di Irene Panozzo
Il terreno scende verso la sponda del grande Nilo, accanto a un boschetto di splendidi manghi carichi di frutti arancioni. Sotto le loro fronde, uomini donne e molti bambini bivaccano da giorni, buttati su stuoie e reti di letti a guardia dei loro pochi beni, in attesa di riprendere il viaggio. La luce intensa del tramonto accarezza le famiglie impegnate a caricare fino all’inverosimile i camion che domani li riporteranno alle loro zone di origine, dopo dieci, quindici o vent’anni passati al Nord, perlopiù nelle vaste periferie della capitale Khartoum. Il porto di Juba non ha molto da offrire all’ennesimo gruppo di returnees, i sudsudanesi che ritornano al Sud dopo un’intera vita da sfollati nella parte settentrionale del paese. Nella maggioranza dei casi se n’erano andati per sfuggire al conflitto e a Khartoum hanno trovato lavoro e delle scuole per i figli, pur continuando a vivere in situazioni di povertà e precarietà estrema, con il costante rischio di veder arrivare le ruspe a distruggere gli insediamenti abusivi dove a migliaia avevano costruito le loro baracche e capanne.
La Tunisia ieri si è risvegliata, lentamente, con un'unica certezza: Ben Ali se n'è andato e non tornerà più. Le sue innumerevoli gigantografie sono state spazzate via (opera dell'esercito) dalla capitale, quasi tutte. Sul resto, tutte le incognite sono aperte. Nel centro di Tunisi le strade sono blindate e lo saranno sempre più con il passare delle ore: carri armati e blindati, soldati e poliziotti, soprattutto in borghese, ai quali si aggiungono quelli con i manganelli. La maggiore concentrazione è intorno al ministero dell'interno, il simbolo della repressione del regime, dove sono stati detenuti molti oppositori e alcuni lo sarebbero ancora. Le strade adiacenti sono chiuse, ma superando i cordoni di poliziotti poco tranquillizzanti, ci si ritrova tra i resti delle battaglie del giorno prima, insieme ai rifiuti abbandonati e puzzolenti.