porto di Patrasso ma anche su che cosa sta succedendo adesso? Dove sei adesso?
Adesso io sono nel campo.

Cosa mi dici del campo in questo momento? Siete circondati?
C’è la polizia non è molto vicina ma è qui intorno. Il campo è circondato dalla polizia.

E loro non vi lasciano andare fuori?
E’ difficile per noi andare fuori.

Perché si stanno comportando in questo modo?
Non lo so ma penso che sia per l’incidente di qualche giorno fa. Da quando c’è stato l’incidente la polizia ha circondato il campo e noi abbiamo paura ad andare fuori perché la polizia è qui.
Puoi raccontarci qualcosa di più su quello che è successo due giorni fa al porto?
Sì, questo ragazzo stava cercando di salire sopra un camion, nascondersi, è arrivato un altro camion e lo ha investito. Sanguinava dalla sua bocca ed è stato colpito anche molto forte sulla testa. Dopo qualche minuto noi pensavamo che questo ragazzo fosse morto, in realtà poi è stato portato in ospedale e il dottore adesso dice che non è morto, però è in coma. Nessuno di noi però lo ha più visto, non siamo sicuri di quello che gli sta succedendo.

Ma perché voi vi siete arrabbiati così tanto in quel momento al porto?
Perché anche noi siamo essere umani, anche noi abbiamo dei diritti umani. Nessuno deve ucciderci in questa maniera e poi non è la prima volta. L’anno scorso un altro autista ha ucciso un altro ragazzo al porto. Ogni giorno la polizia al porto ci picchia e lo fa anche per strada, ma noi siamo esseri umani, abbiamo bisogno dei diritti umani.

Quindi è la normalità, la polizia si comporta così normalmente? E’ sempre violenta con voi?
Sì lo è. Ma adesso c’è anche il problema della comunità greca perché anche dei cittadini greci sono venuti l’altra notte al porto con la polizia per attaccarci.

Perché succede questo?
Io non lo so perché succede, non so perché sono arrabbiati con noi. Non facciamo nulla di male, non gli abbiamo fatto niente, semplicemente la sera proviamo ad entrare in porto. Eppure moltissime persone greche sono venute con la polizia quella notte per attaccarci mentre la polizia ci tirava addosso i gas lacrimogeni. Non erano una o due persone. Erano molte.

Potresti spiegare perché ogni notte voi cercate di raggiungere l’Italia passando per il porto di Patrasso? Qual’è il problema in Grecia per voi?
In Grecia per noi è una situazione difficilissima perché non è possibile ottenere l’asilo, non possiamo nemmeno avere un lavoro. Non possiamo fare niente e allora cerchiamo di venire in Italia per chiedere l’asilo, per trovare un posto dove stare.

Tu hai provato a chiedere asilo in Grecia?
Non io ma altre persone qui ci hanno provato, ma se chiedi asilo qui ti dicono solo che sei un bugiardo.

Cosa cambia se chiedi asilo?
L’avvocato ci ha spiegato che l’asilo lo danno meno dell’1% delle volte. La realtà è che qui è impossibile ottenere l’asilo politico.

Il primo giorno che sei arrivato in Grecia ti hanno rinchiuso dentro un centro di detenzione o no?
No io sono venuto direttamente a Patrasso, già lo sapevo che dovevo provare ad andare avanti nel mio viaggio.

Quindi ogni notte voi andate al porto e provate a nascondervi sopra i tir che partono per l’Italia?
Sì, tutte le notti.

Ma adesso dopo l’incidente che cosa credete che succederà a Patrasso?
Ancora non lo sappiamo. La polizia è qui e ci circonda ma nessuno di noi sa esattamente che cosa sta per succedere. Abbiamo paura per la nostra vita. E’ da due giorni che siamo asserragliati dentro il campo senza uscire.

Avete paura della polizia ma anche dei cittadini greci ormai?
Ognuno di noi sta ritardando l’uscita dal campo perché non sappiamo cosa può succedere. Adesso abbiamo paura anche semplicemente di andare per strada adesso.

Quanti anni hai tu?
Io ho 19 anni.

Qual’è l’età media nel campo?
Quasi tutti hanno meno di 20 anni.

Quanti siete adesso nel campo?
Più di mille.

Che cosa puoi dirci della vita nel campo?
La vita qui è pessima. Noi viviamo all’inferno.

C’è qualcosa che vorresti chiedere al governo greco e a quello italiano?
Al governo greco io non chiederei niente perché so che non ci aiuterà mai. Al governo italiano invece chiederei di aprirci le porte perché qui la vita è come in guerra. Gli direi che noi siamo rifugiati, non siamo venuti qui per fare del male a qualcuno, siamo venuti qui soltanto per vivere, per avere una vita migliore, per sopravvivere. Gli direi, per favore aprite le porte. Lo sapete come viviamo. In questi ultimi tempi molti giornalisti sono venuti qui e vi hanno raccontato che cosa succede a Patrasso. Non possiamo più vivere in questa maniera.

Hai voglia di raccontarci un po’ della tua vita? Di spiegarci perché sei un rifugiato?
Io sono un rifugiato perché nel mio paese c’è la guerra, ma nella mia situazione personale non è soltanto questo il problema. Io ho anche una storia personale diversa perché un giorno quando io sono tornato a casa ho trovato mia padre che aveva ucciso mia madre. A quel punto io ho ucciso mio padre. Tutta la mia famiglia è contro di me, non avevo altra scelta che scappare via.

Dentro il campo tutti voi avete delle storie personali così difficili?
Sì, tutti noi abbiamo storie così.

Ma tu hai provato a raccontare a qualcuno la tua storia lì in Grecia?
No, non ci provo nemmeno, soltanto due miei amici conoscono questa storia, non l’ho detto a nessuno.

Tu pensi che questa sera proverete di nuovo ad andare dentro al porto?
Io non andrò e come me anche molti altri qui al campo. C’è molta paura in giro. Se adesso la polizia ci arresta dopo l’incidente, chissà cosa ci farà...

Ma di solito cosa succede quando la polizia vi arresta al porto?
Ci portano al commissariato e ci lasciano lì 24 ore senza acqua né cibo.

Ma vi picchiano?
E’ normale che ci picchino, loro ci picchiano prima, loro urlano contro di noi, ci insultano, abusano di noi.

Grazie mille Yasser, ti promettiamo di far ascoltare le tue parole. Siamo con voi nella vostra battaglia per i vostri diritti.
Grazie, noi abbiamo bisogno di qualcuno che combatta per i nostri diritti, abbiamo bisogno di aiuto.

L’ultima domanda: voi state organizzando delle manifestazioni per i prossimi giorni?
Sì so che se ne stanno organizzando alcune ma non so ancora precisamente cosa faremo.

Ci sono organizzazioni greche che vi danno solidarietà?
Sì, sono venuti e ci hanno chiesto di fare una manifestazione con loro. Io non sono sicuro se la faremo, ma forse sarà la settimana prossima. Ci sono dei gruppi, non è che ci aiutino moltissimo, speriamo.

Tu pensi che sia importante fare una manifestazione in questo momento?
Sì io penso di sì, non so cosa pensino gli altri 1.000, ma io penso di sì.

Ma durante i disordini dell’altro giorno, tu c’eri?
Sono arrivato dopo 5 minuti e quando ci hanno lanciato i lacrimogeni c’ero. Hanno arrestato 25 persone del campo e noi adesso non sappiamo dove siano, nessuno sa più nulla di loro.

Ci sono anche dei minorenni?
Sì sicuramente ci saranno anche dei minorenni.

Trascrizione dell’intervista a Haji
Erano le 4 del pomeriggio quando un ragazzo che si chiama San e ha 17 anni ha provato a uscire dal porto salendo dietro a un camion. Ma è arrivato un altro camion ed è rimasto schiacciato fra i due mezzi. A questo punto i ragazzi che erano lì vicino se la sono presa con questi camionisti e sono iniziati gli scontri. I ragazzi hanno lanciato sassi sui vetri del camion e poi anche qualche greco si è messo a litigare con i ragazzi che protestavano e gli scontri si sono allargati ed è intervenuta la polizia coi gas. Quando ho visto questa situazione sono andato dai ragazzi con un mio amico greco e abbiamo promesso loro che noi saremmo andati a vedere come stava San che era stato ricoverato in ospedale. Siamo andati in 4 all’ospedale e abbiamo scoperto che il ragazzo era in coma e i medici volevano operarlo: non è stato quindi possibile vederlo. Sono passati quasi tre giorni e non sappiamo niente, nemmeno suo fratello ha potuto vederlo, i dottori dicono ancora che sia in coma e che devono operarlo perché ha ferite alla testa e alle braccia. Per quasi dodici ore è stata come una guerra contro i migranti da parte della polizia. In questa situazione un gruppo di fascisti ha provato ad incendiare il campo e tutta la gente dentro ha dovuto uscire perché la situazione era molto pericolosa.
Questa intervista è stata fatta da Basir ad Haji nel campo di Patrasso

Vedi anche:


Report dalla manifestazione del 20 dicembre al porto di Venezia
Come muore un bambino a Venezia. Ragazzino afghano di 11 anni morto per eludere i controlli delle polizia di frontiera (11.12.09)

Guerrero - Una semina di odio, un raccolto di rabbia

Speciale sull’uccisione di Raul Lucas e Manuel Pone Rosas

Nello stato del Guerrero l’uccisione di Raul Lucas e Manuel Pone Rosas alla fine di febbraio mette in luce la gravità della situazione. Operativi militari, sparizioni assassini che rendono la situazione sempre più drammatica.Vi proponiamo alcuni articoli e comunicati

Raúl Lucas: semina di odio, raccolto di rabbia
di Luis Hernández Navarro
La quinta volta è stata la fatale. Già in quattro occasioni Raul Lucas Lucia era sfuggito alla morte. Ma il passato 13 febbraio non ha potuto scappare. Quel giorno è stato arrestato ed è sparito con violenza. Tre giorni dopo è stato assassinato. I suoi resti sono apparsi otto giorni dopo. Il suo corpo aveva i segni della tortura e del colpo di grazia. La stessa sorte l’ha sofferta il suo compagno Manuel Pone Rosas.
Insubordinato da 10 anni, Raul viveva perseguitato dal potere. Nel 1999, poco dopo il massacro di El Charco, l’Esercito messicano l’aveva torturato e minacciato. Nel settembre 2001 è stato torturato dai militari nella suo comunità insieme ai sui fratelli e parenti. Il 18 ottobre 2006, dopo il passaggio dell’Altra Campagna, nella comunità mixteca di El Charco, aveva ricevo le minacce dei soldati. Il 15 febbraio 2007 è stato ferito da una pallottola nel collo durante un imboscata ch’egli era costata quasi la vita.
La quinta volta è stata la fatale. Lo scorso 13 febbraio Raul e Manuel stavano partecipando all’atto ufficiale per inaugurare la costruzione di un edificio scolastico nella città di Ayutla de los Libres, Guerrero, insieme ad altre 35 persone. Poco dopo l’una e mezzo sono arrivati tre personaggi con armi, gridando polizia. L’hanno colpito in testa, trascinandolo via dalla riunione e caricandolo in una camionetta Liberty nera che aspettava con il motore acceso e se lo sono portati via verso una destinazione sconosciuta.
Mezz’ora dopo, Guadalupe Castro Morales, moglie di Manuel, ha ricevuto una chiamata al suo cellulare dal telefono del marito. Quando ha risposto una voce maschile l’ha avvertita: “Non fare casino. Sta in silenzio o facciamo sparire tuo marito. Questo succede perché lui difende gli indigeni.” Non si è saputo più niente di loro fino al 21 febbraio quando sono stati ritrovati i suoi resti.
Raul Lucas Garcia e Manuel Ponce Rios erano indigeni, mixtecos, guerrernses e poveri. Raul era presidente della Organización Independente de Pueblos Mixtecos (OIPM) e Manuel ne era il segretario. L’organizzazione nata nel 2002 dalle comunità tra vallate e monti, ha la sua base nella “cabezera municipal “Ayutla de los Libres. Si dedica a difendere i diritti dei popoli indigeni della regione, a denunciare le violazioni dei diritti umani che soffrono e a gestire progetti produttivi e di benessere sociale.
La OIPM proviene dalla Organización Independiente de Pueblos Mixtecos y Tlapanecos (OIPMT), fondata nel 1984. Da quest’ultima è sorta anche l’ Organización del Pueblo Indígena Me’phaa, che attualmente ha cinque dei suoi membri reclusi nel carcere di Ayutla, che sono stati adottati come prigionieri di coscienza da Amnesty International. Tutte organizzazioni che lavorano con il Centro de Derechos Humanos della Montaña Tlachinollan.
Raul era della Comunità di Roca Colorada, nella regone mixteca di Ayutla de los Libres. Ha lottato per anni a favore delle comunità indigene. Quando è stato nominato Presidente del Comisariado di Coapinola ha difeso i boschi contro il taglio illegale di legname fatto da imprese che saccheggiavano la ricchezza della foresta senza permesso. Ha guidato con successo la lotta delle comunità mixtecas contro il Programa de Certificación de Derechos Ejidales-Comunales (Procede).
L’assassinio di Raul e Manuel è l’episodio più recente del racconto repressivo di El Charco. Sono le ultime vittime di una saga macabra che dura da 11 anni. La mattina del 7 giugno 1998, mentre dormivano nella scuola primaria Catarino Maldonado, 10 indigeni mixtecos e studenti della UNAM sono stati assassinati in maniera sommaria da un gruppo di soldati. I contadini appartenevano alla OIPMT. Il generale Juan Alfredo Oropeza Garnica, capo della 27 zona militare, era al comando dell’operativo. Ernesto Zedillo era allora presidente della Repubblica. Il governo cercò di presentare il massacro come uno scontro tra Esercito e guerriglieri.
La lista dei dirigenti indigeni regionali morti violentemente da allora è lunga. Tra gli altri ricordiamo Galdino Sierra Francisco, tlapaneco di Barranca de Guadalupe, membro della Comunidades Eclesiales di Base, assassinato nell’aprile 2000. Donaciano González Lorenzo, ucciso nel 2001. Andrés Marcelino Petrona, dirigente mixteco di El Charco e membro del Comité de Defensa de los Derechos Humanos, ucciso il 26 agosto dello stesso anno.
In una delle ultime denunce, Raul Lucas raccontò come militari e polizia siano entrati in almeno 20 delle 28 comunità mixtecas di Ayutla. Ha raccontato che nei villaggi di La Fátima e Vista Hermosa i soldati portano dolci ai bambini però poi domandano loro se hanno visto guerriglieri o narcos. Raccontava anche come in queste incursioni circa 100 militari hanno anche rubato alcuni raccolti e ad altri hanno cercato di metterli in connessione con organizzazioni come ERPI e EPR oppure, nel peggiore dei casi al narcotraffico.
Come Presidente della OFPM, Raul ha documentato nel 2008 quattro casi di violazione ai diritti umani attuati con furti, detenzioni illegali etc … effettuati da militari nei villaggi mixtecas e tlapanecas. Su questi casi furono presentati cinque interrogazioni di fronte alla CNDH e alcune denunce penali. Gli abusi cessarono.
Gli omicidi di Raul Lucas e Manuel Ponce Ríos sono un passo avanti nella guerra delle intimidazioni contro le comunità indigene della zona Montaña e la Costa Chica. Due uomini degni e valenti, difensori dei diritti umani sono stati selvaggiamente eliminati. Nella regione i militari hanno seminato odio, violenza, morte, abusi, furto di raccolti. Hanno dato benzina al fuoco. Che nessuno si stupisca quando ci sarà il raccolto dell’odio.

Articolo di Magdalena Gomez
Comunicato sulla morte di Raul e Manuel del Autoridades del Municipio Autónomo de San Juan Copala
Comunicato Centro de Derechos Humanos Tlachinollan
Articolo sul sequestro dei dirigenti indigeni

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!