Quarta giornata della carovana di Sport sotto l’assedio. Il gruppo C - che da lunedì tiene le sue attività all’interno del campo profughi di Deheishe - si è recato in visita alla città di Hebron, dopo essersi visto negare i permessi per entrare a Gaza. I carovanieri vengono accolti da un rappresentante del Hebron Rehabilitacion Comitee, un comitato di cittadini palestinesi che lavora per il recupero delle case abbandonate in seguito all’occupazione del centro storico da parte dei coloni, avvenuta nel 1967 e proseguita negli anni. L’obiettivo del gruppo è quello di arrivare fino alla alla moschea per valutare gli effetti dell’occupazione. Tuttavia il tentativo viene vanificato dall’immediato arrivo dell’esercito israeliano, che armi in spalla ferma la delegazione su precisa richiesta dei coloni ebraici. Qui in città la mappa del potere è precisa: i coloni comandano l’esercito israeliano, il quale a sua volta dispone della polizia palestinese. Gli stessi numeri danno conto della situazione: 3000 soldati sono posti a protezione di 400 coloni presenti nel centro della città in 4 insediamenti, su un totale di 150.000 palestinesi.La carovana, impedita a raggiungere la moschea, viene accolta dalla una famiglia palestinese, la cui terra confina con un insediamento di coloni che racconta le continue vessazioni subite, dal lancio di pietre, alle aggressioni fisiche, sempre nella più totale impunità. Passando per la parte palestinese della città (la città è letteralmente divisa in due settori), il gruppo raggiunge il centro della città, il cuore commerciale palestinese, caratterizzato da una serie di grate e reti che riparano la popolazione dal lancio di pietre e oggetti vari operato dai coloni che hanno occupato i piani superiori delle case. Molti esercizi sono chiusi, perchè falliti o perchè impediti dalle auorità israeliane. Colpisce il fatto che alcuni di questi presentano una macchia di vernice sul portone, segnale dell’obbligo di non riaprire l’attività commerciale. Il parallelismo con le vicende storiche del nazismo sale alla mente prepotentemente.Non a caso nasce qui il movimento della Lega Difesa Ebrei, rappresentata nella Knesset - il parlamento israeliano - che rivendica apertamente l’attentato nella moschea di Hebron del 1994, quando un commando di coloni uccide 29 persone e ne ferisce molte altre raccolte in preghiera.La seconda parte della giornata ha visto la delegazione italiana impegnata in un incontro con i ragazzi del centro che li ospita, l’IBDAA, nel campo rifugiati di Deheishe. Un incontro in cui si è potuto parlare non solo delle attività del centro stesso, ma in cui si è tentato di fare un’analisi della situazione e delle prospettive e possibilità per questo paese. Uno scambio di esperienze interessante di circa 2 ore, in cui il dato politico emerso è quello di un pezzo di società che rifiuta ed è stretta in una logica di potere tra una dirigenza politica eterodiretta da Egitto, Giordania, Arabia Saudita, e un’altra dall’Iran, e che è alla ricerca di una terza possibilità in grado di liberare energie, e non necessariamente in cerca di una rappresantanza politica. In serata, mentre era in corso l’assemblea del gruppo C presso l’Ibdaa, è arrivata la notizia che nella mattinata un attacco di coloni presso Khirbat Safa, vicino Beit Amer, a nord della provincia, aveva portato al ferimento di otto palestinesi di cui uno in modo grave. I coloni sostenuti dalle forze di occupazione israeliana attaccano ormai abitualmente i palestinesi della provincia di Hebron, distruggendo le loro proprietà e occupando le loro case. Quello di questa mattina l’ennesimo caso. La corrispondenza da Hebron. [ audio ] Report dei primi tre giorni di carovana del gruppo B Il primo a lasciare Deheishe Camp e’ il gruppo A, direzione Jayyus (a nord-ovest della West Bank). A noi invece e’ concessa qualche ora di sonno in piu’. Il tempo di fare colazione, cambiare, acquistare una sim locale. Saliamo in autobus diretti verso Nablus. In realta’ ci fermiamo qualche chilometro prima: trenta minuti di sosta obbligata ad uno dei check point piu’ duri della Cisgiordania. Stiamo entrando infatti in uno dei territori dove fino ad un anno e mezzo fa Hamas godeva di un ampio consenso, territori poi recuperati dall’Autorita’ nazionale palestinese dopo il colpo di mano di Hamas nella Striscia di Gaza. Non arriviamo a Nablus ma ci fermiamo al Salah Khalaf Center, di fronte al campo profughi di Al Faara. Quello che ci ospita e’ un ex carcere (!) israeliano convertito poi dai palestinesi in un centro giovanile e sportivo. Qui si gioca la prima partita di calcio della squadra B di . Dopo il disastroso 9 a 0 della prima partita ufficiale, in tarda serata arrivano le voci di un farraginoso 13 a 3 della formazione A. Visitiamo il campo profughi di Al Faara dove discutiamo della situazione dei prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri che Israele mantiene nel deserto, fuori quindi da ogni controllo. Scopriamo che durante la notte l’esercito israeliano ha fatto incursione nel campo arrestando quattro persone. Siamo sulle montagne dell’anti Libano: attraversiamo un vastissimo territorio, che ci spiegano essere di proprieta’ del Vaticano, abitato dai Palestinesi ma occupato da Israele. Nell’ultima guerra in Libano, quella del 2006, tutto questo territorio era diventato campo di addestramento dell’esercito israeliano. A tutt’oggi ci sono sei, sette campi israeliani.Il centro principale e’ Tubas. Bandiere del fronte popolare e decine e decine tra poliziotti e militari ad attendere l’arrivo del primo ministro Al Fayad. Divise, kalashnikov, fuori strada gentilmente finanziate da Stati Uniti e Unione Europea dopo che questi territori sono tornati forzatamente sotto il controllo della Autorita’Nazionale Palestinese. Oltre alle divise l’UE ha sostenuto l’addestramento di migliaia di poliziotti in Giordania e Libano. In questo territorio dove vivono circa 100.000 abitanti mancano elettricita’ e acqua corrente. Questo spiega i preparativi per l’arrivo del primo ministro. Anche se ci dicono scherzando “speriamo siano assegni e non le solite promesse”. Per l’arrivo dello stesso ministro gli israeliani hanno tagliato le linee telefoniche a tutti i villaggi. La situazione dei rifugiati all’interno dei campi si muove attorno al diritto al ritorno. Sfollati, per la maggio parte, nel ’48. Ricordano nei cognomi delle loro famiglie, nelle storie che raccontano ai bambini, i nomi dei villaggi che hanno dovuto lasciare. Due nodi emblematici di questa “speranza del ritorno”: considerano gli accordi di Oslo una vergogna e non credono e non vogliono la soluzione dei due stati e due popoli. Infatti, al di la’ della speranza del ritorno ai loro villaggi (oggi sicuramente inglobati all’interno di citta’ israeliane) la soluzione di due popoli in due stati appare superata.La costruzione del muro e i sempre piu’ pressanti insediamenti israeliani ne sono una provatangibile. I rifugiati che incontriamo al campo di Al Faara (8000 abitanti) su questo sono molto chiari. E non solo su questo.Ci spiegano come funziona il campo. Elettricità e l’acqua (poca, spesso insufficiente) sono garantite da OLP, ONU e UNRWA. Ci raccontano che hanno posto il problema del check point di Nablus e degli altri che dividono i villaggi tra loro, direttamente ad Abu Mazen manifestandogli la volonta’ di organizzare una grande manifestazione con l’obiettivo di rimuoverlo. Più in generale chiedono al governo di una piu’ radicale politica di contrasto all’occupazione di questi territori continuamente oggetto di incursioni e attacchi, dicono: “E’ necessaria una nuova intifada. Se non appoggera’ queste esigenze perdera’ senz’altro il controllo della situazione”.
Londra -Mentre scriviamo questo testo, il Guardian rende pubblico un video dell’aggressione subita da Ian Tomlinson, ripreso durante la manifestazione da un fund manager, che lavora tra New York e Londra e che ha deciso di pubblicare il video perché nessuno stava fornendo risposte alla famiglia (video). Ci sembra che il nostro testo possa essere utile anche di fronte a questa nuova situazione.
Lo sguardo perduto nel vuoto di Ian Tomlinson - mentre barcolla allontanandosi da un tranquillo cordone di riot police - è un’immagine emblematica di ciò che sta accadendo a Londra. Ian Tomlinson tornava dal lavoro, passava per caso e aveva provato ad attraversare il cordone per rientrare a casa. Era stato chiuso in un recinto di poliziotti assieme a migliaia di altri manifestanti, aveva subito un’aggressione ingiustificata e particolarmente dura mentre camminava verso i manifestanti. Sbattuta la testa a terra, si era rialzato senza capire che cosa stesse succedendo, aveva cercato di capire perché lo avevano aggredito ed era andato verso un altro cordone nella speranza di trovare un poliziotto più comprensivo. A un tratto si è accasciato, alcuni manifestanti sono andati ad aiutarlo, hanno prima chiamato un’ambulanza e poi la polizia che, per sicurezza, ha caricato, bloccato la rianimazione di emergenza e si è rifiutata di parlare con l’ambulanza per ricevere istruzioni.
È quanto emerge dalle prime testimonianze raccolte dalla Inchiesta Indipendente lanciata giovedì mattina durante una manifestazione a Bank, che ha cominciato a tracciare gli ultimi anonimi minuti di Ian Tomlinson, venditore di giornali nella city, passante, privato cittadino. Fino a poche ore prima la versione della polizia parlava di morte per cause naturali di uno sconosciuto, trovato in un vicolo dalla polizia.
Ed è intorno ad alcune di questi aggettivi che vogliamo provare a tracciare una piccola parabola di quanto è successo a Londra. Parabola minore, per carità, pronta a seminare dubbi, svegliare sensibilità, ma poco disposta a lanciare grandi ipotesi.
Anonimo, naturale, privato. Questi termini non solo tracciano i margini degli ultimi minuti di vita di Ian Tomlinson, ma più in generale segnalano una strategia discorsiva e pratica delle forze dell’ordine nel mondo anglosassone, in particolare a Londra. Solo poche settimane fa, i giornali inglesi avevano riportato le dichiarazioni del Sovrintendente della Polizia metropolitana di Londra, David Hartshorn: rivolte e disordini sono previsti tra giugno e ottobre di quest’anno; dopo un’estate ad alta tensione, l’atmosfera sociale tornerà respirabile. La crisi, la rivolta e il conflitto ridotti a fenomeno atmosferico, prevedibile e determinabile, nello spazio - le grandi città inglesi e nord americane, nel tempo - estivo, il caldo? lo stress? le vacanze in città?, e nei soggetti - una middle class privata di un benessere euforico, ma ahinoi ormai svanito. Una volta enunciata e prevista, la gestione di questa perturbazione diventa semplice amministrazione: la crisi e il conflitto diventano una questione di amministrazione di una popolazione anonima, rumoreggiante a volte, ma in ogni caso privata di ogni voce pubblica. E il modello di contenimento sviluppato negli ultimi anni dalla polizia, il cosiddetto kettling (il classico bollitore per il te, questo il soprannome nato negli anni per riferirsi alla strategia della polizia) rappresenta la razionale traduzione in pratica di questo discorso.
Se infatti nella seconda metà negli anni ’90 Reclaim the street aveva occupato le strade e trasformato lo spazio pubblico anonimo in spazio di affermazione politica – fino ai riot del Carnival against Capitalism nella city del J18-1999 - la strategia della polizia fin dal Mayday del 2001 è semplice. Chiudere ogni via d’accesso all’area in cui è contenuta la manifestazione e cominciare a stringere i manifestanti fino a quando si troveranno gomito a gomito, senza possibilità di muoversi, come il bestiame nei recinti. Una volta ben stretto il recinto, la polizia si incarica di una violenza silenziosa ed estremamente efficace.
Mercoledì scorso dall’una del pomeriggio alle sette e mezzo di sera, nell’area di Bank - dove proprio verso le sette morirà Ian Tomlinson - più di cinquemila persone sono state rinchiuse in questa kettle per quasi sette ore, senz’acqua, senza cibo, senza bagni, senza possibilità di uscire.
Si chiedeva un giornalista del Guardian rimasto intrappolato mercoledì pomeriggio, nel suo pezzo sul futuro delle tecniche di polizia: “Questo significa che chiunque voglia andare a una manifestazione deve essere preparato ad essere detenuto per otto ore, identificato e fotografato? E, se queste tecniche continuano a essere utilizzate e raffinate, quanto tempo passerà prima che le manifestazioni diventino più cruente?”. E chiudeva l’articolo avvertendo: “The thing about kettles is that they do have a tendency to come to the boil.” Parafrasando, la caratteristica dei bollitori è che hanno una certa tendenza a scoppiare.
Dalle pagine dello stesso giornale, risponde John O’Connor, più affezionato agli interessi del capitale. Sostiene che, nonostante l’erosione della libertà civile sia un alto prezzo da pagare, il kettling è una buona soluzione per ridurre i danni alla proprietà privata (parole sue). E O’Connor ci racconta un altro aspetto interessante sulle nuove tattiche di polizia. Quando impiegate la prima volta nel 2001, queste tecniche erano state portate di fronte a una Corte, perché, nel nome della sicurezza, intrappolavano indiscriminatamente e illegalmente persone di ogni tipo, tanto chi esercitava legittimamente il proprio diritto a manifestare, come passanti e anonimi cittadini le cui libertà civili dovevano essere protette.
Queste pratiche sono state incluse però nei regolamenti legislativi contro il terrorismo – anche se la ragione logica sinceramente ci sfugge. È la stessa atmosfera legislativa, per intenderci, che ha portato alla morte di Jean Charles De Mendes, altro morto anonimo, lavoratore brasiliano, ucciso da un colpo a freddo della polizia nella metropolitana di Londra nel Luglio del 2005. E la settimana scorsa hanno causato quella di Ian Tomlinson, caricato e sbattuto violentemente a terra senza ragione, abbandonato a se stesso a pochi metri da medici poliziotti, dopo che i manifestanti accorsi ad aiutarlo erano stati caricati. Ecco quali sono le cause naturali che hanno provocato la loro morte: la amministrazione del dissenso da parte dello Stato.
Popolazione anonima, cause naturali, proprietà privata. Siamo riusciti a trovare dei sostantivi per gli aggettivi da cui eravamo partiti. Per sfuggire a questa trappola ciò che possiamo fare è continuare con maggior desiderio a costruire una collettività composta da differenze laddove il potere cerca di controllare e fissare i margini statistici di una popolazione anonima e uniforme. E ci sembra che, qui a Londra, si apra in questi giorni una possibilità importante: costruire insieme una narrazione comune non solo di ciò che è successo l’altro giorno, ma di quanto sta succedendo nelle nostre vite. La prima affollata assemblea per ricostruire quanto accaduto a Ian Tomlinson è stata emozionante. Di fronte alle parole vuote della polizia e della stampa, ci siamo trovati di fronte a persone in carne e ossa che si sono alzate per dire ‘io c’ero’. Per raccontare che “l’ho visto e non ho saputo cosa fare”, “quel tizio sembrava ubriaco” e che “la polizia si è rifiutata di parlare con i medici” e “ci ha dispersi mentre cercavamo di aiutarlo” (vedi indymedia). Questa narrazione comune e viva comincia a prendere corpo dentro l’Inchiesta Indipendente lanciata dai movimenti giovedì pomeriggio e può diventare una importante linea di fuga dall’anonimato, in una metropoli vaga e solitaria come Londra, per costruire spazi non solo di analisi ma di diagnostico e decisione collettiva in cui aprire un territorio politico comune.
E’ il desiderio di un’ altra narrazione che puo’ aprire delle brecce nel racconto monolitico ed opprimente dei media, un desiderio che aveva gia’ cominciato a emergere nelle pratiche informali di assemblea e mobilitizazione precedenti ai giorni del G20. E proprio in questi luoghi emergono istanze di presa di parola, di messa in comune: il tentativo di dare visibilità e colore a un dissenso ancora difficile da articolare ma che denuncia la funzione oppressiva di proprieta privata e finanziaria, la mancanza di spazi autonomi in citta, che parla della casa come diritto e non come fonte speculazione, della necessita di riappropriarci del comune.
E’ un processo confuso e ancora inafferrabile quello che ha portato al grande concentramento alla Banca di Inghilterra, una composizione, una rabbia che nessuno ancora sembra in grado di decifrare, nessuno, dentro e fuori da questo strano "movimento" (di giovani? di precari? di una middle class proletarizzata che si ribella ai costi spietati e alla ossessione produttivista della metropoli?). Una linfa che aveva ricomincato a scorrere sotterranea attraverso i pochi spazi autonomi e le zone temporanee di "convergenza" aperte proprio in occasione della protesta. Quegli spazi, normalmente semi vuoti o talmente marginali da perdersi invisibili nella griglia della capitale, nel giro di poche settimane si riattivano, diventano punto di riferimento, spazio di discussione, socialita e di incontro, o semplicemente acquisiscono un senso come luoghi fisici per accogliere i preparativi per le manifestazioni e il climate camp. Sono gli stessi spazi che propio nei giorni di mobilitazione sono stati obiettivo di raid da parte della polizia. Un’altra volta un intervetno nascosto e violento che, seguendo una strategia perversa di controllo e intimidazione, segue le tracce dei "protesters" lungo i tracciati della CCTV, arrivando fino alle porte del convergence centre o ai tetti dello squat storico RampArt e picchia, immobilizza, perquisisce e umilia senza distinzioni.
Discutendo con compagni italiani durante i cortei e le assemblee ci dicevamo come la violenza del G20 di Londra non e’ paragonabile a quella di genova 2001. Vero, ma le ultime immagini sulle circostanze della morte di Ian ci dicono forse qualcosa di nuovo sull’amministrazione poliziesca del dissenso, un’amministrazione sottile e scientifica, piu fredda e meno "brutale" di quella italiana, ma sicuramente altrettanto violenta. E’ un’ oppressione che prova a prevenire la possibilita di protesta, che criminalizza prima ancora che la soggettivita si esprima. Accerchia e attacca rendendo lo spazio collettivo spazio anonimo e la sensazione della rabbia intima e individuale. Una violenza che ti fa sentire solo, incapace di pensare un’azione collettiva, di pensare la piazza, la strada come territorio comune, nostro, da cui partire.
In questi giorni a Londra c’è il sole, ci sono assemblee, le parole scorrono e gli incontri sono possibili. Presto ricomincerà a piovere, già sappiamo che da queste parti è inevitabile! Però si tratta di continuare a muoversi, perché, come diceva Fabrizio De Andrè, fermi sotto la pioggia si corre il rischio di morire arrugginiti.
Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.