Intervista alla fisolofa Judith Revel sulle manifestazioni del 19 marzo
Tre milioni di persone in piazza contro le politiche del presidente Sarkozy. La crisi si fa sentire e i francesi non stanno in silenzio. Per la seconda volta, nel giro di due mesi, 219 manifestazioni bloccano il paese. Intervista a Judith Revel filosofa, collaboratrice del "Centre Foucoult" e docente universitaria
Partiamo dall’immagine di questa giornata che più ti ha colpito?
Rispetto alla giornata del 19 marzo, credo chela cosa più strepitosa, oltre alla questione numerica, è l’estrema novità della composizione sociale che è scesa in piazza. A Parigi eri di fronte ad un enorme corteo, composto da un enorme massa di gente: da coloro che hanno un posto a tempo indeterminato a coloro che faticano ad arrivare alla fine del mese, gli studenti, i lavoratori del pubblico e del privato. Tre milioni di persone unite per battersi per la medesima cosa: un libero accesso all’economia dei saperi. Una novità per la Francia è stata proprio la presenza dei settori della pubblica amministrazione, della sanità e dei privati con tutte le piccole e medie imprese che stanno chiudendo.
In Francia è raro che al fianco di una singola identità corporativa del settore pubblico vi possano essere altre componenti.
Quello che si è visto è che in piazza c’erano varie componenti del pubblico e del privato. Il dato che emergente è che la falsa opposizione tra pubblico e privato, non può più tenere. Siamo molto al di la del pubblico e del privato. Il settore del privato ha sicuramente prodotto dei disastri, ma che il pubblico è soltanto gestione dello stato non regge più.
La gente era in pizza per dire: “la vita è mia, i saperi sono miei, la sanità, i trasporti, il lavoro è mio!”. Per dire in sostanza che tutto appartiene alla gente e deve essere ridato. Questa determinazione devo dire che in Francia è la prima volta che la vedo .
Questo è il secondo sciopero che paralizza la Francia e in queste settimane abbiamo visto anche la ripresa dei movimenti studenteschi, qual’è ilo clima?
Partendo dagli studenti devo dire che tutto mi sembra molto diverso rispetto allo scorso anno in cui eravamo di fronte ad un realtà in cui l’unica modalità pratica di azione politica era il blocco.
Ora, i francesi hanno poca esperienza dei movimenti in generale e vanno subito al blocco. Questa cosa aveva avuto come risultato di paralizzare l’università e di esaurire le forze degli studenti che tenevano i picchetti. E’ evidente che quando si tiene un blocco 24h su 24h alla fine non si produce più niente. Quindi c’era stata una scarsità di discorsi di rivendicazione politica. Soprattutto mancavano due enormi componenti: quella del precariato universitario e quella degli insegnanti.
In quel caso l’assenza di reazione di queste componenti è stata palese e anche molto pesante politicamente.
Oggi siamo invece di fronte a tutte quelle componenti che vanno dai presidenti delle università (che in Italia sono i rettori) fino al personale tecnico amministrativo. Questo è un primo punto che va analizzato. Dal 29 gennaio scorso l’altro elemento che si è aggiunto elemento è anche una radicalizzazione delle forme di protesta. All’università, stiamo entrando alla settima/ottava settimana di sciopero. La dinamica del blocco, che aveva caratterizzato il precedente ciclo di lotte, ha lasciato il posto ad una dinamica di cogestione della didattica, che sullo sfondo vede una sospensione totale di tutta la catena organizzativa degli atenei.
Sicuramente quanto accaduto in Guadalupe con i 42 giorni di sciopero, che hanno messo alle strette il governo e le industrie, costrette a concedere i 200 euro di aumento di stipendio per tutti hanno dato slancio alle dinamiche di movimento universitario, che hanno preso quella lotte a simbolo, introducendo la consapevolezza di questa enorme e nuova soggettività o composizione di classe, che vediamo esprimersi in questi giorni.
Spiegaci meglio le particolarità di questa nuova soggettività.
La Francia è un paese strano perché ha una lunga tradizione di un servizio pubblico di welfare, cosa che per esempio è assente in Italia. Per cui in realtà per un francese il servizio pubblico è un diritto, non è un favore. Così è stato per decine di anni, producendo un attaccamento al pubblico e all’impegno statale che è molto superiore all’Italia. Questa fede nel pubblico ha però spesso bloccato gli spazi di mobilitazione.
Oggi,questo non vuol dire che bisogna continuare a chiedere più servizi (alloggi, scuole, trasposti, sanità..), però quello che è ormai diventato evidente è che l’opposizione tra pubblico e privato è ormai una falsa opposizione. Chi ci frega oggi facendoci pagare questa crisi, che non è la nostra, sono ovviamente la banche, i sistemi privati e la finanza, ma è anche lo stato, perché è la sua stessa struttura a permettere in questa situazione. In Francia per la prima volta, non c’è solo una sfiducia, ma una nuova consapevolezza politica della necessità di oltrepassare la figura del pubblico.
Ad esempio nelle università per la prima volta si sta facendo strada il ragionamento, che questa deve essere della comunità universitaria, cioè, di tutti quelli che la fanno vivere rendendola capace di produrre saperi, che appartengono a chi li produce. Quindi non è con questi che la crisi può essere pagata.
Questi sono discorsi che in Italia circolano, molto più che in Francia, ma che rappresentano qui una novità.
Una differenza tra Italia e Francia la fanno i numeri di piazza, perché?Effettivamente è così ed è una cosa molto strana. In Italia assistiamo ad una sorta di permanenza dei movimenti. A parte la parentesi degli anni 80 che, è stata pesante per tutti, sono sempre i movimenti ci sono sempre stati stati, certo con varie intensità, ma ci sono sempre stati ed hanno prodotto una loro storia in Italia.
In Francia questa storia non c’è, però paradossalmente quando i movimenti partono, partono sul serio.
Lo abbiamo visto per il Cpe. Dopo la rivolta nelle Banlieu,era evidente che se non lo avessero ritirato, sarebbe scoppiato tutto. Niente poteva fermare quello che si era messo in moto. La domanda che tutti ci facciamo, davanti a queste esplosioni, è come mai è incominciato?
Non si sa mai quando incomincia. In mezzo però, a quelle enormi esplosioni, in Francia assistiamo a grandi vuoti. In Italia mi pare che lo schema sia il contrario. Una permanenza dei movimenti molto vivace, forte e lunga accompagnata da un qualcosa che è capace di scavare in profondità e non mollare. Per esempio l’Onda o meglio ancora i No dal Molin.
Questa forma di permanenza forse è meno vistosa ha effetti di costruzione di soggettivazione politica che sono fortissimi e che forse in Francia ancora mancano.
Siamo di fronte ad una accumulazione delle lotte che in Francia non c’è.
Quando da voi, a giungo, finirà la cassa integrazione credo che ci sarà di aver paura, ci sarà da soffrire e credo che in quella fase si vedrà anche un’ esplosione di sommosse e movimenti.
In Francia al contrario, anche se pochi, ci sono gli armonizzatori sociali, ma non c’è la famiglia. Al diminuire degli armonizzatori non vi è quindi quella dimensione di cuscinetto “ familiare” che in Italia ha dato vita a quella dimensione “dell’arte di arrangiarsi”. Da noi quando uno perde il lavoro o la casa è solo. Il livello di violenza di questa crisi, nonostante quel poco di welfare che ci rimane, mi sembra più duro in Francia. Questo, probabilmente, spiega la mobilitazione attuale.
C’è un livello di disperazione che io non ho mai visto così sviluppato. Non è più il marchio delle figure fragili, ma riguarda tutta la classe media.