martedì 24 marzo 2009

India, Nano rosso sangue

La sanguinosa repressione delle proteste dei contadini indiani contro la fabbrica della Nano

La casa automobilistica indiana Tata ha lanciato la vettura più economica al mondo: la Nano, che in India verrà venduta a soli 1.500 euro. Tra un paio d’anni sbarcherà anche sul mercato europeo, ma costerà 5 mila euro perché equipaggiata per rispondere alle norme di sicurezza e inquinamento del Vecchio Continente."Grazie alla Nano, anche i poveri dell’India e del mondo intero potranno permettersi un’auto", ha annunciato raggiante il presidente della compagnia, Ratan Tata. Una prospettiva ambientalmente terrificante, visto che la Nano base ha un motore a benzina altamente inquinante.L’unico vero scopo del signor Tata è fare grandi profitti giocando sui grandi numeri del mercato indiano. Purtroppo per lui, però, la domanda potrà essere pienamente soddisfatta solo tra almeno un anno. La produzione infatti sarà molto limitata per il 2009 a causa dei ritardi nella costruzione della fabbrica nel Gujarat, dove la Tata ha dovuto trasferire lo stabilimento inizialmente impiantato nel Bengala Occidentale, dove nel 2007 i contadini locali si erano ribellati all’esproprio dei terreni. Una protesta repressa con una violenza inaudita dalle autorità locali.Un anno fa la nostra rivista aveva pubblicato un reportage su questi drammatici eventi, ignorati dalla stampa italiana per non creare imbarazzi alla Fiat...

Un anno fa a Singur, distretto di Hoogly, nello stato del Bengala Occidentale, viene trovato in una fossa, semicarbonizzato, il cadavere di Tapasi Malik, una giovane contadina. La polizia statale si affretta ad archiviare il caso come ‘suicidio’. Tapasi si era distinta nella lotta contro gli espropri dei terreni richiesti dalla multinazionale indiana Tata Motors, che a Singur pretende mille acri per impiantare una fabbrica di utilitarie a basso costo con la collaborazione della Fiat.
Come atto di terrorismo contro la resistenza dei contadini, la giovane è stata sequestrata di notte, strangolata e bruciata. Prima di essere uccisa, Tapasi è stata violentata in gruppo dai suoi assassini. Per questo crimine la polizia federale ha fatto arrestare il responsabile locale del Partito comunista indiano marxista (Cpm) che è al potere in questo stato. L’uomo non è nemmeno stato sospeso dal suo partito. A Nandigram, distretto di East Medinipur, sempre in Bengala Occidentale, la notte tra il 6 e il 7 gennaio 2007 squadracce del Cpm assaltano con bombe e armi da fuoco i contadini che difendono i loro campi dal tentativo d’esproprio a favore della multinazionale chimica indonesiana Salim. I morti accertati sono tre, ma molte persone risultano disperse. Alcuni contadini hanno denunciato che in precedenza erano stati marchiati a fuoco sulle mani come ‘nemici del Cpm’. La forte resistenza dei contadini e la loro esasperazione hanno portato all’espulsione dai villaggi di Nandigram dei quadri del principale partito nel governo bengalese.
Ne è nato un conflitto che trascende gli interessi economici, che vanno dallo sviluppo industriale alle prebende ottenibili dai quadri del Cpm e, in subordine, dalle loro squadracce. Un conflitto per stabilire chi gestisce il potere sul territorio. Questo conflitto, inizialmente tra i contadini di Nandigram da una parte e il Cpm dall’altra, si è arricchito di nuovi protagonisti. Innanzitutto il Trinamool Congress Party, una scheggia bengalese staccatasi dal Congress Party e che contesta il potere al fortissimo Cpm. Poi gli eredi del movimento naxalita che dal 1967 per circa sei anni oppose braccianti, contadini poveri e popolazioni tribali ai poteri politici centrali e locali (compresi i governi di sinistra del Bengala Occidentale). Il bilancio della repressione fu di 10 mila morti e lo sterminio di pressoché tutti i dirigenti naxaliti. Ma è un movimento che, oltre ad aver sostanzialmente vinto nel confinante Nepal, è da tempo in ripresa anche in India, diviso in due rami: da una parte i partiti marxisti-leninisti, che sono usciti dalla clandestinità (e che da noi potrebbero forse essere definiti di ‘sinistra radicale’), dall’altra i movimenti maoisti che praticano la lotta armata controllando migliaia di villaggi. Apertamente appoggiato dal Trinamool Congress Party e implicitamente dai Naxaliti, si è formato il Comitato di resistenza contro lo sfratto dalle terre, che coordina le lotte contro gli espropri. Recentemente si è inserito anche un terzo incomodo: il fondamentalismo islamico.
Nandigram ha una maggioranza di popolazione musulmana. Tuttavia non ci sono mai stati problemi comunitaristici e i contadini musulmani e indù si sono uniti strettamente per combattere gli espropri. Tanto è vero che l’accusa del Cpm, per giustificare la strage di gennaio, che a Nandigram operavano fondamentalisti musulmani non è stata recepita nemmeno dai suoi alleati del Left Front. Ma alla fine dell’anno scorso si è fatta viva una componente fondamentalista del tutto esterna al movimento di resistenza contadina, mettendo a soqquadro Calcutta con slogan che mischiavano una vaga difesa dei contadini musulmani di Nandigram con l’attacco al governo in quanto reo di aver dato asilo politico alla scrittrice Taslima Nasreen, in esilio dal Bangladesh perché rincorsa da una fatwa per aver "offeso" l’Islam. I tentativi del Cpm di riprendere il controllo politico di Nandigram raggiungono un picco il 14 marzo 2007 quando su pressione del governo la polizia statale cerca di occupare i villaggi. Respinta dalla popolazione con lanci di oggetti, la polizia decide di sparare ad altezza uomo (coadiuvata in modo documentato da elementi delle squadracce del Cpm). I morti sono 14 e i feriti 150.
Le denunce di stupri compiuti da singoli o da interi gruppi di poliziotti aumentano nei giorni seguenti. Medha Patkar, la nota attivista sociale indiana, visita nell’ospedale di Nandigram una bambina di 10 anni che è stata seviziata con il lathi (il manganello di bambù in uso nelle forze di polizia indiane). Ma il primo ministro bengalese Buddhadeb Bhattacharjee, detto il ‘Buddha Rosso’, ribadisce che non ha niente di cui discolparsi. Non è dello stesso parere il governatore del Bengala Occidentale, Sri Gopalkrishna Gandhi, nipote del Mahatma, che dopo aver dichiarato di provare "un orrore agghiacciante" per i fatti di Nandigram ed essere andato a visitare i feriti, censura l’operato del Left Front (il Fronte delle Sinistre capeggiate dal Cpm che governo questo stato) domandandogli "a quale pubblico interesse giovi lo spargimento di tutto questo sangue umano". La domanda di Gopalkrishna Gandhi intende mettere il governo delle Sinistre con le spalle al muro: infatti il Left Front, per poter espropriare i contadini, sta utilizzando una legge coloniale britannica (il Land Acquisition Act del 1894 ) che prevede l’esproprio a fini di ‘pubblica utilità’ e non, come in questo caso, per dare terreni a imprese private.
Ma nemmeno la strage di marzo è riuscita a piegare i contadini. Perché? La legge prevede un indennizzo a prezzi di mercato per i proprietari. Punto e basta. Ma moltissimi contadini proprietari sanno che il loro futuro non sarà per nulla roseo se passano le requisizioni. Singur e Nandigram sono terre fertilissime che danno dai tre ai cinque raccolti l’anno, di vari prodotti. Le terre che essi potrebbero acquistare in alternativa, con molta verosimiglianza non potranno essere della stessa qualità, sia per la crescente scarsità di terre da mettere a coltura (se non a costi esorbitanti), sia per la spinta speculativa del prezzo dei terreni dovuta alla riconversione della loro destinazione d’uso. Inoltre la maggior parte dei contadini non può nemmeno esibire un titolo di proprietà: le donne, innanzitutto, pur potendo per legge ereditare, sono solitamente costrette dai pregiudizi patriarcali della loro società a rinunciare a favore dei membri maschi della famiglia; poi i braccianti, che ovviamente non hanno nessun titolo di proprietà, così come i fittavoli e i mezzadri. Senza contare i proprietari non registrati a causa delle lacune del catasto indiano e chi si guadagna da vivere con le attività ancillari, come il piccolo artigianato e il piccolo commercio. Decine di migliaia di famiglie vedono perciò come destino più probabile quello di andare a ingrossare le baraccopoli di Calcutta e delle altre grandi città indiane. Le ricadute occupazionali dei nuovi insediamenti industriali sono ben esemplificate dalle recenti dichiarazioni di Debasis Ray, responsabile comunicazioni della Tata Motors, riguardo alle possibili assunzioni alla Tata di Singur dei contadini rimasti disoccupati a causa dell’esproprio: "Per ora non siamo in grado di fare promesse, ma di sicuro alcune persone di quell’area potranno essere assunte".
Lo scorso novembre il Cpm decide che deve a tutti i costi ‘risolvere’ la questione Nandigram. Dopo alcune riunioni interne dove si lanciano gli slogan ‘uccidi o vieni ucciso’, ‘noi o loro’, il partito invia le sue squadracce alla riconquista dei villaggi di Nandigram. Nessuno ancora sa cosa sia successo. A lungo è stato impedito ai giornalisti di accedere alla zona. I pochi che ci sono riusciti hanno letteralmente testimoniato che "c’era sangue da tutte le parti". Alla fine, per sedare gli scontri, il governo federale ha deciso di inviare la Central Reserve Police Force, che peraltro si è lamentata della non collaborazione della polizia locale. Gli attivisti del Comitato di resistenza contro lo sfratto dalle terre non osano tornare nelle loro case per paura di ritorsioni. E come al solito la violenza sulle donne si è rivelata una pratica regolare. Nandigram è ‘riconquistata’. Ma ormai il danno politico per il Cpm e il Left Front è fatto. Il 14 novembre 2007, Calcutta ha ospitato un’enorme manifestazione di protesta di intellettuali, registi, scrittori, commediografi, docenti, cioè di quella intellighenzia progressista che fin dai tempi del Raj britannico contraddistingue la capitale del Bengala come la città-laboratorio dell’India intera.
L’India contemporanea ci viene presentata in continuazione come un’occasione da non perdere per i nostri investimenti industriali, commerciali, finanziari e nei servizi. Assieme alla Cina, l’India è il paese in cui tuffarci per condividere assieme alla sua dominante classe media le gioie di un crescente sviluppo che in Occidente invece ristagna. Per molti versi è così. E tuttavia il quadro è largamente incompleto e parziale. Se la classe media indiana rappresenta circa 270 milioni di persone, le statistiche ufficiali del 2007 parlano di 836 milioni di persone che vivono con meno di mezzo dollaro al giorno. Lo sviluppo indiano, come avviene in tutto il mondo, è fortemente polarizzato, disarticola assetti sociali, mina le possibilità di esistenza di milioni di persone, spreca risorse, foreste, acqua, terreno agricolo. In una società dove la maggioranza della popolazione vive di agricoltura, i piani di conversione di milioni di acri ad usi non agricoli (impianti industriali, strade, infrastrutture, edilizia) saldano la devastazione del territorio a quella sociale per la gloria di uno sviluppo di cui beneficeranno i pochi e che emarginerà i molti. Questi piani sono parte di una guerra di ‘autocolonializzazione’, come è stata definita recentemente dalla scrittrice Arundhati Roy. Una guerra che non può più essere messa sotto silenzi. Nel Bengala Occidentale, il 2007 è stato caratterizzato da un violento conflitto tra contadini e governo del Left Front (Fronte delle Sinistre), capeggiato dal Partito comunista indiano, che ha ammesso esplicitamente di considerare conclusa la stagione delle riforme agrarie e di puntare tutto, in chiave capitalistica, su industrializzazione e terziario. Una chiave per cui l’agricoltura contadina è vista come una sorta di residuo semifeudale destinato a scomparire, con le buone o con le cattive. E le cattive significano bastonate, sevizie, stupri e massacri.
E in Italia, coinvolta in questa vicenda tramite la Fiat, cosa si dice di queste violenze? Silenzio assoluto. Il responsabile comunicazione del gruppo Fiat, sollecitato ad esprimersi sui fatti di Singur, ha risposto: "Da dove arrivano (le auto) e come vengono fatte non ci riguarda". Possiamo azzardare che questa dichiarazione non sembra proprio in linea con gli impegni di ‘responsabilità sociale’ sottoscritti dalla Fiat. Ma in Italia si ragiona per sillogismi: denunciare e criticare il governo del Bengala Occidentale vuol dire criticare i nostri investimenti e accordi di business bengalesi. Criticare i nostri investimenti e accordi di business bengalesi, vuol dire criticare la politica del nostro establishment economico e del governo. Conclusione: non si può fare. Semplicemente non c’è lo spazio per farlo.
Da noi deve andar di moda la ‘Shining India’, quella del boom economico, quella del software avanzato. Da noi deve farsi strada l’idea di un’India con cui concludere affari o anche accordi culturali che tengano però alla larga le decine di migliaia di intellettuali che protestano in nome della democrazia. D’altronde, non è forse l’India ‘la più grande democrazia del mondo’. E allora cosa c’é da protestare?Ci è richiesto di recepire unicamente un’immagine dell’India che, soprattutto, tenga ben lontano da noi lo spettro inquietante delle centinaia di milioni che non ce la fanno, delle donne stuprate e a cui tagliano i seni, delle decine di milioni di tribali con la vita devastata dagli espropri, dalle violenze e dalle miniere d’uranio a cielo aperto. Ma ciò che è più importante è evitare che le persone si accorgano che lo sviluppo indiano è lo specchio, non deformante ma fedele, della deformità del nostro stesso sviluppo.
Scritto per Peacereporter da Piero Pagliani

domenica 22 marzo 2009

Turchia: Un milione in piazza a Diyarbakir, per il Newroz e per sfidare Ankara

di Orsola Casagrande
Se le celebrazioni del Newroz, il capodanno kurdo, dovevano essere lette anche come indicazione di voto alle prossime amministrative (in Turchia si vota domenica prossima), allora sul risultato non ci sono dubbi. Un milione di persone sono scese in strada ieri a Diyarbakir per festeggiare. Un'immensa manifestazione, che è da leggere anche come un messaggio di sostegno al Dtp, il partito della società democratica che porta avanti, tra arresti, censure, processi, le istanze dei kurdi. Ma soprattutto la richiesta di dialogo. Un dialogo che porti a una soluzione negoziata del conflitto che dal 1984 insanguina la Turchia. “Il popolo kurdo - ha gridato Leyla Zana - è innamorato della pace, non delle armi”. Leyla Zana, che in carcere ha passato dieci anni per aver pronunciato in kurdo in parlamento (da rappresentante eletta democraticamente dal popolo) parole di fratellanza, oggi ribadisce quello che disse quasi vent'anni fa, “noi vogliamo la pace”. Nel suo discorso davanti a una folla come da anni non si vedeva, tra migliaia di bandiere, e i colori del Kurdistan, il rosso, il giallo e verde, Ahmet Turk, il presidente del Dtp, ha ribadito che la libertà e la pace per questo paese “passa anche attraverso la pace di Abdullah Ocalan”, il leader del Pkk che da dieci anni si trova, unico detenuto, rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Imrali. Un'isola fortezza da dove il presidente del partito dei lavoratori del Kurdistan ha mandato un messaggio al suo popolo tramite i suoi avvocati. In particolare Ocalan ha parlato della conferenza di pace di cui si discute sempre più insistentemente. La conferenza potrebbe tenersi nel Kurdistan iracheno già a fine aprile o maggio. La proposta di una conferenza che riunisca le organizzazioni kurde delle quattro parti in cui il Kurdistan è diviso e partiti e governi dei quattro paesi (Turchia, Iran, Siria e Iraq) è stata avanzata inizialmente proprio dal Dtp. I kurdi iracheni l'hanno fatta propria e rilanciata. Il presidente iracheno, Jalal Talabani ha parlato di data imminente per la conferenza lasciando intendere che si aspettava solo la risposta dei rappresentanti del Pkk. In realtà quello che lo stesso Ocalan ha ribadito nel suo messaggio è che non ci possono essere precondizioni per nessuno. Come il processo di pace nordirlandese insegna, se ci siede attorno al tavolo tutte le parti in causa devono avere parità di diritti e trattamento. Nel caso specifico kurdo, così come fu per l'Ira, si chiede che il Pkk deponga o consegni le armi, come precondizione per sedere al tavolo delle trattative. Ma è evidente che questa imposizione non fa che bloccare qualunque avvio di un qualunque processo di dialogo. Intanto la campagna elettorale per le amministrative è entrata nella sua ultima settimana. Abdullah Demirbas, candidato sindaco per il distretto di Sur (uno dei distretti di Diyarbakir) era già stato sindaco di Sur. Ma è stato destituito dopo aver pubblicato anche in kurdo, oltre che in turco, arabo, inglese materiali informativi sui servizi offerti dal comune. Contro di lui è stato aperto un processo e lui è stato destituito. Oggi si ricandida e ribadisce che se sarà eletto continuerà a pubblicare anche in kurdo il materiale del comune. “Il partito del premier di Erdogan - dice Demirbas - ha cercato di delegittimarci, ma il popolo kurdo dirà la sua alle urne”. Demirbas sottolinea i rischi di brogli alle elezioni. Ma questa consultazione dimostrerà “se a essere premiato sarà l'approccio dello stato, amami o lasciami - come lo definisce - o l'approccio dei kurdi, ama, vivi in pace e in democrazia”. Demirbas sottolinea anche il doppio standard usato dal governo sulla lingua e le trasmissioni in kurdo. Da una parte c'è la televisione di stato in kurdo, aperta per “la propaganda dell'Akp”, dall'altra c'è “la quotidianità di persone processate perché parlano in kurdo”.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!