domenica 20 dicembre 2009

L'ipocrisia del "Yes, we can" sull'America Latina

Honduras laboratorio per la nuova politica nordamericana nel continente


di Giorgio Trucchi

Indipendentemente da ciò che accadrà durante le prossime settimane e fino al 27 di gennaio, data in cui Porfirio Lobo Sosa, vincitore delle discusse elezioni in Honduras, prenderà possesso di una carica che fino a questo momento quasi nessun paese riconosce, risulta sempre più evidente che quanto successo lo scorso 28 giugno segnerà un significativo passo indietro per il consolidamento della democrazia nel continente latinoamericano.
All'interno di questo contesto non si possono non prendere in considerazione le evidenti responsabilità del nuovo governo nordamericano e della sua offensiva per riposizionarsi all'interno del continente.

Con il colpo di Stato in Honduras, i poteri forti di questo paese che, insieme agli apparati repressivi e ai suoi alleati internazionali controllano l'economia e la politica honduregna, sono riusciti a frenare un processo emancipativo nel quale per la prima volta nella storia dell'Honduras,le forze vive del paese stavano collaborando con il potere Esecutivo per immaginare e programmare un futuro diverso, proiettandosi verso un progetto di Assemblea Nazionale Costituente includente e marcatamente popolare.

Parallelamente, l'Honduras aveva iniziato un percorso per rafforzare l'unità centroamericana e latinoamericana, aderendo al Sistema d'integrazione centroamericano, Sica, a Petrocaribe e all'Alba.

Sicuramente troppo per le forze retrograde del paese e del continente che vedevano minacciati i loro interessi storici e lo status quo mantenuto per decadi grazie alla violenza e alla repressione di apparati militari al servizio dei gruppi di potere e dei loro alleati internazionali.

In questo contesto non devono quindi sorprendere, ma sicuramente sì indignare, le recenti dichiarazioni della titolare della politica estera del governo nordamericano, Hillary Clinton, durante la sua relazione sui rapporti tra gli Stati Uniti e l'America Latina.

"Ci preoccupano i leader che vengono eletti in modo libero e legittimo, ma che poi iniziano a scalfire l'ordine costituzionale e democratico dopo essere stato scelti, il settore privato, il diritto dei cittadini a vivere liberi dalla persecuzione, repressione e di potere partecipare liberamente all'interno delle loro società", ha detto Clinton volgendo il dito accusatore contro il Venezuela, il Nicaragua e, pur senza menzionarli, tutti quei governi che non seguono fedelmente i "consigli" di Washington.

Sarebbe interessante potere domandare alla signora Clinton ed al fiammante Premio Nobel per la Pace, che cosa si è voluto dire con queste parole. O per caso non si sono accorti che in Honduras c'è stato un colpo di Stato e che il Presidente legittimo di questo paese continua a rimanere rinchiuso in un'ambasciata, subendo una costante persecuzione?

"Ciò che mi preoccupa è capire come riprendere la strada giusta (per chi?), in cui si riconosca che la democrazia non è un tema di singoli leader, ma di esistenza di istituzioni forti", ha sentenziato Clinton nel suo discorso.

Come classificherebbe l'amministrazione Obama, che immediatamente ha riconosciuto la legittimità di un processo elettorale spurio, senza osservatori, svolto in un clima di repressione, paura e violenza, in un contesto di rottura costituzionale della quale è stato parte lo stesso Tribunale supremo elettorale, lo stato di terrore in cui vive buona parte della popolazione honduregna che non riconosce l'attuale governo di fatto e che non ha voluto essere complice di questa farsa elettorale, che aveva l'unico obiettivo di legittimare e stabilizzare il colpo di Stato?

Sull'Honduras, la titolare del Dipartimento di Stato ha detto che il suo paese ha lavorato in funzione di "un avvicinamento pragmatico, di principi, multilaterale, che si prefiggeva la ricostruzione della democrazia". Di sicuro nessuno l'ha notato e l'unico risultato cercato ed ottenuto con questo "avvicinamento pragmatico" è stato l'annichilamento di tutti i processi di trasformazione avviati ed i risultati raggiunti negli ultimi anni, posizionando strategicamente le proprie pedine, prima su tutte il presidente del Costa Rica, Oscar Arias, per prendere il controllo della situazione a scapito degli sforzi fatti dal primo momento dalla Oea, Onu, i paesi del Sica, dell'Alba e dalle altre istanze del continente latinoamericano.

Per completare la farsa montata dal governo di fatto, ora gli Stati Uniti stanno chiedendo che venga messo in pratica il fumoso Accordo Tegucigalpa-San José, installando un governo di unità e riconciliazione che non prevede la presenza di Manuel Zelaya e nemmeno quella dei suoi ministri e consulenti, la maggior parte dei quali costretti a vivere in esilio. Allo stesso tempo, il governo di fatto di Roberto Micheletti ha inviato al Congresso Nazionale un disegno di legge di amnistia, per "ripulire" l'immagine di chi ha violato sistematicamente i diritti umani durante gli ultimi cinque mesi.

Una nuova pantomima che si prefigge l'obiettivo di legittimare in modo definitivo il colpo di stato, e che pretende di creare un precedente che sia esempio per il resto del continente. Un manuale del perfetto colpo di Stato stile "ventunesimo secolo", che invia un messaggio molto chiaro su quale sarà la politica dell'amministrazione Obama per l'America Centrale e per il Sud America.

Non una guerra aperta e diretta come in Iraq ed Afghanistan, e nemmeno attraverso minacce come la riattivazione dopo 50 anni della famigerata IV Flotta nell'Oceano Atlantico e nei Caraibi, l'installazione delle basi militari in Colombia o con parole dirette come quelle che Hillary Clinton ha rivolto contro chi oserà iniziare o mantenere relazioni d'amicizia con l'Iran. In questo caso si tratta di una guerra subdola, di "bassa intensità", muovendo i fili più infimi della diplomazia e delle catene di agenzie preparate per infiltrare paesi, governi, processi elettorali e movimenti.

Una "guerra necessaria e giustificabile", direbbe il presidente Obama.

La Resistenza: un bastione necessario

Se c'è una cosa che i poteri forti e gli stessi Stati Uniti non avevano calcolato è stata sicuramente la grande capacità di reazione e resistenza del popolo honduregno.

Dopo il 27 di gennaio, l'Honduras dovrà necessariamente voltare pagina, entrando in una nuova tappa della sua tormentata storia. Concluso il periodo presidenziale di Manuel Zelaya, sarà il turno di Porfirio Lobo.

Un governo molto debole, in mezzo ad una violenta crisi economica, con uno scarso riconoscimento a livello internazionale e ostaggio dei principali autori del golpe del 28 giugno, Stati Uniti inclusi. Proprio in questi giorni Lobo sta disperatamente cercando di convincere Roberto Micheletti - e più di lui chi davvero manovra i fili dietro il Presidente fantoccio - ad abbandonare la carica prima del suo insediamento. Spera così di essere un po' più presentabile agli occhi della comunità internazionale.

Di fronte a questo scenario, quella che è stata la Resistenza contro il colpo di Stato, oggi convertitasi nel Fronte nazionale di resistenza popolare, Fnrp, dovrà prepararsi per entrare in questa nuova tappa della lotta e le difficoltà sono già evidenti. La costante e selettiva repressione denunciata a livello internazionale dalle organizzazioni dei diritti umani è un chiaro segnale di quanto i settori retrogradi tradizionali temano questo processo.

Lo scorso 4 e 5 dicembre 2009, delegati e delegate di organizzazioni provenienti da tutto il paese hanno iniziato una storica seconda fase della lotta, per rafforzare il processo organizzativo in vista della creazione di una forza politica alternativa ai partiti tradizionali, capace di condurre il paese verso una Assemblea Costituente.

Durante queste due giornate di lavoro sono state create varie commissioni e gruppi tematici che hanno iniziato a preparare il lavoro per i prossimi mesi. Al termine dell'attività, il dirigente sindacale e coordinatore del Blocco Popolare, Juan Barahona ha spiegato che "la prima fase della lotta è finita ed ora dobbiamo lavorare su un progetto ideologico e politico, affinché tutti i settori organizzati conoscano a fondo la strada da percorrere insieme.

Dobbiamo conoscere a fondo questo percorso ed abbiamo bisogno di una metodologia che ci permetta di arrivare a tutti i settori che si sono schierati contro il colpo di Stato. Una strategia come quella della lumaca (caracol), dal basso verso l'alto, e creare un movimento che faccia tremare i settori golpisti. Dobbiamo approfondire questa nuova strategia - ha continuato Barahona - e proporci di prendere il potere pacificamente prima o durante il prossimo processo elettorale.

Per fare ciò dobbiamo lavorare e con molto impegno. Non possiamo dormire sugli allori, ma al contrario dobbiamo mettere questo progetto al primo posto delle nostre priorità", ha concluso.

Una nuova tappa della lotta del popolo honduregno è iniziata.

Emirati Arabi - Non disturbare il manovratore


Intervista a Sean O'Driscoll, giornalista del quotidiano di Dubai 7days, sulla libertà d'informazione negli Emirati Arabi Uniti


di Elisabetta Norzi e Christian Elia

Uno degli aspetti meno indagati degli Emirati Arabi Uniti è quello della libertà di espressione. Il clima è molto particolare, nel senso che la percezione di libertà è totale. Una presenza discreta delle forze dell'ordine e una totale libertà di movimento, configgono con una realtà sociale fatta di sfruttamento del lavoro, prostituzione e traffici illeciti internazionali. Di tutto questo, però, nei giornali di Dubai e dintorni non c'è traccia. I quotidiani sono tanti: Gulf News, Khaleej Times, The National per citare i più diffusi, in lingua inglese. Tutti estremamente cauti nel riportare i fatti più sgradevoli di una società che sembra pensata per rassicurare, divertire e incitare all'investimento e alla spesa. Con un rispetto verso le famiglie regnanti nei sette emirati che sfiora la piaggeria. Tra loro si fa largo un free-press: 7days. Anche questo in lingua inglese, si caratterizza per un minimo di inchieste più spinose, seppur diluite tra articoli di un peso specifico non indimenticabile. Della situazione dei media negli Emirati ne abbiamo parlato con Sean O'Driscoll, giornalista irlandese trapiantato a Dubai, un passato tra Associated Press e Irish Times, firma di punta del giornale.

Come è la situazione dei media nel Paese?
La carta stampata, come i media in generale, negli Emirati Arabi Uniti sono sottoposti a un controllo molto rigido da parte del governo. La maggior parte delle testate sono, almeno in parte, di proprietà di esponenti dell'esecutivo. Anche i giornali indipendenti, che sono molto rari, devono avere comunque uno sponsor locale, come è richiesto a ogni azienda negli Emirati, e questo è un altro canale di controllo da parte dello Stato. Se si confronta la situazione con altri paesi del Golfo, però, alcuni giornali, anche se non si può certo parlare di stampa libera, di anno in anno riescono a guadagnarsi un po' più di spazio, un po' più di libertà.

In che modo il governo controlla l'informazione?
Nella maggior parte dei casi si tratta di una sorta di autocensura da parte dei media stessi. E' come se ci fosse una linea oltre la quale è pericoloso andare, anche se la linea non è chiara, non è ben definita. Negli ultimi anni la linea arretra sempre di più, si può scrivere più liberamente, andare più a fondo nelle questioni che riguardano la città e il Paese. Ma non sai mai fino a che punto puoi spingerti, fino a che punto puoi addentrarti nelle questioni che riguardano lo Stato, lo sceicco, e questo i giornali lo sanno, lo tengono sempre ben presente. Qualche miglioramento comunque c'è stato, se si scrive qualcosa di critico verso il governo, si rischia al massimo la chiusura del giornale e non più l'arresto dei giornalisti come avveniva fino a non molto tempo fa.

Quindi qualcosa è migliorato negli ultimi anni?
Sono state varate nuove leggi a tutela della libertà d'informazione, ma sono molto contraddittorie: da una parte queste norme costringono i media entro certi limiti, dall'altra aboliscono l'arresto dei giornalisti che criticano il governo. Se si confronta la situazione con l'Italia o con l'Occidente in generale, è evidente che qui i media sono strettamente controllati, ma bisogna ragionare a un micro livello: ogni anno si guadagna qualche millimetro di libertà. Se si guarda da una prospettiva occidentale, è chiaro che la situazione appare terribile.

Anche tu sei stato costretto in qualche occasione a fermarti, a non scrivere tutto?

Un esempio recente. Abbiamo scritto di prostituzione, un grosso "elefante in camera", come si dice in inglese, e cioè qualcosa di molto visibile, sotto gli occhi di tutti, ma di cui non si può dire nulla. Se vai in qualsiasi bar a Dubai è difficile bere tranquillamente un drink, perché devi tenere gli occhi bassi, ti muovi davvero tra una prostituta e l'altra. Se ne parli, però, sono guai. Una volta abbiamo aperto il giornale con una statistica sulle malattie sessuali tra le prostitute e abbiamo avuto dei grossi problemi per quell'articolo. Abbiamo cercato di allargare il discorso sulla prostituzione in tutto il mondo, di dosare bene ogni singola parola, ma non è servito: di prostituzione non si può parlare in prima pagina. Eppure qui è un problema enorme: ragazze che arrivano dalla Russia, dall'Armenia, dall'Azerbaijan, vivono in condizioni difficilissime. E' così frustrante vedere queste ragazze, le loro condizioni di vita, e non poterne scrivere, non poter denunciare la situazione.

Come fate a trattare certi argomenti?
Siamo "autorizzati" a trattare i casi più eclatanti, parlando solo dei fatti, come ad esempio la recente storia di una donna armena arrestata e condannata a tredici anni di carcere per avere fatto arrivare illegalmente a Dubai alcune ragazze e averle costrette a prostituirsi. Ci è stato permesso di raccontare questa storia e di intervistare le persone coinvolte, ma quando provi ad emanciparti dalla versione ufficiale delle forze dell'ordine e ad andare per strada, a parlare con le persone, a fare qualcosa di autonomo, di separato, ecco che arrivano i problemi. Abbiamo avuto guai anche con la Dubai media free zone, che dovrebbe essere più aperta, e invece sono stati davvero rigidi verso di noi quando abbiamo raccontato di una storia di prostituzione. Se segui quello che fa la polizia tutto bene, appena ti allontani da quello che è ufficiale, tutto si complica.

Quali sono gli altri temi "proibiti"?
Anche se ti occupi ti cultura o di economia puoi avere dei problemi. Ad esempio i problemi economici di Dubai. Tutto quello che danneggia l'immagine del Paese non è gradito, è un'ossessione per loro. Recentemente abbiamo scritto dei titoli spazzatura in borsa a Dubai, ma questo argomento è inaccettabile per il potere.
Una volta abbiamo avuto problemi anche a scrivere di un libro comico su come diventare prostitute, e siamo stati accusati di voler insinuare che le donne emiratine, le donne musulmane sono puttane. Sapevano bene che non era quello che volevamo dire, ma ci hanno richiamati ugualmente, solo per intimidirci. Tutto quello che può mettere in cattiva luce Dubai, che si tratti di economia o cultura, può metterti nei pasticci, per questo alla fine ci si auto censura.

Tu vivi qui da oltre un anno ormai, cosa pensi del modello economici di Dubai?
Da un lato mi piace molto: penso ci sia qualcosa di davvero visionario in chi ha pensato questa città. In pochi anni il petrolio finirà e pensare a una città come questa, che vive di servizi è stato molto intelligente. Se si paragonano ad altri paesi del Medio Oriente, gli Emirati stanno andando bene, ma penso che tutto quello che sta dietro, che ha permesso a Dubai di diventare quello che è, manca completamente di trasparenza. Le persone comprano appartamenti che non esistono, a Dubai in particolare c'è una situazione da selvaggio west, nulla è regolato: è proprio di questa settimana la notizia di un carico di diamanti e oro a Dubai, provenienti dalle zone di conflitto dell'Africa, e poi c'è la questione del riciclaggio di soldi sporchi. Quello che voglio dire è che il modello economico ha di sicuro successo, nel senso che funziona, ma sotto la superficie ci sono soldi sporchi.

Hai scritto del riciclaggio di soldi?
Sì, cito un esempio recente, che riguarda anche l'Italia: attraverso un salone di bellezza del nord Italia venivano fatti arrivare soldi a Dubai, frutto di spaccio di eroina. La polizia italiana ha parlato di quattro milioni di dollari al giorno. I soldi venivano poi "lavati" attraverso l'enorme commercio di oro e diamanti che c'è a Dubai. Sono andato a parlare con uno dei negozianti che si presume siano coinvolti, ma la persone che era lì mi ha detto di essere solo un impiegato, di non sapere nulla di quello che di fatto è uno dei più grandi riciclaggi di denaro del mondo. Io non gli ho creduto, ma questo è indicativo di come funziona il sistema qui: quando cammini nel grande suq dell'oro di Dubai tutto sembra perfetto, pulito, meraviglioso, e così non ti fermi a pensare che cosa ci possa essere dietro la superficie.

Cosa ne pensi, invece, di un altro aspetto di questo sistema, e cioè dei lavoratori migranti che costruiscono la città?

Questo è davvero un problema enorme, non facile da risolvere. Penso che non possano bastare nemmeno leggi chiare sul lavoro, ma che sia necessario introdurre il sistema delle rappresentanze sindacali, perché è impossibile che riesca a fare qualcosa il singolo lavoratore. Senza sindacati non riesco a immaginare progressi o una soluzione. Oggi ho accompagnato dal dottore una ragazza filippina, che fa la domestica ed è stata violentemente picchiata dal suo datore di lavoro: voleva costringerla a prostituirsi. Poi ci sono tutti i lavoratori che provengono dall'India o dal Bangladesh e che lavorano nell'edilizia. A loro, prima di partire, viene promesso un ottimo stipendio, ma poi arrivano a Dubai, gli viene confiscato il passaporto per due anni, gli stipendi che ricevono sono bassissimi, a volte non vengono neppure pagati. Arrivano qui pensando di poter mandare a casa un sacco di soldi alle loro famiglie, e si trovano a non saper cosa fare, senza nessuno a cui rivolgersi o a cui chiedere aiuto. Penso che dovrebbero esserci regole molto rigide sulle società di reclutamento che operano in Cina, in India, alle quali si appoggiano anche le grandi compagnie per avere la manodopera. Ma questo non succede.

Che cosa puoi scrivere di questo?

Ancora una volta, il punto è che non sei mai sicuro fin dove puoi spingerti, dove è la linea oltre la quale non puoi andare. Recentemente mi sono occupato di una protesta tra i lavoratori cinesi, fuori dalla città, nella free zone. Si sono rifiutati di andare a lavorare perché non ricevevano lo stipendio da mesi. Erano impiegati da un appaltatore in una grossa compagnia statale che sta costruendo alberghi accanto al grattacielo più alto del mondo. Erano arrivati al punto che non potevano andare avanti, senza stipendio. Sono andato lì e il supervisore del campo mi ha detto di essere stupito che fossi l'unico giornalista e lo ero anche io perché la situazione era davvero grave, sembrava una guerra: finestre rotte, porte sfondate, cattivo odore. I supervisori cinesi si erano barricati in ufficio e i lavoratori hanno sfondato le porte e li hanno costretti ad inginocchiarsi e a togliersi le cravatte. Una scena davvero drammatica, perché i supervisori non avevano alcuna colpa se l'azienda non pagava i lavoratori, anche loro erano solo impiegati. C'è stato molto dibattito tra i media sul modo di trattare questa notizia: qualcuno sosteneva di pubblicare tutto e dare massimo risalto, qualcuno di mantenere un profilo più basso. Se pubblichi fotografie, parli delle società nell'orbita di proprietà di personaggi al governo cominciano i problemi. Alla fine, l'essenza del problema, è che certe volte è possibile entrare nei campi dove vivono i lavoratori e scrivere delle difficoltà dei lavoratori migranti, ma se cominci a creare dei rapporti con i lavoratori, a parlare delle aziende, cominciano i guai.

Come è la situazione sul web? C'è più dibattito, più partecipazione, più libertà?

I siti che parlano di sesso o di tematiche come l'omosessualità, ma anche quelli che parlano di Israele, sono bloccati. Non si aprono, sono censurati, e anche certi blog lo sono. Ma se si leggono i siti online dei giornali, i forum sui temi principali, si trovano davvero i commenti più interessanti sugli Emirati. Non c'è censura e la gente si esprime liberamente. Questo accade perché non ci sono le risorse per controllare tutto, ogni singolo commento su ogni sito internet. La comunità che partecipa a questi forum è davvero vivace.

Qualche esempio dei temi più discussi?
Ha acceso un grande dibattito la vicenda della ragazza filippina che ho già citato, picchiata dalla famiglia per cui lavorava come domestica. Ho letto commenti davvero interessanti, anche di altre domestiche filippine che raccontavano la propria esperienza. E' molto difficile raccogliere testimonianze dirette sulla carta stampata, perché le persone hanno paura, e quando vedi le persone comuni che intervengono su questi temi è davvero molto interessante, è un bel segnale.

Cosa pensi della comunità degli stranieri occidentali, i cosiddetti expat, che vivono qui: sono attenti a questi problemi, hanno qualche influenza per poter cambiare la situazione?
In molti sono sensibili ai problemi sociali di Dubai. Molti giornalisti vengono qui dall'Europa e poi scrivono solo degli expat interessati alle macchine, ai night club, agli abiti alla moda. Io non penso che questa immagine sia corretta. La maggior parte degli occidentali vengono qui per avere un lavoro migliore, in particolare in questo ultimo anno di recessione globale. Molti di loro fanno fatica a vivere qui, ad adattarsi a un sistema così diverso da quello europeo, un sistema in cui mancano i diritti. Penso ci sia uno stereotipo sugli expat, lo spero almeno.

Sei ottimista per il futuro, qualcosa sta cambiando?
Io penso che le cose cambieranno, ma lentamente. Un esempio recente è il video, che ha fatto il giro del mondo, di un fratello dello sceicco che tortura un uomo. Non è stato chiaro come sia andata, ma è stato comunque un punto di rottura, perché molti emiratini si sono vergognati per il loro Paese. Gli emiratini vogliono davvero essere internazionali, non vogliono assomigliare all'Iran o all'Arabia Saudita, vogliono apparire progressisti. Il vero problema è che qui vogliono i lati postivi della globalizzazione, vogliono gli Starbucks, abiti firmati, ma non vogliono le conseguenza, che sono il rispetto dei diritti umani, gli standard di trasparenza internazionali. Comunque ora sanno che per rimanere nel sistema economico mondiale devono rispettare certi parametri.

Tratto da:

BOICOTTA TURCHIA

Viva EZLN

Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

La lucha sigue!