Toxi-tour: viaggio di Ya Basta! tra le comunità ribelli che si oppongono alla produzione petrolifera.
di Riccardo Bottazzo
Nell’Anno del Signore 1561, Gonzalo Pizarro, governatore di Quito e fratello del celebre conquistadores, armò una grande spedizione e scese il versante orientale della cordigliera alla conquista di terre inesplorate.
Nascosta in quell’immensa foresta dove mai nessun europeo aveva messo piede, sorgeva una città dai tetti d’oro e dalle strade lastricate di pietre preziose. Il sovrano di questo paese era talmente ricco che si faceva cospargere di polvere d’oro. El Dorado, lo chiamavano i suoi sudditi.
Un regno, il cui segreto era gelosamente custodito dai nativi. Tanto che ci erano volute ore e ore di tortura perché un indigeno confessasse la sua esistenza.
E così, 340 soldati spagnoli, 150 cavalieri, 4 mila portatori indigeni e un discreto numero di preti e frati convinti che l’unica differenza tra una spada e una croce dipendesse dalla parte in cui si impugnava il manico, si addentrarono nella foresta inesplorata più grande della terra, massacrando e convertendo, convertendo e massacrando tutti i nativi che gli si paravano davanti.
Avanti, avanti, sempre più in basso e sempre più dentro l’impenetrabile giungla. Avanti, avanti sino a che non fosse apparsa una città dai tetti d’oro da conquistare di spada e di croce.
Tre mesi dopo, la spedizione era ridotta alla fame. Le malattie, la carenza di viveri e di acqua potabile, gli animali velenosi, la resistenza degli indigeni avevano decimato i conquistadores. A morire di fame furono innanzitutto i 4 mila portatori indigeni. Poi cominciarono a cadere anche gli spagnoli.
Stremato, incapace di andare avanti quanto di tornare indietro, Gonzalo Pizarro pose il suo ultimo campo in quelle terre sconosciute e affidò tutte le sue speranze al luogotenente Francisco de Orellana. Un indigeno, dopo l’immancabile tortura, gli aveva confessato che El Dorado era vicina e che sorgeva alla confluenza dei due grandi fiumi che oggi si chiamano rio Napo e rio Coca. Pizarro ordinò al suo luogotenente di mettersi in marcia con la cinquantina di spagnoli ancora in forze, conquistare la città, cristianizzarla, saccheggiarla e far ritorno al campo con oro, viveri e schiavi (quelli che si erano portarti da Quito li avevano finiti tutti) e salvare il suo governatore. Il tutto, in nome di dio e del re di Spagna.
Francisco Orellana si mise in cammino, trovò i due grandi fiumi ma, ahimè, della città dai tetti d’oro non c’era traccia. Vai a capire perché, gli indigeni si dimostravano sempre poco collaborativi nei confronti dei conquistadores. Scappavano, si rifiutavano di aiutarli e di farsi evagelizzare senza previa tortura, erano assai poco precisi nell’ubicare l’El Dorado, e come se non bastasse, erano talmente ignoranti da credere che quelle terre fossero loro e si rifiutavano di ammettere che dio le aveva concesse ai re cattolici di Spagna!
Compreso che tornare indietro significava morire e che l’oro e la gloria di El Dorado potevano essere a pochi chilometri di distanza, nascosti dal quell’intricatissima foresta di alberi giganteschi, Orellana decise di proseguire. Costruì una grande zattera, la varò sul rio Napo, ed affidò la sua anima al buon dio e la sua vita al grande fiume. Aggrappato a quei legni, con gli ultimi compagni rimasti, si abbandonò alla corrente di quelle acque ignote che scendendo a valle si allargavano sempre di più, grazie all’apporto di migliaia di affluenti, sino ad assumere le dimensioni di un piccolo mare d’acqua dolce.
Nell’agosto del 1562, dopo quasi un anno trascorso sulla zattera a pescar piranha e ad azzuffarsi con tutte i gruppi indigene incontrati tra cui una di donne guerriere, il grande fiume che oggi chiamiamo il Rio delle Amazzoni, depositò Orellana e un pugno di conquistadores ancora in vita, nell’Oceano Atlantico. Avevano attraversato l’intero continente.
Mezzo migliaio di anni dopo, nell’Anno del Signore 2009, ai carovanieri di Ya Basta! in viaggio nell’Otra mitad del Mundo, vien da chiedersi se sia cambiato l’atteggiamento dei conquistadores bianchi nei confronti dei popoli amazzonici. Quelle buonanime di Francisco de Orellana e di Gonzalo Pizarro, perlomeno, avevano la fantasia o l’ingenuità di credere nelle fiabe. Le multinazionali del petrolio solo nell’estratto conto. Per il resto, le tecniche di genocidio sono state soltanto ripulite e raffinate. La globalizzazione ha preso il posto della religione. Lo sviluppo economico ha sostituito il saccheggio. Il diritto giuridico, il diritto divino. Neppure la patina di rispettabilità con cui si vestono oggi i padroni dell’Impero è troppo distante da quella che, ai loro tempi, ricopriva la nobiltà.
Soprattutto, l’oro (che non c’era) è stato sostituto dal petrolio (che invece c’è).
Oggi, Puerto Francisco de Orellana, la città alla confluenza dei due grandi fiumi dove il conquistador gettò in acqua la sua zattera, è il capoluogo di una omonima provincia che galleggia sopra un mare di oro nero. Il petrolio, el crudo come lo chiamano qui, è una presenza tangibile in tutti gli aspetti della vita e non solo per la quantità di pompe, stabilimenti, pozzi, ciminiere di fuochi perenni, cisterne, serbatoi, vasche di raccolta e terre devastate dalla contaminacion che si contendono la visuale con quel che rimane degli alti alberi secolari massacrati dalla deforestazione.
Qui, a El Coca, come gli ecuadoriani chiamano familiarmente Orellana, qualsiasi cosa - sogni, urbanistica, speranze, paure, trasporti, lavoro, salute, politica… - viene sempre ricondotta al petrolio. Addirittura il desayuno, la colazione, nei bar viene proposto in due versioni: continental, soliti caffè, pane e marmellata, oppure petrolero. Di che si tratta? Beh… diciamo che il desayuno petrolero sta al continental come il neo liberismo alla decrescita: una quantità di salsiccie, affettati e uova che una normale famiglia indigena non vede insieme neppure in due settimane.
Ma sono i tubi la presenza più ossessiva. Tubi di tutte le dimensioni e di tutti i colori con il solo comun denominatore di essere fatiscenti e assolutamente inaffidabili. Il petrolio amazzonico è tanto ma di cattiva qualità. Per far quadrare i bilanci multinazionali, si punta sulla quantità. Una perdita, anche una perdita capace di inquinare un’area grande come mezza laguna di Venezia, viene considerata insignificante nei conteggi bancari dei petroleros. Non esistono valvole di sicurezza, ad Orellana. Gli svasi di petrolio greggio vengono segnalati dai contadini quando gli animali cominciano a morire e i bambini ad ammalarsi. Manuel, un simpatico colono che ha accolto i carovanieri di Ya Basta! nella sua finca, ci accompagna su un laghetto putrido e puzzolente grande come mezzo campo di calcio. Da far venire la nausea solo a passarci vicino. Dopo la denuncia, spiega, i petroleros hanno fatto svolgere delle analisi chimiche e fisiche. Il risultato? “Che non proprio nulla di cui lamentarmi e posso stare tranquillo – ci spiega–. Mi hanno garantito che la fuoriuscita di greggio ha fatto bene alle piante e ora crescono meglio di prima”. E morta qua. Un’altra denuncia e, invece dei tecnici, sarebbero arrivati la polizia e le guardie private dei petroleros a fargli le “analisi” del terreno! E di morti ammazzati per mani neppure troppo misteriose, come ci confermerà la sera l’amico Diocles Zambrano, leader della rete Angel Shingre, da queste parti ce ne sono fin troppi.
“Qui in Amazzonia il bacino di voto è appena il 5 per cento – commenta Diocles -. Al governo non gliene frega niente di noi. La revolucion ciudadana esta en marcha e passa sopra i più elementari diritti degli indigeni e dei coloni che di petrolio muoiono assieme alla loro terra e alla loro cultura. L’interesse dello Stato viene prima di tutto e tutto giustifica. L’Amazzonia è sacrificabile nell’altare di una economia e di una politica estrattiva che, Correa può anche definirle socialiste, ma sono e restano derechosas (destrorse. ndr). Le compagnie nazionalizzate non hanno fatto certo meglio di quelle straniere sul tema dell’inquinamento e del rispetto dei diritti umani!” Le stesse, frequenti, perdite e rotture dei tubi, spiega Diocles, che stanno ammazzando la foresta e portando alla disperazione gli indigeni che ancora vi vivono, vengono imputate dai petroleros e dal governo ad atti di sabotaggio dei campesinos. Così che chi segnala una pozza inquinante nella sua finca rischia innanzitutto di essere menato di brutto e denunciato alle forze dell’ordine.
Il viaggio della carovana, su uno scassato furgone che tira il fiato su ogni salita, prosegue per le strade di Dayuma dove una targa posta fuori del municipio ricorda la strenua resistenza dell’intera comunità nel 2007, quando ci vollero i mezzi blindati e tremila uomini dei reparti speciali dell’esercito ecuadoriano per porre fine al grande “paro” che vide campesinos e indigeni uniti a bloccare per giorni l’unica strada che collega Orellana ai pozzi.
La martellante presenza dei tubi lungo la carreggiata viene interrotta da ridicoli cartelloni in stile “pubblicità progresso” posti dagli stessi petroleros: “Produciamo l’energia e proteggiamo l’ambiente”, “Non gettate immondizia”, “Donna, non permettere più che ti maltrattino”. Ci chiediamo se fanno più ridere o incazzare. Di tanto in tanto, un posto di blocco delle milizie private ci ferma per chiederci dove andiamo e perché. Mentiamo spudoratamente e senza sensi di colpa. Loro non sono da meno. Quando chiediamo informazioni ci spediscono regolarmente fuori strada. L’Otra Mitad del Desarollo (sviluppo) è roba da stomaci forti e non è bello che girino per il “mondo civilizzato” (quello che consuma e ignora) le foto, le immagini e i reportage di questo stupro sistematico cui le multinazionali del petrolio sottopongono ogni giorno l’Amazzonia, il “polmone verde” dell’umanità.
Procediamo sino quasi ai confini con la Colombia. Tubi. Ancora e sempre tubi da tutte le direzioni e da tutte le parti. Migliaia di endovenose che prelevano il sangue ad un paziente mezzo morto. Sono dappertutto. Attraversano città e paesi in linea retta, sfiorano le case e costeggiando le strade. Per passare da una parte all’altra della piazza del paese ti tocca scavalcarli (interrarli è troppo costoso, oltre che pericoloso). Corrono senza pudore in mezzo alle fincas dei coloni, separano la capanne dalle latrine, tagliano in due le stalle, passano i ponti da dove i bambini si tuffano in acque inquinate. Corrono sotto gli stendi biancheria e le massaie son costrette a salirci sopra per stendere il bucato. Si vive in gabbie di petrolio. Ma come possono permettersi di umiliare in tal modo un intero pueblo? Ce lo ha spiegato bene una anziana signora che ha provato ad opporsi alla distruzione del suo giardino per far passare l’ennesimo tubo a due passi dalla soglia della sua casa e proprio dentro il suo allevamento di polli. Grazie ai compañeros dell’associazione Derechos Humanos di Joya de los Sachas, la signora ha intentato causa ai petroleros. La pratica è ancora in tribunale. Aspetta e spera. Per l’intanto, sono andati a trovarla trecento tra poliziotti, forze speciali, esercito e milizie private che l’hanno menata e spiegato che il tubo, come la Revolucion Ciudadana, deve marciare anche per casa sua. Adesso il suo giardino non esiste più, l’allevamento lo ha dovuto spostare e l’intera casa è circondata di cartelli con scritto peligro e “lavori in corso”. Storia neppure originale in quel di Orellana, dove il petrolio vale più della foresta e della tua stessa vita.
E non è una novità, in questa Otra Mitad del Mundo, neppure che gli sbirri del compagno presidente si mobilitino in trecento per convincere a botte una vecchia contadina che voleva solo difendere le sue galline. Siamo nella terra dell’oro nero e non si bada a spese.
Casomai qualcuno avesse ancora dubbi su chi comanda in questa Otra Mitad del Mundo…