martedì 29 settembre 2009

Clima, la Cina ci salverà?

Pechino annuncia obiettivi ambiziosi per il contenimento delle sue emissioni nocive. Ma i numeri raccontano un'altra realtà

di Alessandro Ursic

Ci siamo persi qualcosa? Fino a poco tempo fa, se si parlava di riscaldamento del pianeta, la Cina aveva il ruolo del cattivo: sempre più inquinata, senza intenzione di porre freni al suo sviluppo. Gli Usa di Obama, invece, promettevano di prendere l'iniziativa globale contro i cambiamenti del clima, rovesciando la voluta inenzia dell'amministrazione Bush. Ora, specie dopo il discorso del presidente Hu Jintao all'Onu, sulla Cina vengono riposte improvvisamente buona parte delle speranze per arrivare a un accordo sulla riduzione delle emissioni nel vertice di Copenaghen, che a dicembre avrà il compito di rimpiazzare il protocollo di Kyoto.
Che è successo? Non molto, e le descrizioni erano esagerate anche prima. La Cina è inquinata e lo sanno anche le autorità di Pechino, che devono fronteggiare un numero crescente di proteste locali contro fabbriche e centrali; le falde acquifere di vaste regioni del Paese sono contaminate, con ripercussioni sull'agricoltura e la salute dei cittadini. Il Paese ottiene l'80 percento della sua energia elettrica dal carbone, economico ma il più inquinante tra gli idrocarburi, e sta costruendo una nuova centrale termoelettrica ogni 10 giorni.
Per non parlare degli Usa in prima linea sul fronte ambientale. E' vero che nella Silicon Valley c'è la più alta concentrazione di aziende della new energy, e che Obama ha costantemente messo la lotta all'effetto serra tra le sue priorità. Ma si parte da lontano. Il carbone non lo usano solo i cinesi: metà dell'elettricità prodotta negli Usa è generata grazie a esso. E i consumi dei veicoli americani - che si "mangiano" il 70 percento del fabbisogno petrolifero nazionale - sono più elevati in media rispetto a quelli europei e... cinesi, grazie a restrittive leggi introdotte negli ultimi anni.Nell'ultimo anno, la Cina aveva già annunciato una serie di obiettivi per limitare le sue emissioni: il discorso di Hu a New York riprende molti di questi target (come il 15 percento di energia "verde" entro il 2020), ed è stato lodato perché per la prima volta un leader cinese li ha enunciati pubblicamente, per di più in una cornice così significativa. Da qui alla conclusione "la Cina prende l'iniziativa nella lotta al cambiamento climatico", il passo è stato breve.
Il potere centralizzato nelle mani del Partito comunista consente a Pechino di agire molto più velocemente di Washington, dove il Congresso - con tutti i suoi interessi locali e le lobby - annacqua spesso le linee guida date dal presidente. In un certo senso, la Cina ha le mani più libere. Ma come ha specificato più volte, non intende vedersele legate dai vincoli fissati da un trattato internazionale.Il nodo da risolvere per arrivare a un accordo sul clima è proprio questo. Il protocollo di Kyoto esentava la Cina (lo stesso discorso vale per l'India) dall'obbligo di ridurre le emissioni, in quanto Paese in via di sviluppo.
Oggi, gli Usa e l'Europa non firmerebbero nessun accordo se ciò non includesse limiti anche per la Cina, diventata l'anno scorso il primo Paese per quantità di emissioni nocive. Ma Pechino non vuole frenare la sua galoppante economia (il Pil crescerà di oltre il 7 percento anche in questo anno di crisi), temendo squilibri sociali e possibili rivolte in caso di rallentamento. Il concetto su cui puntano le autorità cinesi - e che lascia loro ampia scelta sul come e quando arrivarci - è quindi quello della "carbon intensity", ossia il consumo energetico per ogni unità di Pil.
Nel 2006, per ogni mille dollari di Pil, la Cina ha emesso 2,85 tonnellate di biossido di carbonio, oltre cinque volte la quantità degli Usa (0,52 tonnellate). E' evidente che il Paese può fare enormi progressi in tal senso, e Hu ha annunciato la volontà di ridurre quella cifra "di un margine notevole". Ma è naturale che i consumi pro-capite sono destinati ad aumentare man mano che i cinesi diventano più benestanti: al momento, ogni cinese "produce" 6 tonnellate di anidride carbonica l'anno, contro le 24 tonnellate di un americano.
Il problema è che - come ha calcolato lo studio "China's green revolution" del gruppo McKinsey - da qualunque parte la si guardi, le emissioni cinesi sono destinate ad aumentare comunque. Secondo il rapporto, se il Pil cinese continua a crescere del 7,8 percento annuo, il Paese raggiunge i suoi obiettivi di riduzione della carbon intensity, rispetta i target per la produzione di energia da fonti rinnovabili e allo stesso tempo migliora la sua efficienza energetica del 4,8 percento annuo... entro il 2030 avrà comunque raddoppiato le sue emissioni nocive rispetto al 2005.
Il pianeta può permetterselo? E' quello che si cercherà di stabilire da qui al vertice di Copenaghen.

Tratto da:
Peace Reporter

Il lavoro minorile a Gaza, tra povertà e assedio.

Mentre milioni di bambini nel mondo godono di un ambiente salutare, tra i loro famiglie e i loro compagni, trascorrendo una vita normale, centinaia di altri, nella Striscia di Gaza assediata vivono in condizioni tragiche, lavorando come ambulanti nelle strade.
La loro unica preoccupazione è vendere alcuni prodotti per aiutare le loro famiglie in gravi difficoltà, perché rimaste senza padre o perché questi è disoccupato o invalido a causa dell'assedio e delle bombe israeliane.

Shadi Mabruk, un bambino di dodici anni, abita nella città di Gaza. L’abbiamo incontrato mentre se ne stava sotto il sole cocente, con una scatola di gomme da masticare, all'incrocio di al-Saraya nel centro di Gaza. Gridava "gomma da masticare!" per attirare l'attenzione dei passanti: appena il semaforo diventa rosso, Shadi corre verso le auto per vendere le gomme agli automobilisti.
Ci siamo avvicinati a lui proprio con la scusa di comprarne un po’. Durante la nostra conversazione ci ha detto che egli esercita quest'attività da due anni e mezzo, dopo che il padre era rimasto disoccupato, poiché l'assedio israeliano imposto sulla Striscia di Gaza ha provocato la chiusura dello stabilimento dove lavorava. Shadi ci ha raccontato che si sveglia dalle prime ore del mattino, per uscire con la scatola delle gomme e cercare di vendere qualcosa per le strade e i vicoli della città di Gaza. Il suo posto preferito è l'incrocio di al-Saraya, perché è sempre affollato.
Il ragazzino ha raccontato di essere stato costretto ad abbandonare la scuola per cercare, con i suoi fratelli, di garantirsi il cibo, dato che in famiglia non vi è alcun’altra fonte di sostentamento oltre a ciò che essi guadagnano.
Il lavoro minorile si è incrementato notevolmente, negli ultimi tre anni, a seguito dello stretto assedio israeliano imposto da terra, mare e cielo, e che ha causato un incremento esponenziale del livello di povertà e di disoccupazione nella Striscia.

Cifre incredibili.
L'avvocato Sabiha ar-Rantisi, attiva nel campo dei diritti umani, ha spiegato che il numero di bambini che lavorano nella Striscia di Gaza ha raggiunto cifre incredibili, nonostante le convenzioni internazionali abbiano limitato l'età lavorativa nell'infanzia.
L'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha fissato l'età lavorativa in almeno quindici anni nei Paesi “sviluppati” e in quattordici anni per quelli “in via di sviluppo”.
Essa ha poi aggiunto: "La legge palestinese fissa il limite lavorativa a quindici anni, ma ci dovrebbe essere un controllo sull'età, sulle ore lavorative (4 al giorno, con una pausa) e sulle condizioni idonee; ma tutto questo vale veramente nella Striscia di Gaza?"

L’avv. ar-Rantisi ritiene che la responsabilità ricade sulle istituzioni pubbliche e sulla società civile: "Quando diciamo che esistono delle leggi, le parti competenti sono obbligate a controllare e a perseguire chi le viola, poiché i bambini sono quelli che rischiano di più".

La vittima è il bambino.
Da parte sua, il dottor Fadl Abu Hein, professore di psicologia presso l'Università di al-Aqsa, ha osservato che il tasso di disoccupazione nella Striscia di Gaza ha prodotto due tipi di persone nella comunità: il primo, negativo, si disinteressa a quello che succede intorno a lui; l'altro, preferisce rimanere a casa perché dal lavoro si ricava poco. I bambinim, invece, accettano gli impieghi che i grandi rifiutano.
Ha poi aggiunto che la crescita del lavoro minorile è dovuta al fatto che il minore fa mestieri che il padre non riesce a svolgere, riuscendo a coprire una parte dei bisogni della famiglia.
Ce ne sono alcune che preferiscono mandare al lavoro i loro figli: i piccoli sono dunque le vere vittime, in quanto deprivati dell'istruzione, delle cure e di un sostegno psicologico. I bambini finiscono così per fare dei lavori pericolosi che pregiudicano il loro futuro.
Invece, per quanto riguarda i problemi che derivano dal lavoro minorile, sia nell'immediato sia a lungo termine, il dott. Abu Hein ha affermato che il minore, durante il tragitto verso il posto di lavoro, apprende cattive abitudini, di conseguenza cambia la sua personalità; inoltre, quando il bambino si allontana dalla scuola, perde molte fonti di apprendimento che servirebbero per arricchire la sua personalità.
Egli ha sottolineato che il lavoro minorile può trasformarsi anche in una richiesta d'elemosina, e ciò ne danneggia la personalità, che, indebolendosi, può trasformarlo in un piccolo criminale. Abu Hein ha infine aggiunto che i ragazzini subiscono la povertà, lavorando sin dall'infanzia per guadagnare soldi: il loro obiettivo principale diventa perciò portare a casa denaro con qualsiasi mezzo, anche illegale. E ha concluso che tale dramma non deve essere gestito soltanto dalle famiglie, ma dalle istituzioni e dalla tutta la società.

tratto da Infopal

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!