martedì 6 ottobre 2009

Afghanistan, 8 anni dopo: cosa si nasconde dietro la guerra?

Le miniere d'uranio? Il gasdotto trans-afgano? Il posizionamento geostrategico? O forse il controllo del narcotraffico?

Perché, esattamente otto anni fa, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso e occupato l'Afghanistan? Quali interessi si celano dietro le spiegazioni ufficiali di questa guerra? Le ipotesi avanzate in questi anni sono molteplici, ma nessuna abbastanza convincente. Tranne una, che però è alquanto difficile da dimostrare.

Risorse energetiche. Secondo un rapporto pubblicato nel dicembre del 2000 sul sito Internet dell'Eia, l'agenzia di statistica del dipartimento per l'Energia degli Stati Uniti (e poi rimosso), l'Afghanistan viene presentato come un paese con scarse risorse energetiche (mai sfruttate) che, secondo i dati risalenti ancora al tempo dell'occupazione sovietica, consistono in riserve petrolifere per 95 milioni di barili (concentrati nella zona di Herat), giacimenti di gas naturale per 5 trilioni di piedi cubi (nell'area di Shebergan) più 400 milioni di tonnellate di carbone (tra Herat e il Badakshan).
Risorse troppo esigue per giustificare un'invasione militare costata finora, ai soli Stati Uniti, quasi 230 miliardi di dollari.
Molti in Afghanistan parlano di giacimenti di uranio nel deserto della provincia meridionale di Helmand, il cui controllo e sfruttamento sarebbe al centro di un'aspra contesa tra forze britanniche e statunitensi. Ma per ora questa storia non avuto alcuna conferma.

La pipeline Trans-Afgana. Questa è considerata da molti la vera motivazione che ha spinto gli Stati Uniti ad invadere l'Afghanistan nel 2001.
Il progetto di costruire una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l'Afghanistan occidentale (Herat e Kandahar) viene avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal (per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad) in cooperazione con il regime talebano (nel 1996 la Unocal apre una sede a Kandahar e l'anno dopo esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa).
L'idea viene accantonata alla fine degli anni '90 in attesa che "la situazione politica e militare dell'Afghanistan migliori" (fonte Eia, dicembre 2000). Vista l'impraticabilità del corridoio sud-asiatico, l'Occidente decide di puntare su quello sud-caucasico, aprendo nel 2006 un gasdotto che porta il gas turkmeno in Turchia via Mar Caspio, Azerbaigian e Georgia (e che dal 2015 verrà collegato al gasdotto Nabucco).
Il progetto della pipeline trans-afgana, però, non viene abbandonato. I tre paesi coinvolti riprendono a discuterne dal 2002 in poi, e nell'aprile 2008 firmano un accordo, anche con l'India, che prevede l'apertura del gasdotto entro il 2018 (previsione eccessivamente ottimistica secondo gli analisti di settore). A finanziare il progetto (7,6 miliardi di dollari) è la Banca per lo Sviluppo Asiatico (di cui gli Stati Uniti sono i maggiori azionisti assieme al Giappone). Le compagnie petrolifere interessate sono quelle statunitensi, britanniche e canadesi.
Per quanto importante, appare azzardato individuare in questo progetto - di difficilissima realizzazione e surclassato da altre rotte gasifere - la ragione della prosecuzione dell'occupazione occidentale dell'Afghanistan.

Posizione strategica. L'Afghanistan ha la sfortuna di trovarsi nel cuore del continente asiatico, in una posizione strategica che consente a chi lo controlla di monitorare da vicino tutte le potenze nucleari della regione, Cina, Russia, India e Pakistan, e di completare l'accerchiamento dell'Iran, che in caso di guerra con gli Usa si troverebbe a fronteggiare un attacco su due fronti: quello iracheno e quello afgano.
Secondo molti analisti militari la volontà statunitense di controllare l'Afghanistan va però letta soprattutto in chiave di contrapposizione alla Cina, considerata dal Pentagono come la maggiore minaccia potenziale all'egemonia militare ed economica globale degli Stati Uniti non solo in Asia, ma anche in Medio Oriente, Africa e America Latina. Una minaccia divenuta più reale dopo la creazione, nel giugno 2001, dell'alleanza politico-militare guidata da Pechino: l'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Sco), che riunisce la Cina, la Russia, le repubbliche centroasiatiche e presto, forse, anche l'Iran. E che in futuro, vista la sua progressiva integrazione con l'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), l'alleanza politico-militare a guida russa, potrebbe estendere la sua influenza fino all'Europa orientale (Bielorussia) e al Caucaso (Armenia), diventando a tutti gli effetti un'alleanza contrapposta alla Nato a guida Usa. Un Afghanistan sotto controllo statunitense rappresenta una spina nel fianco per la Cina, in particolare per la sua prossimità allo Xinjang, regione ricchissima di petrolio destabilizzata dal nazionalismo uiguro (tradizionalmente sostenuto dalla Cia).
La rilevanza geostrategica dell'Afghanistan è innegabile e ha certamente giocato un ruolo importante nella decisione statunitense di occupare l'Afghanistan e di impiantarvi basi militari permanenti.

Il business della droga. Ma forse dietro la guerra in Afghanistan si nascondono interessi ancor più grandi e inconfessabili: quelli legati al controllo del traffico mondiale dell'eroina, ovvero di uno dei business più redditizi del pianeta, con un giro d'affari annuo stimato attorno ai 150 miliardi di dollari l'anno.
Non è un mistero che il boom della produzione di oppio/eroina negli anni '70 nel cosiddetto Triangolo d'Oro (Laos, Birmania e Cambogia) sia stato opera dalla Cia, che con i ricavi del narcotraffico finanziava le operazioni anti-comuniste nel Sudest asiatico. Lo stesso sistema - e questo è altrettanto risaputo - fu adottato dalla Cia negli anni '80 in America Latina, per finanziare (con i proventi della coca) la guerriglia antisandinista dei ‘Contras' in Nicaragua, e in Afghanistan per finanziare (con i proventi dell'eroina) la resistenza anti-sovietica dei mujaheddin. In Afghanistan il business continuò anche negli anni '90 e si incrementò con l'avvento al potere dei talebani, notoriamente sostenuti dalla Cia. Fino a quando nel 2000 il mullah Omar, allo scopo di guadagnare sostegno internazionale al suo regime, decise di vietare la produzione di oppio, che infatti nel 2001 crollò a livelli prossimi allo zero. Produzione che nell'Afghanistan ‘liberato' e controllato dalle forze armate e dall'intelligence Usa è ripresa a pieno ritmo fin dal 2002 (quando ancora i talebani non erano tornati) polverizzando ogni record storico e trasformando in pochi anni il paese sud-asiatico nel principale produttore mondiale di eroina (93 per cento della produzione mondiale). Una situazione che le forze Usa presenti in Afghanistan si sono sempre rifiutate di contrastare dicendo che questo "non era compito loro" e lasciando che se ne occupasse il governo-fantoccio di Kabul.
Secondo un numero sempre maggiore ed eterogeneo di esperti e di persone ‘ben informate', la Cia avrebbe in sostanza appaltato produzione e lavorazione di droga al ‘narco-Stato' guidato da Karzai, proteggendo le rotte di smercio via terra (Pakistan, Iran e Tajikistan) e gestendo direttamente il trasporto aereo all'estero.

Una nuova Air America? Secondo un'inchiesta televisiva condotta dal canale russo Vesti l'eroina afgana viene portata fuori dall'Afghanistan a bordo dei cargo militari Usa diretti nelle basi di Ganci, in Kirghizistan, e di Inchirlik, in Turchia. Spesso, ha scritto sul Guardian la giornalista afgana Nushin Arbabzadah, nascosta nelle bare dei militari Usa, riempite di droga al posto dei cadaveri.
"Penso che sia possibile che questo avvenga, anche se non lo posso provare", ha diplomaticamente commentato l'ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov.
Il giornalista russo Arkadi Dubnov di Vremya Novostei, riportando informazioni fornitegli da una fonte all'interno dei servizi afgani, ha scritto che "l'85 per cento di tutta la droga prodotta in Afghanistan è trasportata all'estero dall'aviazione Usa".
Quest'estate il generale russo Mahmut Gareev, un ex comandante delle truppe sovietiche in Afghanistan, ha dichiarato a Russia Today: "Gli americani non contrastano la produzione di droga in Afghanistan perché questa frutta loro almeno 50 miliardi di dollari all'anno. Non è un mistero che gli americani trasportano la droga all'estero con i loro aerei militari.".
Il giornalista statunitense Dave Gibson di Newsmax ha citato una fonte anonima dell'intelligence Usa secondo la quale "la Cia è sempre stata implicata nel traffico mondiale di droga e in Afghanistan sta semplicemente portando avanti quello che è il suo affare preferito, come aveva già fatto durante la guerra in Vietnam".
L'economista russo Mikhail Khazin in un'intervista ha dichiarato che "Gli americani lavorano duro per mantenere in piedi il narcobusiness in Afghanistan attraverso la protezione che la Cia garantisce ai trafficanti di droga locali".
"Gli Stati Uniti non contrastano il narcotraffico afgano per non minare la stabilità di un governo sostenuto dai principali trafficanti di droga del Paese, a cominciare dal fratello di Karzai", scrive il noto giornalista statunitense Eric Margolis sull'Huffington Post. "Le esperienze passate in Indocina e Centroamerica suggeriscono che la Cia potrebbe essere coinvolta nel traffico di droga afgana in maniera più pesante di quello che già sappiamo. In entrambi quei casi gli aerei Cia trasportavano all'estero la droga per conto dei loro alleati locali: lo stesso potrebbe avvenire in Afghanistan. Quando la storia della guerra sarà stata scritta, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina afgana sarà uno dei capitoli più vergognosi".

Narcodollari per salvare le banche in crisi? Antonio Maria Costa, direttore generale dell'Ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e la Criminalità (Unodc), in un’intervista al settimanale austriaco Profil ha dichiarato: “Il traffico di droga è l'unica industria in espansione. I proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite. Il resto del denaro viene immesso nell'economia legale con il riciclaggio. Non sappiamo quanto, ma il volume è impressionante. Ciò significa introdurre capitale da investimento. Ci sono indicazioni che questi fondi sono anche finiti nel settore finanziario, che si trova sotto ovvia pressione dalla seconda metà dello scorso anno (a causa della crisi finanziaria globale, ndr). Il denaro proveniente dal traffico di droga attualmente è l’unico capitale liquido da investimento disponibile. Nella seconda metà del 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E' ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”.

Enrico Piovesana

Nel ventre della Bolivia

Viaggio fra passato e futuro, fra nuove nazionalizzazioni del presidente Morales e antiche mitologia indigene.

Il litio sta per cambiare il destino della Bolivia.

La mitologia dei Chipaya racconta che sono venuti dal mare.

Loro sono gli indigeni più antichi della Bolivia, forse dell’intera area andina, forse dell’intero continente latinoamericano.

Parlano lingua uru, che nulla ha a che vedere con l’aymara o il quechua, le lingue originarie principali degli altopiani andini. Alcuni studiosi hanno legato il ceppo uru con il maya, con l’arabo e perfino con alcuni dialetti africani.

La loro cultura – difesa con durezza dai pochi rappresentanti – è circondata dal mistero, ma gli aymara sono i primi a riconoscere la grande sabiduria ancora viva in essa: “Sono grandi chamanos (sciamani), parlano con gli elmenti naturali, sono guaritori”, dice Antonio, che ci fa da guida con la su jeep davvero eroica in questi 4 giorni al Salar de Uyuni. Un lampo di serietà attraversa i suoi occhi, lui che è sempre lì che sghignazza mentre ci offre le foglie di coca da pinchare (masticare), unico rimedio efficace e naturale per sopportare i 3 - 4000 metri di altitudine del giro, e mentre ci fa ascoltare le sue musicassette anni ’80 – Rod Steward e robe simili – completamente distorte dal sole, dal sale, dalla radio che ha trent’anni.

I chipaya hanno caratteristiche somatiche particolari, i loro vestiti hanno i colori della terra e del fango, le donne portano i capelli divisi in 60 treccine. Sono adoratori dei morti e dicono di discendere dai costruttori di chullpa, le tombe antiche che ancora si possono incontrare sulle rive del lago Poopò, vicino ad Oruro, e al Titicaca.

Loro forse sono gli ultimi discendenti della cultura Tihuanacu. Dicono di venire dal mare. Per questo per loro il Salar de Uyuni – e il gemello più piccolo, il Salar de Coipasa – sono luoghi sacri: erano immensi laghi salati. Il salar de Uyuni è la distesa di sale più grande al mondo. Attarversarlo fa predere il contatto col tempo e lo spazio. Giochi di luce, miraggi, riflessi e aria rarefatta fanno il resto.

I Chipaya forse saranno gli unici a non essere d’accordo sullo sfruttamento del Salar de Uyuni per l’estrazione del litio, che il governo Morales ha recentemente decretato, in barba alle offerte che le multinazionali di mezzo mondo - Mitsubishi, Sumitomo, LG , Bollore dalla Francia, ultima anche la Russia con Gazprom -stavano avanzando permettere le mani su quel tesoro inestimabile. Sotto il Salar de Uyuni, una distesa di sale di quasi 12.000 metri quadri di primordiale bellezza nel sud ovest della Bolivia, è conservata la più grande riserva di litio del mondo, circa 5, 5 milioni di tonnellate. Praticamente la metà di quella esistente. Il rimanente è diviso fra Tibet, Argentina, Cile.

Il litio serve per tutto ciò che ha sapore di futuro: pile, Blackburry, cellulari, PC,reattori nucleari, aereonautica. Ma sono le automobili di nuova generazione, quelle che hanno rotto il cordone ombelicale con il petrolio, a rappresentare la scommessa commerciale rivoluzionaria del 21 secolo: le ibride in cui le grandi – General Motors, BMW, Chrysler, Toyota e via dicendo – hanno già investito largamente in prototipi.

Evo Morales ha annunciato che la Bolivia correrà da sola. In linea con i principi espressi dalla Costituzione statale appena approvata (lo scorso gennaio), e con la politica di nazionalizzazione delle risorse naturali– già praticata con idrocarburi e gas – un progetto pilota gestito dalla statale Corporación Minera de Bolivia (Comibol) è già partito, con una prospettiva di estrazione attorno alle 1200 tonnellate.

Tutto questo cambia radicalmente la posizione della Bolivia. Da paese più povero del continente, si ritrova ad avere uno strepitoso potere contrattuale.

C’è fermento anche sulle rive del Salar. Qui abitano circa 60.000 persone, perlopiù impegnate a sopravvivere coltivando quinoa e patate ed estraendo sale. A Colchani, nel nord est di Uyuni, la locale coperativa Rosario ne estrae 20.000 tonnellate. Poi, da qualche anno c’è il turismo. Si sono fatti esotici alberghi di sale, e le ragazze e i bambini insistono per venderti piccoli lama e tazzine di sale. C’è una carcassa del treno attaccato da Butch Cassidy y Sundace Kid, che qui intorno ci hanno lasciato le penne. Ci sono fenicotteri rosa e vigogne e lagune dai mille colori. Un paradiso incontaminato visitabile con viaggi organizzati e tour.

Antonio, ormai più amico che semplice guida, ci racconta della sua povertà, della sua famiglia. “Con il turismo ora campo. Se arriveranno le miniere di litio, almeno spero che noi locali potremo guadagnarci. Evo l’ha promesso”. Nel 1992 la popolazione aveva cacciato la statunitense Lithium Corporation. Ma ora le cose sono diverse. C’è il primo presidente indigeno della Bolivia che ha promesso lo sfruttamento del sottosuolo alle popolazioni locali. La Frutcas, federazioni che riunisce i contadini dell’Altipiano, ha già dato il suo appoggio ufficiale al progetto di etsrazione del litio.

Noi che scivoliamo accanto alla Isla Inca Huasi, un’isola nel mezzo della distesa del Salar coperta di cactus giganti fioriti di bianco e giallo, vorremmo stare con i Chipaya.Ballare con loro nelle feste dei morti invocando la protezione del Creato con le teste di lama nelle mani e i pesci secchi appesi alle vesti. Non ne siamo capaci. Non ne abbiamo proprio diritto. Possiamo solo sperare che questa impronta di eternità nel cuore della Bolivia si mantenga integra. Oppure, che la Bolivia non sia più povera. Oppure che non si debba sempre scegliere sempre fra le due.

di Francesca Caprini per la Nuova Ecologia

Tratto da:

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!