di Lucia Tozzi*
Cantieri sterminati, torri altissime, luci psichedeliche: lo scenario è quasi identico a Dubai e a Beijing, i due epicentri mondiali della crescita urbana, che convogliano un’energia progettuale frenetica in milioni di metri cubi reali. Sono due modelli di espansione opposti – uno frutto della pianificazione comunista e l’altro della totale assenza di regole – ma fondati entrambi sull’autoritarismo dei governi e su immensi flussi di denaro. Nessuna rivendicazione democratica sui processi di trasformazione del territorio, nessun attrito ha frenato l’ascesa del Real Estate in questi luoghi, diventati in meno di dieci anni un mito irresistibile per gli immobiliaristi – ma anche per gli economisti, gli architetti, i semplici turisti – di tutto il mondo. I due grandi interpreti dello schizofrenico movimento di attrazione e repulsione occidentale di fronte a questo mix di kitsch, vitalità esuberante e regime dittatoriale sono Mike Davis e Rem Koolhaas, che da anni monopolizzano il dibattito scontrandosi da posizioni in apparenza molto nette: la condanna neomarxista e l’esaltazione postmoderna. Paradossalmente però il tono apocalittico delle invettive di Mike Davis, che ritraggono queste città come maledette Disneyland di lusso, capitali del riciclaggio e dei finanziamenti al terrorismo, popolate da affaristi e puttane ma sicure come la Svizzera, contribuisce molto più degli argomenti culturalisti e politically uncorrect di Koolhaas al fascino verso un Oriente che non ha nulla di esotico, ma è pura incarnazione di potenza. Questo mito che riunisce la freshness della conquista del West ai vizi più opulenti di Babilonia è l’esito di una rivoluzione in due tempi che ha sconvolto i rapporti tra economia e città. Negli anni Settanta la rendita fondiaria, fino ad allora considerata il peso morto del capitalismo, comincia a essere integrata nel mondo della finanza: da fonte di reddito passiva diventa a poco a poco uno dei principali motori di ricchezza sui mercati finanziari e comprensibilmente innesca profondi cambiamenti nel governo dello sviluppo urbano. Alla fine degli anni Novanta esplode la bolla della New Economy dando inizio al decennio trionfale del Real Estate, padrone incontrastato delle borse e delle città proprio nel momento in cui la popolazione mondiale inurbata supera numericamente quella rurale. Ma Europa e Stati Uniti, incubatori storici della rivoluzione, non hanno abbastanza vigore per svilupparla a pieno: infiacchiti dalla scarsa liquidità, rallentati dalle regole complesse della democrazia, dalla libera informazione, dal Welfare State che non ne vuole sapere di scomparire, da tessuti urbani obsoleti, ricevono un colpo mortale con l’11 settembre, quando gli investitori stranieri decidono di ritirare i capitali dall’Occidente e investirli nel proprio paese. Miliardi piovono su Dubai, mentre Bush e i Chicago boys nel tentativo di stare al passo inaugurano una propaganda senza risparmio di mezzi a favore della proprietà privata della casa. Per fare impennare il mercato immobiliare vengono varate tutte quelle leggi su mutui e prestiti bancari che sono all’origine della grande crisi finanziaria di oggi.
Per capire fino in fondo qual è la posta in gioco di questa crisi bisogna andare a Dubai. Gli esperti dicono che il sistema finanziario si rigenererà, ma a guidarlo non sarà più il settore immobiliare, bensì l’alimentare. È una notizia sconvolgente, ma in occidente nessuno sembra prendersene troppo cura. La cronaca del tracollo delle borse e dei salvataggi statali ha offuscato le analisi sugli effetti di questo spostamento. Nelle metropoli occidentali i cantieri sono rallentati da un pezzo, ma i valori di mercato hanno oscillazioni lievi: un metro quadro a Manhattan o a Londra costerà in fondo sempre cifre astronomiche. Se si fermano le gru a Dubai lo scenario è catastrofico: l’80% della popolazione, composta da stranieri puramente attratti dalla velocità degli affari e dal lavoro, è pronta a volatilizzarsi. I milioni di turisti che vengono a vedere il cantiere polveroso della futura capitale del lusso non avranno alcuna ragione di trascinarsi in questo buco bollente. Com’è noto, il petrolio è in via di esaurimento. Ma soprattutto, ad andare in rovina sarebbe l’idea ormai quasi realizzata che si possono costruire città grandiose ovunque, anche in luoghi dove non ha nessun senso costruirle. Città astratte, virtuali, agglomerati di proprietà private che hanno scarsi legami con la funzione abitativa, servono solo come supporto alle transazioni finanziarie. Arcipelaghi separati, protetti, estranei alla legge comune di un qualsivoglia stato, in cui la proprietà è garanzia di regole autonome. Dubai non è infatti un caso isolato, è un paradigma che ha prodotto centinaia, migliaia di nuovi progetti nei deserti sauditi, africani, in India, in Russia, in Kazakistan, in Siberia, e sta rimbalzando anche in Occidente. L’eventuale crollo di questo modello non affosserà probabilmente l’economia della regione - almeno finché gli altri Emirati continueranno a succhiare il petrolio e si continuerà a riciclare danaro – ma l’idea orgogliosa, manipolatrice, magniloquente di urbano che ha espresso in questi anni. Le città dell’area petrolifera torneranno all’insignificanza che le ha sempre connotate, mentre città promiscue, pianificate, stratificate avranno più chances di incarnare l’energia metropolitana.
Saranno le città cinesi, forti della loro popolazione omogenea e delle strategie a lungo termine, a prevalere, o l’informale degli slum indiani e sudamericani? Esiste invece una chance che torni in auge l’idea di uno spazio urbano condiviso, di un territorio comune, di una politica pubblica dell’abitare e dei servizi?
* (Napoli, 1974) una studiosa di fenomeni urbani. Vive a Milano. Collabora a il manifesto, Specchio+ de La Stampa e Arquine. È autrice di Microrealities (2006) e ha curato insieme a Stefano Boeri e Stefano Mirti Geodesign (Abitare Segesta, 2008)
venerdì 3 aprile 2009
CRIMINI DI GUERRA A GAZA: bruciati a morte dal fosforo bianco.
Testimonianze di B'Tselem.
Uccisi dalle fiamme nella loro casa bombardata dall’esercito – dalla voce di Ghada Riad Rajab Abu Halima, 21 anni.
Lo scorso 29 marzo, dieci settimane dopo aver fornito la propria testimonianza a B’Tselem, Ghada Abu Halima è morta in un ospedale egiziano per le ferite da contatto col fosforo bianco.
Uccisi dalle fiamme nella loro casa bombardata dall’esercito – dalla voce di Ghada Riad Rajab Abu Halima, 21 anni.
Lo scorso 29 marzo, dieci settimane dopo aver fornito la propria testimonianza a B’Tselem, Ghada Abu Halima è morta in un ospedale egiziano per le ferite da contatto col fosforo bianco.
Fino alla settimana scorsa, vivevo con mio marito Muhammad, di 24 anni, e le nostre due bambine, Farah (3 anni) ed Aya (6 mesi) nel quartiere di as-Sifa, a Beit Lahiya. Abitavamo nella stessa casa dei genitori di Muhammad, Sa’dallah e Sabah Abu Halima, entrambi di 44 anni, insieme ai fratelli e alle sorelle di mio marito: Omar (18), Yusef (16), ‘Abd ar-Rahim (13), Zeid (11), Hamzah (10), ‘Ali (4) e la piccola Shahd (1 anno).
La nostra casa aveva due piani: al primo c’erano 250 metri quadri di magazzini, così vivevamo al secondo piano. Noi siamo contadini e possediamo della terra accanto a dove abitiamo.
Sabato sera [3 gennaio, N. d. R.], gli aerei israeliani lanciarono dei volantini invitando i residenti dell’area a lasciare le loro case. L’esercito aveva fatto la stessa cosa durante alcune precedenti incursioni e noi non avevamo abbandonato casa nostra, così anche quella volta decidemmo di fare lo stesso.
Intorno alle 4 del pomeriggio del giorno dopo, mentre tutta la famiglia era in casa, l’esercito cominciò a bombardare la nostra zona. Qualche minuto più tardi, delle bombe caddero sulla nostra abitazione. Scoppiò un incendio, e diversi membri della famiglia morirono tra le fiamme: mio suocero, la sua figlioletta Shahd e altri tre dei suoi figli – ‘Abd ar-Rahim, Zeid e Hamzah.
Mia suocera e i suoi figli Yusef, ‘Omar e ‘Ali soffrirono di ustioni. Il fuoco si propagò in tutte le stanze. Io reggevo mia figlia Farah, e anche noi due rimanemmo ustionate. A me andarono a fuoco i vestiti, e parte della mia pelle e di quella di Farah restò bruciacchiata. Per fortuna, la più piccola delle mie figlie, Aya, non fu toccata. Io mi strappai i vestiti di dosso e urlai che stavo bruciando. Ero nuda di fronte a tutti quelli che erano in casa. Il mio corpo era in fiamme e il dolore era insopportabile. Sentivo l’odore della mia carne che bruciava. Ero in condizioni orribili. Cercavo qualcosa per rivestirmi e non smettevo di gridare. Il fratello di mio marito si tolse i pantaloni e me li fece indossare. La parte superiore del mio corpo restò nuda finché mio marito non venne a coprirmi con la sua giacca.
Quindi corse in strada a cercare un’ambulanza o chiunque altro potesse aiutarci a portare fuori i morti e i feriti. Non riuscì a trovare alcun’ambulanza o veicolo dei vigili del fuoco. Vennero a aiutarci i suoi cugini, Matar e Muhammad-Hikmat Abu Halima, che vivono vicino a noi. Mio marito mi sollevò e Nabilah, sua zia, prese con sé Farah. Un’altra zia, che era giunta anche lei per aiutarci, prese Aya.
Muhammad, Farah, Nabilah con suo figlio ‘Ali, ‘Omar, Matar ed io salimmo tutti quanti su un carretto attaccato alla motrice di un camion. La guidava Muhammad Hahmat, dirigendosi vero l’ospedale Kamal ‘Adwan. Portammo anche il corpo della piccola Shahd. Tutti gli altri, li lasciammo nella casa.
Lungo la strada, vedemmo dei soldati a circa 300 metri dalla piazza di al-‘Atatrah. Muhammad fermò il veicolo, e improvvisamente i soldati aprirono il fuoco contro di noi. Uccisero Matar e Muhammad-Hikmat. ‘Ali fu ferito e riuscì a scappare con Nabilah e ‘Omar.
I soldati dissero a mio marito di spogliarsi, cosa che lui fece. Poi si rimise i vestiti e i soldati ci dissero di continuare a piedi. Lasciammo i tre corpi nel carretto. Mio marito, Farah ed io camminammo verso la piazza, dove salimmo in una macchina che passava di lì. Fummo portati all’ospedale ash-Shifa. Erano circa le 6 del pomeriggio quando arrivammo lì.
Io sono ricoverata ancora adesso. Avevo tutto il corpo ustionato, e anche il viso. Farah ha ustioni di terzo grado. Fummo inviati in Egitto per ricevere altre cure, e quindi cercarono di portarci a Rafah in ambulanza, ma l’esercito sparò contro di noi durante il percorso. L’autista rimase leggermente ferito al volto, e ci riportò in ospedale. Adesso siamo in attesa dell’autorizzazione di partire per l’Egitto.
Ghada Riad Rajab Abu Halima, 21 anni, sposata con due bambini, residente a Beit Lahiya, Striscia di Gaza. La testimonianza è stata fornita a Muhammad Sabah, all’ospedale di ash-Shifa, il 9 gennaio 2009.
Tratto da http://www.btselem.org/English/Testimonies/20090104_Abu_Halima_home_set_on_fire_by_shelling.asp
Tradotto da Jacopo Falchetta per Infopal
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