venerdì 4 settembre 2009

«Absolutely must go», ovvero fuori dai piedi gli abitanti

Un interessante dibattito svolto al No dal Molin Festival

Se ne devono andare: sono queste le parole con le quali l’ammiraglio statunitense più alto in grado ha deciso il destino degli abitanti di Diego Garcia, la più grande delle isole Chagos situate nell’oceano indiano. A ricordarle, nel primo dibattito del Festival NoDalMolin, è David Vine che ha ricostruito insieme a Marie Sabrina Jean la sconvolgente storia di questo lembo di terra.

Possedimento britannico, l’isola viene adocchiata dai militari statunitensi alla fine degli anni ’50; situata in una posizione strategica, l’atollo diventa un luogo imprescindibile per il controllo del Medioriente e gli statunitensi lo vogliono a ogni costo. Non solo vogliono realizzare un avamposto militare, proiettato verso i tesori dell’Asia e dell’Oriente – è da qui che, recentemente, sono partiti i bombardieri verso l’Iraq e l’Afganistan – ma ne pretendono il controllo esclusivo; e gli abitanti? «Absolutely must go», appunto, e così sarà, come pretendono i gendarmi del mondo.

A sporcarsi le mani, naturalmente, non sono coloro che esportano in punta di baionetta democrazia e diritti umani; e, del resto, con qualche bigliettone verde – «nel 1966 – racconta David – gli statunitensi versano segretamente 14 milioni di dollari nella casseforti inglesi» – c’è sempre un governo vassallo – o alleato, se si preferisce – determinato a prodigarsi in segno di servile deferenza.

Nel 1966 apre il cantiere per l’installazione militare; dal 1968 a chi lascia l’isola per motivi di lavoro o di salute non viene permesso di rientrare, mentre i rifornimenti di cibo vengono tagliati e le condizioni di vita via via deteriorate. Ma il peggio, per gli abitanti indigeni, deve ancora arrivare: nel 1971, infatti, gli inglesi organizzano e portano a compimento la deportazione dell’intera popolazione. «Gli animali domestici - racconta Vine - sono stati riuniti in alcuni magazzini e uccisi con i gas di scarico di alcuni automezzi; quindi, davanti agli abitanti, li hanno bruciati». Nemmeno il tempo di protestare e tutti gli abitanti «vengono caricati - aggiunge Marie - con la forza su alcune navi e portati alle Mauritius e alle Seychelles» dove sono abbandonati sui moli senza un lavoro, una casa o qualcuno a cui rivolgersi. Famiglie divise - i genitori su una nave e i figli su un’altra - e mai più riunite, un viaggio infernale – con le persone stipate nei container - per la sola colpa di abitare nell’isola che gli statunitensi devono adibire a base di guerra. Oltre il danno, poi, anche la beffa: gli inglesi, infatti, dichiarano che gli abitanti dell’isola non erano nativi di Diego Garcia, ma originari di altre isole: la storia riscritta per giustificare un crimine.

Ma le donne e gli uomini di Diego Garcia non hanno accettato chinando la testa l’arroganza dell’esercito a stelle e strisce; sono le donne a mettersi alla testa del movimento che rivendica il diritto della comunità a ritornare nell’isola. «Noi siamo - scandisce Marie - i discendenti degli schiavi; abbiamo la pelle nera e i nostri occhi non sono azzurri; ma il colore della pelle non può essere la nostra condanna, vogliamo gli stessi diritti di qualunque individuo: vogliamo la possibilità di vivere. Per questo – prosegue tra gli applausi di un tendone dibattiti pieno di ascoltatori – non ci stancheremo mai di batterci per i diritti della nostra comunità».

E, negli ultimi anni, il movimento ha ottenuto vittorie importanti; come le tra sentenze delle corti britanniche che hanno ritenuto illegale la deportazione. «Peccato - ricorda David - che la camera dei Lord abbia respinto questi giudizi». E ora tocca alla Corte Europea per i Diritti Umani esprimersi.

Una storia, dunque, sconvolgente; alla quale si farebbe fatica a credere, se a raccontartela non fossero persone in carne e ossa, con le loro emozioni e la loro determinazione. E se, ha concluso Enzo, «per gli abitanti di Diego Garcia la deportazione è stata fisica, reale, per i vicentini questa assume un significato etico, morale, sentimentale»: quello di vedersi privati del diritto di decidere il futuro della propria terra e, quindi, della propria vita.

Ma Diego Garcia rappresenta anche la faccia della speranza: quella di una comunità che non si arrende all’arroganza di chi vorrebbe comandare il mondo con la violenza e la sopraffazione.

- Da sapere

L’isola di Diego Garcia è un atollo di 44 km², ed è la più grande dell’arcipelago delle Isole Chago, nell’Oceano Indiano, circa 1600 km a sud dell’India. L’isola è un Territorio Britannico d’Oltremare e fa parte dei Territori Britannici dell’Oceano Indiano. Dal 1971 l’isola ospita una base militare della Marina statunitense. Con gli anni la struttura è diventata tra le basi più importanti delle forze statunitensi nel mondo. La base è stata il punto di partenza per attacchi aerei durante la prima guerra del Golfo (1991), la guerra contro i Talebani in Afghanistan, e la guerra contro l’Iraq del 2003.


Per ascoltare il dibattito che si è svolto al Festival No dal Molin clicca qui

Ecuador, accuse alla Chevron: danni ambientali per 27 miliardi di dollari

Alessandro Grandi - Peacereporter

Botta e risposta fra l’amministrazione ecuadoriana e la compagnia petrolifera statunitense Chevron, una delle maggiori aziende del mondo. La compagnia Usa è stata denunciata una decina d’anni fa per via di alcune procedure poco chiare nello smaltimento dei rifiuti tossici e di petrolio grezzo che riversava nelle acque del Rio delle Amazzoni, causando danni irreparabili alla popolazione locale e alla natura circostante. Danni che secondo il governo di Quito potrebbero ammontare a più di 27 miliardi di dollari, il doppio del bilancio 2008 del paese andino. Insomma, un periodo nero, sicuramente più del petrolio che maneggia, per la compagnia statunitense che se la deve anche vedere con un film che uscirà nelle sale il prossimo 18 settembre e che avrà come soggetto una delle maggiori stragi ambientale che l’umanità abbia conosciuto: i danni di Chevron in Amazzonia. Il film "Crude" racconta di come la popolazione che ha vissuto nelle aree di estrazione usate da Chevron abbia sofferto di malattie come cancro, aborti spontanei, malformazioni. Danni riconducibili all’inquinamento emesso dalla compagnia petrolifera. Che oggi cerca di fare tutto quanto possibile per bloccare la diffusione del film. Forse perchè teme ripercussioni. Di certo perchè è consapevole di aver sfruttato in modo scostumato la zona ecuadoriana.
Insomma, un film che smaschera le attività inquinanti della Chevron dettate dalla corsa al profitto e appoggiate dalla politica estremamente neoliberista.

Per mettere un freno alla diffusione delle notizie sui danni causati, oggi, i responsabili della compagnia Usa hanno fatto sapere di essere entrati in possesso di una serie di video in cui alcuni rappresentanti del governo ecuadoriano tentavano di corrompere un giudice del tribunale che si occupa della causa contro la Chevron per farle perdere il processo per danni ambientali.
Le immagini sarebbero, a dire della Chevron, eloquenti. Si vedrebbero, infatti, il giudice Juna Nuñez, Carlo Garcia, deputato della maggioranza e altri due uomini mentre discutono di una mazzetta da qualche milione di dollari che sarebbe stata spartita una volta terminato il processo con una condanna alla compagnia Usa.
Un tentativo, a dire dell’amministrazione di Quito, utile solo a sviare l’attenzione sul dibattimento che con tutta probabilità potrebbe far emergere una seria condanna all’azienda petrolifera.
Quito, intanto, conferma: mai e poi mai si è cercato di influenzare gli apparati di giustizia nazionale.

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!